Tumori del Colon-Retto e dell’Ano

1.0 EPIDEMIOLOGIA E FATTORI DI RISCHIO
1.1 Epidemiologia descrittiva
1.2 Fattori ambientali di rischio
1.3 Polipi colorettali ed altri fattori di rischio
1.1 Epidemiologia descrittiva
Il carcinoma del grosso intestino è una delle principali cause di
morbilità e mortalità per tumore, in tutti i Paesi occidentali. In
Europa, è il tumore più frequente nei non fumatori dei due sessi
combinati. In Italia, l’incidenza stimata è di 40-45.000 nuovi casi
l’anno; muoiono a causa della malattia circa 20.000 persone ogni anno. I
tassi di incidenza e mortalità più elevati si registrano nell’Italia
centro-settentrionale, quelli più bassi nel meridione e nelle Isole.
Negli ultimi decenni in Italia, come in gran parte dell’Europa, gli
andamenti temporali di mortalità sono stati favorevoli, con una
diminuzione di oltre il 20% negli ultimi 15 anni. Questi andamenti
favorevoli sono stati più precoci nelle donne ed il rapporto di
mortalità tra i due sessi (M/F) per il tumore dell’intestino è cresciuto
da 1.2 negli anni ’50 fino ad arrivare a 1.5 (1-3). I tumori del grosso
intestino presentano almeno tre caratteristiche di interesse:
– alcuni fattori di rischio ambientali noti;
– lesioni precancerose – gli adenomi – che sono i precursori biologici della maggior parte dei carcinomi;
– una base genetica, almeno in una parte di questi tumori.
1.2 Fattori ambientali di rischio
I fattori ambientali più frequentemente associati ad un aumentato
rischio di cancro colorettale sono prevalentemente di natura alimentare.
Tra questi, i più documentati sono:
– il sovrappeso, l’obesità e il diabete mellito;
– una dieta ipercalorica;
– un eccessivo consumo di carni rosse;
– una dieta povera di fibre e ricca di cereali raffinati ad elevato indice e carico glucidico;
– un eccessivo consumo di alcool.
Sebbene il gruppo dei fattori di rischio sia abbastanza numeroso,
occorre tuttavia sottolineare che si tratta sempre di rischi relativi
piuttosto limitati e lo stesso vale per i fattori protettivi. In altre
parole, il rischio legato ai vari fattori ambientali non può certo
paragonarsi, nelle sue implicazioni pratiche, al rapporto esistente fra
fumo e cancro del polmone o fra virus epatitici e carcinoma epatico (4).
Il consumo di zuccheri e carboidrati raffinati sembrerebbe aumentare il
rischio di cancro del colon-retto, mentre il ruolo delle fibre appare
più complesso e resta tuttora indefinito. Un’alimentazione ricca di
vegetali sembra svolgere un ruolo protettivo, ma le indagini
epidemiologiche sull’argomento hanno prodotto risultati non del tutto
coerenti (5). La potenziale protezione esercitata dalla verdura è stata
attribuita al contenuto di numerosi fattori vitaminici, quali ad esempio
i folati e la vitamina D, e di fibre non assorbibili oltre che di
componenti alimentari, cereali, flavonoidi ed altri polifenoli (6,7).
Il consumo di caffè sembra associato ad un ridotto rischio di sviluppare
tumori del colon-retto, ma la relazione di causa-effetto resta aperta a
discussione (8). Il consumo di frutta non appare invece svolgere un
ruolo significativo nel modificare, in senso positivo o negativo, il
rischio per tale patologia.
Tra i fattori non legati all’alimentazione, resta controverso il ruolo
del fumo di tabacco, che comunque è stato associato ad un rischio
aumentato in diversi studi, mentre vi è ormai accordo sul fatto che
l’attività fisica svolga un ruolo protettivo in particolare sul tumore
del colon, indipendentemente dal peso corporeo (5). Per una miglior
prevenzione è quindi importante evitare uno stile di vita sedentario.
Vari studi hanno rilevato associazioni dirette tra peso corporeo, in
particolare rapporto vita/fianchi e tumori del colon e, in misura
minore, del retto (9). Per tale motivo il Medico di Medicina Generale
può svolgere un ruolo rilevante nella prevenzione primaria di questa
neoplasia (vedi cap. 10).
Non vi è alcun dato coerente sull’eventuale associazione con particolari esposizioni occupazionali.
I dati sul possibile ruolo degli ormoni femminili ed in particolare
delle terapie ormonali sostitutive sul rischio di neoplasie del
colon-retto sono rassicuranti. Gli studi condotti in Italia concordano
con i risultati ottenuti in altri Paesi e stimano una riduzione del
rischio di circa il 20% nelle donne che hanno fatto uso di terapie
ormonali in menopausa. Una revisione dei risultati ottenuti da circa 15
studi osservazionali sul ruolo dell’aspirina ha confermato che l’uso di
questo farmaco è associato ad una riduzione del rischio di tumore del
colon-retto di circa il 20-30%. Occorre precisare che tali dati fanno
riferimento all’assunzione a lungo termine del farmaco (10). Inoltre,
tale effetto non è tipico della sola aspirina; infatti, è stato rilevato
anche con l’assunzione di Sulindac e, più recentemente, per gli
inibitori selettivi della COX2. Un ruolo protettivo sembra essere svolto
anche dall’assunzione di piccole dosi di acido acetilsalicilico, come
quelle assunte con finalità anti-aggregante.
1.3 Polipi colorettali ed altri fattori di rischio
Vi è ormai accordo fra clinici e patologi nel ritenere che la gran
maggioranza dei carcinomi colorettali si sviluppi a partire da lesioni
inizialmente benigne, i polipi adenomatosi. La sequenza
adenoma-carcinoma è stata inizialmente suggerita da dati morfologici,
poi consolidata da dati clinici ed epidemiologici ed infine, confermata
da osservazioni biomolecolari. Ciò, tuttavia, non esclude che una parte
di tumori colorettali possa anche svilupparsi senza essere preceduta da
adenomi. In recenti casistiche di soggetti sottoposti a colonscopia
totale per screening, sorveglianza o diagnosi in presenza di sintomi, si
è riscontrato che lesioni con morfologia non polipoide (piatta)
rappresentano circa un terzo delle lesioni neoplastiche benigne o
inizialmente invasive.
L’importanza della sequenza adenoma-carcinoma è intuitiva; essendo i
polipi facilmente asportabili per via endoscopica, è teoricamente
possibile interrompere tale sequenza e quindi prevenire lo sviluppo di
un tumore maligno, attraverso periodici controlli endoscopici dei
soggetti a rischio.
Gli adenomi colorettali sono molto frequenti nella popolazione generale;
non è noto se tutti questi adenomi siano destinati ad evolvere verso
lesioni maligne ed il tempo richiesto per tale trasformazione.
Si ritiene tuttavia che il rischio di evoluzione verso una forma cancerosa sia dipendente da:
– morfologia (rischio maggiore per soggetti con lesioni sessili o con
lesioni piatte con depressione rispetto alla mucosa circostante);
– istotipo (rischio maggiore per soggetti con polipi a componente villosa);
– dimensioni del polipo (sono più predisposti alla trasformazione
maligna i polipi di diametro superiore a 1 cm; per lesioni piatte
depresse, tuttavia, la trasformazione è possibile anche per lesioni
inferiori al centimetro);
– numero di polipi (rischio maggiore per i soggetti con polipi multipli);
– grado di displasia.
Inoltre, la storia familiare di tumori intestinali e particolari
condizioni cliniche, come la colite ulcerosa di lunga data o il morbo di
Crohn ed il diabete, aumentano il rischio di tumore del colon-retto.
Ciò implica l’estensione dei programmi di sorveglianza a questi soggetti
ai fini della diagnosi precoce.
Un importante strumento per la diagnosi precoce è il test del sangue
occulto nelle feci, che porta ad una riduzione della mortalità per
tumore del colon-retto del 15-20% (11) (vedi cap. 3). Restano aperte
però le questioni dell’applicazione di questo test nella popolazione
generale e soprattutto, del suo rapporto costo-efficacia. Analogamente
verosimile, ma ancora da quantificare attraverso studi clinici
controllati, è il ruolo della rettosigmoidoscopia e soprattutto della
colonscopia nella riduzione della mortalità da neoplasie del
colon-retto.
Infine, nel definire le categorie a rischio da sottoporre ad
accertamenti, va tenuto presente il ruolo svolto dall’invecchiamento,
che in effetti è il principale fattore di rischio sia per gli adenomi
sia per i carcinomi colorettali (8).
Programmi organizzati di screening per il carcinoma colorettale sono
raccomandati nella popolazione generale a partire dai 50 anni di età.
L’età di inizio della sorveglianza attiva può essere inferiore per i
soggetti con elevato rischio familiare (8).
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2.0 FATTORI FAMILIARI ED EREDITARI
2.1 Sindrome di Lynch
2.2 Poliposi adenomatosa familiare
2.3 Poliposi adenomatosa associata a MUTYH
2.4 Identificazione e sorveglianza dei pazienti con tumori colorettali ereditari e dei soggetti a rischio
2.5 Familiarità neoplastica
Esistono diverse condizioni genetiche che predispongono allo sviluppo di
tumori colorettali. Le principali sono la sindrome di Lynch o cancro
colorettale ereditario non associato a poliposi (Hereditary
Non-Polyposis Colorectal Cancer, HNPCC) e la poliposi adenomatosa
familiare (Familial Adenomatous Polyposis, FAP) (1-3). La prima è dovuta
a mutazioni costitutive nei geni di riparazione degli errori di
appaiamento del DNA (Mismatch Repair, MMR), la seconda a mutazioni nel
gene APC. Entrambe queste forme ereditarie si trasmettono in
maniera autosomica dominante. Recentemente, è stata identificata una
particolare forma di poliposi intestinale a trasmissione recessiva,
dovuta a mutazioni del gene MUTYH (4) e denominata poliposi adenomatosa associata a MUTYH (MUTYH-Associated Adenomatous Polyposis, MAP).
2.1 Sindrome di Lynch
Circa il 2-3% di tutti i tumori del colon-retto insorgono in soggetti
affetti da sindrome di Lynch. Il rischio di carcinoma colorettale per
questi soggetti è variabile, ma si stima un rischio massimo cumulativo
del 75% per gli uomini e del 50% per le donne (1).
La diagnosi di questa sindrome è generalmente complessa, poiché non
esistono caratteristiche patognomoniche specifiche che permettano di
distinguere tali neoplasie dai casi non ereditari. L’analisi dell’albero
genealogico, ricostruito per almeno tre generazioni, fornisce
informazioni dettagliate e consente un corretto inquadramento della
famiglia. Anche pochi casi di carcinoma del colon in famiglie piccole
possono giustificare il ricorso alle indagini genetiche.
In generale, la sindrome di Lynch va sospettata in presenza dei seguenti fattori, i cosiddetti “criteri di Amsterdam” (5,6):
– almeno tre parenti con carcinoma del colon-retto documentato istologicamente;
– almeno due generazioni successive affette;
– in uno degli individui affetti, la diagnosi è stata formulata prima dei 50 anni.
A questi criteri, si aggiungono altre caratteristiche che consentono di rafforzare il sospetto:
– prevalente localizzazione del tumore nel colon destro (cieco,
ascendente, traverso e flessure) e tendenza allo sviluppo di più tumori
colorettali (sincroni o metacroni);
– frequente associazione (nello stesso paziente od in altri membri
della famiglia) di carcinomi dell’endometrio (che rappresenta il tumore
più frequente nelle donne con sindrome di Lynch), dello stomaco,
dell’apparato urogenitale (specie uretere), dell’ovaio e dell’intestino
tenue.
In molte famiglie, tuttavia, l’espressione clinica della malattia può
essere incompleta e, in generale, la diagnosi di sindrome di Lynch può
essere confermata solo a livello genetico.
Attualmente, sono stati identificati quattro diversi geni le cui
mutazioni risultano associate alla sindrome di Lynch, quando presenti a
livello costitutivo: MLH1, MSH2, MSH6 e PMS2.
Questi geni codificano per alcune delle proteine che interagiscono tra
loro in complessi multienzimatici deputati al riconoscimento ed alla
riparazione degli errori di appaiamento del DNA e, pertanto, come già
anticipato, vengono denominati geni MMR (7). Nei carcinomi colorettali
dei pazienti con sindrome di Lynch, la perdita dell’allele
costitutivamente normale dà luogo alla comparsa di un particolare
fenomeno noto come instabilità delle sequenze microsatelliti del DNA
(Microsatellite Instability, MSI). Tali sequenze sono costituite dalla
variabile iterazione di mono-, di-, tri- o tetranucleotidi. Differenze
nei profili elettroforetici di queste sequenze nel DNA tumorale,
rispetto al DNA prelevato da un tessuto sano dello stesso paziente, sono
indicative della presenza di MSI.
Le linee-guida di Bethesda definiscono le caratteristiche dei pazienti
con tumori del colon-retto da indirizzare alla ricerca di MSI ed, in
caso di positività, alle analisi molecolari per l’identificazione
dell’alterazione genica predisponente (8). Tuttavia, va osservato che
alterazioni somatiche dei geni MMR, in primo luogo ipermetilazione del
promotore di MLH1 con conseguente comparsa di MSI e negatività
immunoistochimica, sono riscontrabili nel 15% circa dei tumori
colorettali non ereditari (1). Un approccio complementare all’analisi di
MSI è rappresentato dalle analisi immunoistochimiche, in cui la mancata
espressione delle proteine MMR è indicativa della presenza di mutazioni
nei geni corrispondenti (7). L’immunoistochimica fornisce però solo
indicazioni sulle alterazioni geniche che determinano la formazione di
proteine tronche non funzionali. La possibile presenza di mutazioni
missenso che non determinano una mancata espressione delle proteine
riduce l’utilità di tale tecnica ai fini diagnostici.
Infine, esistono aggregazioni familiari con caratteristiche fenotipiche
analoghe a quelle con sindrome di Lynch, che non sono associate a
mutazioni nei geni MMR. Queste ultime aggregazioni sono probabilmente
dovute all’effetto di geni ancora non identificati (9).
La terapia del cancro colorettale associato alla sindrome di Lynch è
chirurgica. L’intervento elettivo è la colectomia subtotale con
anastomosi ileorettale, che riduce fortemente il rischio di tumori
metacroni (1). Al momento attuale, tuttavia, si consiglia di riservare
l’intervento demolitivo solo ai pazienti di età < 50 anni, con
diagnosi precoce. Inoltre, va menzionato che diversi studi hanno
evidenziato come pazienti con tumori del colon-retto MSI-positivi non
traggano beneficio dalla chemioterapia post-operatoria a base di
5-Fluorouracile (5-FU). Pertanto, tale tipo di terapia adiuvante non
sembrerebbe indicata nei pazienti con sindrome di Lynch.
2.2 Poliposi adenomatosa familiare
La frequenza della FAP nella popolazione è di circa 1 caso su
8.000-10.000 nati vivi (10) ed i carcinomi colorettali insorti in
pazienti con FAP rappresentano lo 0.1-1.0% di tutti i tumori colorettali
(2).
La diagnosi di FAP è relativamente semplice: l’intero grosso intestino
presenta numerose formazioni polipose (> 100) ed in molti casi è
letteralmente “tappezzato” da migliaia di polipi di varie dimensioni.
Il tratto fenotipico non è presente alla nascita, ma si manifesta
solitamente fra i 10 ed i 15 anni, pur con varie eccezioni.
Se non trattata, la poliposi familiare evolve verso lo sviluppo di un
cancro colorettale praticamente nel 100% dei casi. Le manifestazioni
cliniche in questi pazienti non si limitano al colon-retto: esistono,
infatti, numerose “manifestazioni extracoliche” che vanno ricercate e
sorvegliate nel tempo. Fra queste, le più importanti sono:
– adenomi in altri tratti del canale alimentare (particolarmente
pericolosi quelli del duodeno, che possono evolvere in carcinomi
altamente maligni);
– tumori desmoidi (tumori che originano dalle strutture
muscolo-aponevrotiche caratterizzati dalla proliferazione fibroblastica e
dalla notevole tendenza alla recidiva locale), che in questi pazienti
insorgono spesso nel mesentere intestinale, nel retroperitoneo o sulle
cicatrici degli interventi chirurgici e che spesso tendono ad infiltrare
le strutture vicine, pur non producendo metastasi;
– caratteristiche “macchie” di iperpigmentazione retinica, facilmente
visibili all’esame del fondo dell’occhio e di natura sostanzialmente
benigna (ipertrofia pigmentaria retinica congenita);
– osteomi del cranio e della mandibola;
– alterazioni dentarie di vario tipo;
– cisti epidermoidi, cisti sebacee e fibromi;
– tumori maligni del fegato (epatoblastoma in 1/150 portatori di mutazione del gene APC), dell’albero biliare, del pancreas, della tiroide e dell’encefalo.
In presenza di numerose manifestazioni extracoliche, specie osteomi,
fibromi, cisti ed alterazioni dentarie alcuni autori preferiscono
definire la malattia come sindrome di Gardner. Posta la diagnosi di FAP,
su base endoscopica e con conferma istologica, il trattamento di scelta
è quello chirurgico (colectomia totale con anastomosi ileorettale o
proctocolectomia totale con anastomosi ileoanale con pouch) (2). La
scelta tra le due opzioni dipende da diversi fattori, quali l’età del
paziente, la severità della poliposi a livello rettale (e colico), il
desiderio riproduttivo, il rischio di tumore desmoide (valutato sulla
base della storia familiare) e la localizzazione della mutazione
all’interno del gene APC, che condiziona lo sviluppo di polipi
rettali. Infatti, i pazienti trattati con anastomosi ileorettale sono a
rischio di polipi (e di carcinoma) del retto residuo e vanno pertanto
sottoposti a regolari controlli endoscopici. A questo proposito è
interessante notare che alcuni studi hanno riportato un effetto degli
anti-infiammatori non steroidei (NSAIDs) nel controllo della
proliferazione dei polipi rettali.
Una variante fenotipica della FAP è costituita dalla cosiddetta “FAP
attenuata” (Attenuated FAP, AFAP), caratterizzata dalla comparsa di un
minor numero di polipi (< 100) e da un’età di insorgenza più tardiva
(11). Al momento, non esistono criteri comunemente condivisi, che
consentano di identificare in maniera univoca l’AFAP dal punto di vista
clinico. Tuttavia, va osservato che nell’AFAP le manifestazioni
extracoliche tipiche della FAP sono assai poco frequenti.
Mutazioni del gene APC sono presenti in più del 70% delle
famiglie con fenotipo FAP ed in circa il 25% delle famiglie con fenotipo
AFAP (2,11). Tale gene codifica per una proteina coinvolta in numerosi
importanti processi cellulari, quali la regolazione dell’espressione
genica, i fenomeni di adesione e migrazione cellulare ed il controllo
dell’integrità cromosomica (12). Inoltre, mutazioni del gene APC
sono presenti a livello somatico in circa l’80% dei tumori colorettali
non ereditari. Le correlazioni genotipo-fenotipo nella FAP sono state
descritte ampiamente. La forma aggressiva di FAP con esordio precoce,
caratterizzata da un numero molto alto di adenomi, è associata a
mutazioni nei codoni compresi tra il 1250 ed il 1464 (in particolare nel
codone 1309) (13), invece l’AFAP è associata con mutazioni
all’estremità 5’ o 3’ del gene APC e negli esoni soggetti a splicing alternativo (14). Nel 15-20% dei casi in cui si osservano alterazioni costitutive del gene APC,
la mutazione è presente de novo, ovvero non è ereditata dai genitori,
ma insorge nella linea germinale dei soggetti coinvolti o in utero.
Inoltre, nel 15% circa dei pazienti FAP o AFAP è stata riscontrata
evidenza di mosaicismo somatico, ovvero la mutazione è presente solo in
alcune sottopopolazioni cellulari.
2.3 Poliposi adenomatosa associata a MUTYH
Mutazioni bialleliche del gene MUTYH sono presenti in circa il
25-30% dei soggetti con 10-100 adenomi colorettali (15-17) ed in una
frazione più ridotta di soggetti con più di 100 polipi. Il gene MUTYH
codifica per una glicosilasi coinvolta in un particolare meccanismo di
riparazione dei danni al DNA a singola elica, denominato Base Excision
Repair (BER) (4).
Così come avviene nei pazienti con AFAP, quelli affetti da MAP assai raramente presentano manifestazioni extracoliche.
Mutazioni monoalleliche del gene MUTYH sono presenti nell’1%
circa della popolazione, ma non sembrano essere associate ad un aumento
di rischio per patologie neoplastiche intestinali (18).
La consanguineità tra i membri di una famiglia affetti da MAP deve
essere indagata, dal momento che le mutazioni bialleliche alla base del
fenotipo neoplastico sono estremamente rare in caso di unioni casuali
(19).
2.4 Identificazione e sorveglianza dei pazienti con tumori colorettali ereditari e dei soggetti a rischio
La conoscenza delle basi molecolari delle differenti forme di
predisposizione ereditaria ai tumori colorettali consente una migliore
gestione clinica dei soggetti affetti da tali patologie e dei loro
collaterali a rischio. In primo luogo, le indagini molecolari (test
genetici) consentono, attraverso l’identificazione della mutazione
predisponente, di confermare la diagnosi clinica nei soggetti affetti.
Secondariamente, una volta identificata, la mutazione può essere
ricercata nei portatori sani. In questo modo, i soggetti che risultano
positivi al test possono essere indirizzati agli opportuni programmi di
sorveglianza e prevenzione, laddove disponibili, per la riduzione dei
rischi connessi alla loro condizione genetica, mentre i soggetti
negativi possono essere esclusi da tali misure. Questi ultimi, tuttavia,
mantengono il rischio di cancro colorettale della popolazione generale.
Nei casi in cui il risultato del test genetico non fosse disponibile i
soggetti a rischio vanno individuati in base alla loro posizione
nell’albero genealogico ed al grado di parentela con i soggetti malati.
È opportuno sottolineare che nei soggetti con predisposizione ereditaria
al cancro, i test genetici vanno sempre fatti precedere da un’adeguata
consulenza genetica oncologica, nella quale questi soggetti ricevano le
corrette informazioni sulla natura della loro condizione, sui rischi ad
essa connessi, nonché sul significato, limitazioni e conseguenze dei
test stessi.
Nei soggetti con sindrome di Lynch si raccomanda di iniziare la
sorveglianza del colon-retto intorno ai 20-25 anni, con colonscopie ad
intervalli di circa 1-2 anni ed asportazione endoscopica delle lesioni
sospette e degli eventuali adenomi (1,3). Alcuni studi hanno dimostrato
che tali misure sono in grado di ridurre il rischio di carcinoma del
colon-retto di oltre il 50%. Per quanto riguarda gli altri tumori
associati alla sindrome, non vi sono evidenze certe dell’efficacia delle
misure di sorveglianza. Tuttavia, nei soggetti di sesso femminile viene
raccomandata l’esecuzione di una visita ginecologica ogni 1-2 anni con
ecografia transvaginale ed eventuale prelievo bioptico. Infine, è
consigliabile che i soggetti appartenenti a famiglie con casi di
carcinoma gastrico o di tumori delle vie urinarie si sottopongano con
regolarità a gastro-duodenoscopie ed ecografie addominali.
Nei casi di carcinoma del colon-retto ereditario non associato a
mutazioni nei geni MMR e/o MSI, che presentano rischi di cancro
inferiori a quelli che si osservano nella sindrome di Lynch, la
sorveglianza dei soggetti a rischio può iniziare ad un’età più tardiva
(40-45 anni o 5-10 anni prima della prima diagnosi di cancro colorettale
nella famiglia) e con intervalli tra una colonscopia e l’altra maggiori
(3-5 anni). In questi soggetti, non viene ritenuta necessaria la
sorveglianza per altri tipi di tumore.
Per quanto riguarda la FAP, in considerazione della comparsa molto
precoce della malattia, è opportuno iniziare i controlli endoscopici già
nella seconda decade di vita. Il regime consigliato consiste in
sigmoidoscopie ogni due anni a partire dai 10-12 anni, seguite da
colonscopie annuali alla prima comparsa dei polipi e sino alla chirurgia
(2,3). Nei collaterali a rischio di pazienti FAP in cui non sia stata
identificata la presenza di mutazioni APC, viene consigliata
l’esecuzione di controlli endoscopici ogni due anni fino ai 40 anni, e
successivamente, con scadenza più dilazionata, fino ai 50 anni, quando
la sorveglianza può essere riportata a quella dei soggetti con rischio
intermedio in caso di non comparsa di poliposi. Nell’AFAP e nella MAP,
che presentano un fenotipo meno aggressivo, si consiglia di iniziare le
colonscopie a 18-20 anni e proseguire con cadenza biennale. Infine, è
opportuno che i pazienti FAP si sottopongano a programmi di sorveglianza
per ridurre il rischio di neoplasie duodenali.
2.5 Familiarità neoplastica
Oltre alle sindromi ereditarie, una più o meno spiccata familiarità
neoplastica per tumori colorettali è presente in circa il 10% dei
pazienti con tumori del grosso intestino. Infatti, i familiari di primo
grado di pazienti con carcinoma colorettale presentano un rischio per
questo tipo di tumore che è circa tre volte maggiore rispetto a quello
di individui senza familiarità. Vi è un generale consenso, pertanto, nel
suggerire un accertamento colonscopico – solitamente attorno ai 45-50
anni – a tutti i parenti di primo grado di pazienti che abbiano
sviluppato tumori del grosso intestino, specie quando vi sia più di un
familiare affetto da cancro colorettale o casi di cancro insorti prima
dei 55 anni (20). Più controversa è l’intensità del successivo programma
di sorveglianza, se cioè le colonscopie successive debbano essere fatte
con la cadenza suggerita per i soggetti a rischio intermedio o più
frequentemente.
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3.0 SCREENING
3.1 Ricerca del sangue occulto nelle feci
3.2 Test endoscopici
3.3 Colonscopia virtuale
3.4 Combinazione di FOBT e rettosigmoidoscopia
3.5 Ricerca di DNA nelle feci
3.6 Conclusioni
3.7 Sorveglianza
Per screening s’intende un programma organizzato di sorveglianza
finalizzato alla diagnosi precoce, condotto su una popolazione
asintomatica ed a rischio standard, che è attivamente invitata ad
effettuare un esame. Attraverso lo screening si vuole identificare una
malattia in fase precoce perché, quanto più è precoce la diagnosi, tanto
più è probabile riuscire a modificare la storia naturale della malattia
attraverso un trattamento efficace (1). Il carcinoma colorettale (CCR)
per le caratteristiche della sua storia naturale, la disponibilità di
trattamenti efficaci e le sue problematiche sociali che lo collocano tra
le principali cause di morte per cancro è diventato argomento di
particolare interesse per i programmi di prevenzione ed, in particolare,
per i programmi di screening. Infatti, è generalmente accettato che la
maggior parte dei cancri colorettali deriva da adenomi. La distribuzione
degli adenomi è analoga a quella dei cancri e per ambedue le lesioni si
osserva una tendenza all’aumento della prevalenza relativa nei segmenti
prossimali del colon, con l’aumentare dell’età. La curva dell’incidenza
cumulativa è parallela a quella che si osserva per il cancro, con un
anticipo di circa 10 anni. Per gli adenomi distali, ma non per quelli
prossimali, si osserva una tendenza ad un plateau della curva di
incidenza intorno ai 60 anni. Sulla base di queste considerazioni, è più
che mai comprensibile come l’individuazione e l’asportazione degli
adenomi, con conseguente interruzione della sequenza adenoma-cancro,
rappresenti un’importante strategia nella prevenzione del carcinoma
colorettale. La storia clinica delle neoplasie intestinali (sequenza
adenoma/cancro) è caratterizzata dal sanguinamento nel lume intestinale.
Questo sanguinamento non è un fenomeno continuo ma generalmente
correlato, per quantità e frequenza, alle dimensioni della lesione
neoplastica ed è più frequente ed abbondante nei tumori invasivi
rispetto alle lesioni preinvasive. Quando il sanguinamento è modesto,
specialmente se a carico dei segmenti colici di destra può non essere
visibile, e quindi non notato dal paziente ma può essere comunque
rilevato attraverso specifici test. Possono essere utilizzati due tipi
di test, non necessariamente alternativi le cui caratteristiche sono
illustrate in Tabella 1, sottocap. 3.5. Numerose sono ormai le metodiche
disponibili per la diagnosi del carcinoma colorettale ed il loro
utilizzo nei programmi di screening deve essere considerato in relazione
alla loro efficienza, ma soprattutto agli obiettivi che il programma si
propone: riduzione di mortalità attraverso l’identificazione di
carcinomi in fase precoce ed attraverso la riduzione dell’incidenza
(1-3,5,6).
Test per la diagnosi di carcinoma colorettale, che
mirano a ridurre la mortalità per CCR, consentendo il trattamento di
tumori invasivi in fase asintomatica e di lesioni preinvasive (adenomi):
Test per ricerca di sangue occulto fecale (FOBT):
– guaiaco
– immunologico
DNA fecale (in corso di validazione)
Test per la diagnosi di adenomi e carcinoma colorettale,
che mirano a ridurre l’incidenza di CCR, attraverso la rimozione di
lesioni preinvasive e la mortalità mediante la diagnosi precoce di
carcinomi asintomatici:
– Rettosigmoidoscopia
– Colonscopia
– Rx clisma opaco
– Colonscopia virtuale
L’esplorazione rettale e gli esami radiologici (Rx clisma opaco), benché
proposti in passato, non hanno caratteristiche idonee per
l’utilizzazione come test di screening, soprattutto per la ridotta
sensibilità. Il clisma a doppio contrasto mantiene un ruolo come esame
di II livello nei soggetti in cui l’esecuzione di una colonscopia
completa sia tecnicamente difficile o non disponibile. Con
l’acquisizione del concetto che il cancro è una malattia genetica, sono
attualmente in corso di studio e di validazione analisi molecolari di
alterazioni geniche nelle cellule di esfoliazione del colon presenti
nelle feci, con l’intento di rilevare le mutazioni dei geni coinvolti
nella progressione da mucosa sana a cancro. Da ciò potrebbe derivare un
nuovo approccio diagnostico non invasivo per l’individuazione precoce
dei tumori colorettali o delle lesioni precancerose (1-4).
Per il conseguimento degli obiettivi di un programma di screening è
necessario considerare con attenzione gli svantaggi associati all’uso di
una specifica strategia, per valutare se, in presenza di un test
diagnostico sensibile questo sia accettabile per gli individui della
popolazione in esame. Infatti, l’adesione ad un programma di screening è
un elemento cruciale, in grado di contenere se non annullare i benefici
attesi quando la compliance scende al disotto del 30%.
Strategie o test diagnostici accurati, raccomandabili per un singolo
individuo sintomatico, non sono sempre automaticamente utilizzabili a
livello di programmi di popolazione. In un programma rivolto a persone
asintomatiche, occorre minimizzare il rischio di effetti collaterali,
che possano peggiorare la loro attuale condizione di salute favorendo
così l’accettabilità ed un adeguato rapporto costi/benefici. Le
condizioni in cui avviene lo screening devono soddisfare esigenze di
equità nell’accesso, di qualità del processo di screening, della terapia
e del follow-up e di costo-efficacia. L’esperienza mostra come
programmi organizzati di screening rispondano meglio a queste esigenze.
Ognuna delle metodiche e strategie proposte sembra essere in grado di
ridurre la mortalità per carcinoma colorettale, con diversi livelli di
efficacia affiancati però da rischi e costi estremamente differenziati
in rapporto alla differente invasività ed alla conseguente
accettabilità. Per questo, la proposta dello screening comporta la
necessità di fornire ai potenziali partecipanti un’informazione chiara
ed equilibrata affinché l’adesione sia pienamente consapevole (1-3,5,6).
3.1 Ricerca del sangue occulto nelle feci (SOF o Faecal Occult Blood Test, FOBT)
I test per la ricerca di sangue occulto fecale sono ormai considerati la
metodologia convenzionale e di riferimento per lo screening del
carcinoma colorettale.
I test attualmente disponibili per la ricerca del sangue occulto nelle feci possono essere classificati in:
– Test al guaiaco
– Test per i prodotti emoporfirinici
– Test immunochimici
Gli studi prospettici randomizzati hanno infatti dimostrato una
significativa riduzione di mortalità nei pazienti sottoposti ai test. In
uno studio americano (Minnesota), è stata osservata una riduzione
statisticamente significativa dell’incidenza di CCR, dopo 18 anni di
follow-up, sia nel gruppo sottoposto a screening biennale (20%) sia in
quello sottoposto a screening annuale (17%) (7). Due studi condotti in
Danimarca e Gran Bretagna, basati sul test al guaiaco non reidratato
offerto con cadenza biennale, hanno evidenziato riduzioni di mortalità
più modeste, intorno al 15-18%, ma statisticamente significative, nel
gruppo sottoposto a screening (8,9). Una recente meta-analisi degli
studi clinici pubblicati ha stimato che un programma di screening basato
sul FOBT biennale determini una riduzione della mortalità del 16% (23%
per i soggetti aderenti allo screening) (7-10).
L’effetto protettivo di protocolli di screening basati sul FOBT è
evidenziato da numerosi studi caso-controllo condotti nell’ambito di
programmi che utilizzavano il test al guaiaco (11,12) o i più recenti
test immunologici (13,14).
Scelta del test
Negli studi randomizzati e nella maggior parte di quelli caso-controllo,
è stato usato il metodo del guaiaco. Questi studi hanno evidenziato
un’elevata specificità (> 95%) anche se contrapposta ad una
sensibilità contenuta per cancro e ridotta per adenoma, che rende il
test al guaiaco rispondente ai requisiti richiesti per un test di
screening, in termini di affidabilità ed accettabilità. Il limite della
ridotta sensibilità è, in teoria, superabile con successive ripetizioni
del test (7-10,15,16).
La sensibilità del test può essere migliorata reidratando i campioni di
feci prima di esaminarli (7,17). Ciò comporta però una certa perdita di
specificità, con un aumento del numero di falsi positivi e del tasso di
positività, che da valori di 1-2% passa a 5-6% (17) o addirittura a 9.8%
nel caso del citato Minnesota Colon Cancer Control Study (7). Da queste
osservazioni appaiono evidenti i limiti insiti nel metodo del guaiaco e
l’esigenza di esplorare nuove tecnologie per la ricerca del sangue
occulto nelle feci, che ne migliorino sia l’efficacia sia l’efficienza
(17,18).
Altro limite del test consiste nel fatto che questo può essere
falsamente positivizzato da carni rosse e da vegetali contenenti
sostanze ad attività perossidasica (ad esempio pomodori), per cui
vengono spesso raccomandate restrizioni dietetiche. Influiscono
negativamente sulla sensibilità del test la degradazione enterocolica
dell’emoglobina, la disomogenea distribuzione del sangue fecale e le
modalità utilizzate per la raccolta e la conservazione delle feci (19).
L’interpretazione del risultato inoltre può essere influenzata dalla
soggettività del lettore (17).
Attualmente, sono disponibili test in cui è stata modificata la
sensibilità ovviamente con riduzione della specificità, nell’intento di
migliorare le performance del test, ma che non hanno avuto grande
diffusione, anche se analisi comparative ne hanno evidenziato l’ottima
efficienza (13,20-24).
I test immunologici introdotti nel 1980 con l’obiettivo di incrementare
la sensibilità, abbassando la soglia dell’emoglobina fecale, senza una
significativa perdita di specificità, in quanto non influenzabili da
componenti della dieta, utilizzano varie tecnologie (agglutinazione su
lattice, immunodiffusione radiale, emoagglutinazione inversa
passiva-RPHA) (3,20,21,23-26).
L’uso di un test immunochimico, basato sul metodo della
emoagglutinazione inversa passiva (RPHA) su un solo giorno di prelievo
ha consentito di evidenziare, al cut-off superiore di positività, la
maggiore sensibilità del test rispetto al guaiaco con un contestuale
miglioramento della specificità (97% vs 93%) (18,27). La valutazione
comparativa ha consentito anche di evidenziare un minor costo per
soggetto con cancro o adenoma/i ritrovato, quando lo screening veniva
condotto con il test immunologico rispetto al test al guaiaco (28).
Per la lettura del test è stata introdotta l’automazione, che permette
di determinare a quale livello il test debba essere considerato
positivo, modulando la sua efficienza in relazione ai diversi fattori di
rischio, numerosità dei campioni ed intervallo di ripetizione.
L’automazione, inoltre, favorisce l’omogeneità delle condizioni di
analisi, parametro importante nella gestione di un programma di
screening, in cui numerosità della popolazione e variabilità delle
condizioni di raccolta sono aspetti cruciali.
A tutt’oggi, tra i test immunologici disponibili, quello più studiato
risulta essere il test RPHA (agglutinazione di eritrociti di pollo
ricoperti di anticorpi anti-Hb umana estratti da siero di coniglio), la
cui sensibilità in condizioni standard di laboratorio è di 0.2-0.3 mg
Hb/ grammo di feci (12,17,18,29,30). Recentemente, è stato proposto un
test immunologico basato sull’agglutinazione su lattice valutato in uno
studio di confronto con l’RPHA (31). Il test al lattice, al cut-off di
100 ng/ml, ha mostrato livelli di sensibilità per cancro colorettale ed
adenomi ad alto rischio comparabili al RPHA, con il vantaggio di una
completa automazione della procedura di sviluppo.
Poiché i test al guaiaco e quelli immunologici identificano le stesse
fasi della storia naturale della malattia preclinica asintomatica e
mostrano una riproducibilità dei risultati ed uno spettro di lesioni
diagnosticate simile, non è in discussione l’evidenza di efficacia (in
termini di riduzione della mortalità specifica), ma l’accuratezza
relativa dei test, in termini di validità e riproducibilità. Negli studi
di popolazione, in cui è stata confrontata sugli stessi pazienti
l’accuratezza dei due tipi di test (test immunologici eseguiti un solo
giorno e test al guaiaco per tre giorni), è stata osservata una
sensibilità più elevata del test immunologico sia per cancro sia per
adenomi. Le stime di sensibilità del test al guaiaco per il CCR, basate
sul follow-up a due anni dei soggetti con test negativo negli studi di
popolazione inglese, danese e svedese, sono rispettivamente del 60%,
48% e 22%. In questi studi, la specificità stimata varia tra il 96% ed
il 99%. Nello studio americano del Minnesota, sopraccitato, la
sensibilità per CCR stimata su un follow-up annuale era del 92%, ma la
reidratazione del test ha comportato una consistente perdita di
specificità, con un aumento della proporzione di casi positivi (9.8%) e
del numero di falsi positivi. In uno studio comparativo, condotto in un
programma di screening di popolazione, che ha utilizzato il metodo
dell’incidenza proporzionale dei cancri intervallo, non affetto da
lenght bias (errore sistematico da lunga durata dell’osservazione) e da
sovra diagnosi, la sensibilità stimata era del 67% al primo e del 37%
al secondo anno, per il test al guaiaco. I valori corrispondenti per il
test RPHA erano dell’89% e del 77%. Le stime del tempo di anticipazione
diagnostica medio per il test RPHA variano tra 2.5 e 3.2 anni. Risultati
analoghi sono stati riportati da uno studio caso-controllo giapponese,
in cui è stata osservata una significativa riduzione di mortalità legata
allo screening con RPHA (un solo campione, tasso di positività del
2.4%) pari al 60% entro 1 anno ed al 40% entro 3 anni dallo screening.
Recenti studi hanno ripreso l’uso combinato di entrambi i test, dapprima
il guaiaco senza dieta e nella sua formula più sensibile seguito, in
caso di positività, da un test immunologico di conferma. I risultati
sembrano interessanti e suggeriscono una strategia in grado di ridurre
del 30% l’impiego della colonscopia richiesta nei soggetti FOBT
positivi. Sinora però i test immunologici non hanno completamente
sostituito il test al guaiaco, perché più costosi anche se una recente
revisione della letteratura pubblicata dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità e dall’Organizzazione Mondiale di Endoscopia Digestiva ha
dimostrato che i test immunochimici rimuovono le difficoltà create dalla
dieta e dai farmaci e consentono una standardizzazione della procedura e
dei controlli di qualità rendendoli sicuramente preferibili per
programmi di screening (16).
Attualmente, l’adesione regolare al FOBT risulta < 50% sia in gruppi
di volontari sia nella popolazione generale. Per questo, l’adozione di
un test da utilizzare per un solo giorno, che non richiede alcuna
restrizione dietetica, come nel caso dei test immunologici, può favorire
un incremento dell’adesione dei soggetti invitati, migliorando
l’efficacia dei programmi di prevenzione basati sul test FOBT (3,26).
Effetti collaterali
I test non hanno di per sé particolari effetti collaterali, ma i
pazienti in cui il FOBT è falsamente positivo (circa la metà) sono
sottoposti ad una colonscopia che, in una situazione diversa dallo
screening, non sarebbe stata eseguita. Gli effetti collaterali
principali sono quindi da riferire agli esami endoscopici, anche se non
devono essere sottovalutati gli effetti collaterali psicologici, quali
l’ansia creata dalla falsa positività, poi non confermata dagli
accertamenti di II livello, o la falsa rassicurazione legata ai
risultati falsi negativi, che può comportare un rischio di ritardo
diagnostico (1-6,15,22).
3.2 Test endoscopici
Due sono i test endoscopici presi in considerazione per un utilizzo, in
programmi di screening: la colonscopia, che permette un’esplorazione
completa dell’intestino e la rettosigmoidoscopia flessibile, che
permette di esplorare solo il retto-sigma e la parte terminale del
discendente, in cui sono localizzati il 65% dei cancri e degli adenomi e
che richiede, in caso di diagnosi di una lesione neoplastica
(adenoma/cancro), una colonscopia complementare per valutare il colon
rimanente. La sensibilità degli esami endoscopici per le neoplasie
presenti nei segmenti colici esaminati è considerata molto elevata,
oltre il 90% per le lesioni >= 10 mm (1-3,15).
Rettosigmoidoscopia (Flexible Sigmoidoscopy, FS)
Evidenza disponibile
In linea teorica, gli studi in cui è stata utilizzata la
rettosigmoidoscopia come metodo di screening hanno dimostrato una
percentuale maggiore di early cancer ed un aumento di sopravvivenza in
confronto ai pazienti diagnosticati non in ambito di screening. La
maggior parte di questi studi, comunque, ha molti limiti e bias che
condizionano fortemente il significato dei risultati ottenuti. Una forte
riduzione, variabile tra il 60-80%, dell’incidenza e della mortalità
per CCR è stata osservata in vari studi caso-controllo condotti su
soggetti a rischio intermedio per CCR, sottoposti a rettosigmoidoscopia
(3,4,32-37). Tale effetto protettivo era specificamente osservabile per i
tumori ad insorgenza nei segmenti intestinali esaminati e si manteneva
per almeno 10 anni, ma a successive rivalutazioni, non è risultato
significativo. In uno studio multicentrico (Nord California-Utah), lo
screening condotto con sigmoidoscopia ha comportato una netta riduzione
(40%) di incidenza di cancro del colon in entrambi i sessi. Uno studio
cinese di screening in popolazione generale con proctoscopia ha
evidenziato una riduzione di circa il 40% di mortalità ed incidenza di
cancro del retto. In uno studio tedesco caso-controllo nella popolazione
generale, la proporzione di cancri colorettali evitati è stata valutata
intorno al 45%, qualora la sigmoidoscopia raggiungesse la giunzione
sigma colon discendente e, alla diagnosi di un adenoma distale, non
fosse effettuata una colonscopia complementare (3,4). Il modello, però,
stima una riduzione globale del 64% (39% prossimale, 77% distale), in
caso di utilizzo della colonscopia. L’evidenza derivata da studi
randomizzati è limitata ai risultati di un piccolo studio norvegese (400
casi e 399 controlli) in cui, a 13 anni di follow-up, è stata osservata
una riduzione dell’incidenza di CCR pari all’80% nel gruppo sottoposto a
screening (38).
Tuttavia, evidenza dell’efficacia della FS deriva in modo indiretto dai
dati disponibili relativi al confronto con altri test. Tre studi europei
hanno confrontato l’accuratezza della FS associata al test al guaiaco.
Il tasso di identificazione diagnostica osservato nel braccio
sottoposto ad ambedue i test (FS + FOBT) è risultato 5 volte più elevato
per gli adenomi avanzati e 2 volte più elevato per il CCR rispetto al
gruppo che effettuava il solo FOBT. Confrontando i risultati di uno di
questi studi con quelli dello studio danese di valutazione del FOBT, è
stato stimato che, a parità di rispondenza, un singolo passaggio di
screening con FS permette di identificare una quota di CCR e di adenomi
avanzati, pari alla proporzione cumulativa osservata rispettivamente
dopo 5 (per il CCR) e 8 round di screening con FOBT (2-4). Un’analisi,
condotta nell’ambito di uno studio di screening con colonscopia totale
(CT), ha dimostrato che una FS, seguita da CT in caso di riscontro di
uno o più adenomi distali, permetterebbe di identificare il 70% delle
lesioni avanzate prevalenti. La plausibilità biologica, la relazione
dose-risposta, la riproducibilità dei risultati in termini di riduzione
di incidenza e mortalità rilevata in studi osservazionali indipendenti,
la migliore capacità di identificare lesioni invasive e preinvasive
asintomatiche rispetto al FOBT, forniscono convincenti elementi di
evidenza a sostegno dell’efficacia dello screening con la
rettosigmoidoscopia (35-40). Diverse agenzie internazionali (1-4)
giudicano tale evidenza sufficiente per includere la rettosigmoidoscopia
tra i test proponibili di screening in individui a rischio intermedio
al di sopra dei 50 anni. Mancano ancora informazioni accurate sulla
durata dell’effetto protettivo di un singolo esame. Nello studio
Prostate Lung Colon and Ovary, una seconda FS, a 3 anni di distanza dal
primo esame negativo ha rilevato adenomi avanzati o CCR nell’1.3% dei
soggetti (40). La quota di lesioni distali (0.8%) è compatibile con le
stime di sensibilità degli esami endoscopici per questo tipo di lesioni
e, secondo gli autori, è difficilmente eliminabile anche utilizzando la
CT. Comunque, si osserva una riduzione consistente dell’incidenza attesa
di cancro (rapporto tra tasso di identificazione al primo esame ed al
controllo a 3 anni pari a 4.2:1), compatibile con le stime sull’effetto
protettivo della FS derivate dagli studi osservazionali. I tre studi di
valutazione di efficacia della rettosigmoidoscopia, in corso in
Inghilterra, in Italia e negli USA permetteranno entro 4-5 anni di
ottenere informazioni più precise (1-3). In un modello di simulazione,
applicato ad una popolazione a rischio intermedio sottoposta a screening
rettosigmoidoscopico con intervallo quinquennale, è stato stimato che
l’attuazione del programma di screening determinerebbe un risparmio di
circa 5 Euro per persona, rispetto ai costi che dovrebbero essere
affrontati per la diagnosi ed il trattamento dei casi insorti nella
stessa popolazione in assenza di screening. Tuttavia, sinora
l’intervallo ottimale non è stato efficacemente stabilito. Le
raccomandazioni più consolidate propongono un intervallo di 5 anni. Uno
studio caso-controllo ha rilevato un effetto protettivo per circa 10
anni, contrariamente ad altri studi, che già a 3 anni segnalano la
diagnosi di lesioni neoplastiche (adenoma/cancro) (41). La
partecipazione della popolazione è uno dei principali problemi aperti.
Diversamente dal FOBT, nel caso di un test che può essere proposto
comunque a intervalli lunghi od eventualmente una sola volta nella vita,
non interessa tanto la rispondenza ad ogni singolo invito, quanto la
proporzione cumulativa di persone che si sottopone a screening, anche a
seguito di successivi inviti. I risultati dello studio SCORE 2
(Screening Colon-Retto) indicano che, almeno in Italia, la
partecipazione ad un programma di screening rettosigmoidoscopico non
sarebbe sostanzialmente inferiore a quella ottenibile proponendo il FOBT
(1).
Effetti collaterali
La FS eseguita nei diversi ospedali, con o senza sedazione, richiede una
preparazione intestinale contenuta se confrontata alla colonscopia;
alcuni protocolli propongono solo un clistere poche ore prima
dell’esame. I dati riguardanti la fase di reclutamento degli studi
europei permettono di concludere che il test, offerto alla popolazione
generale a rischio medio, risulta accettabile. La proporzione di persone
esaminate che ha riferito che il dolore associato all’esecuzione del
test era trascurabile o inferiore all’atteso varia tra l’80% e l’84%; il
95% dei soggetti ha riferito di non aver provato disagio/imbarazzo.
Nell’80% dei casi, l’esame è stato completato in meno di 10 minuti. Le
complicanze gravi associate all’esecuzione di una FS di screening sono
relativamente rare: 1 perforazione su 10.000 esami nello studio italiano
ed 1 perforazione e 2 episodi di sanguinamento, che hanno richiesto un
successivo reintervento, su 40.000 esami in quello inglese. Questi
risultati sono in accordo con quelli di ampie casistiche cliniche, che
riportano un rischio variabile tra 1 e 2 perforazioni su 20.000 esami.
Complicanze più lievi, come piccoli sanguinamenti auto-limitati, lievi
reazioni vago-vagali, dolori addominali transitori, sono stati riportati
in 6 pazienti su 1.000 nello studio italiano e in 5 su 1.000, in quello
inglese (2,4,6).
Colonscopia
Evidenza disponibile
Una riduzione dell’incidenza di CCR è stata osservata in uno studio
caso-controllo nei soggetti precedentemente sottoposti a colonscopia e
nella coorte di pazienti sottoposti a polipectomia endoscopica
nell’ambito del National Polyp Study. Inoltre, la colonscopia costituiva
l’esame diagnostico negli studi di valutazione del FOBT e la riduzione
di incidenza di CCR osservata è stata attribuita all’asportazione dei
polipi adenomatosi, nei pazienti positivi al FOBT (1-3,6,41-45). In uno
studio su 3.121 individui nella maggior parte di sesso maschile ed età
media di 63 anni, sono stati diagnosticati tumori avanzati (adenoma di
diametro > 1 cm, adenoma villoso, adenoma con displasia ad alto grado
o carcinoma invasivo) nel 10% degli individui e nel 3% erano presenti
lesioni avanzate nei tratti prossimali. Pazienti con adenomi distali
avevano un rischio triplicato rispetto a quelli con lesioni non distali.
Comunque, circa il 50% delle lesioni avanzate prossimali non aveva
lesioni distali associate. Questi dati sono stati confermati anche da
altri studi.
Numerosi studi sono stati condotti recentemente in individui
asintomatici, con modalità e finalità differenti. Infatti, il numero
degli individui esaminati varia notevolmente (da 994 a 43.000), con età
variabile (3,4). Comunque, nonostante le differenze, un numero
sostanziale di individui (75-83%) non presentava lesioni neoplastiche
colorettali con una diversa frequenza di adenomi non avanzati
(8.9-16.5%), adenomi avanzati (3-6%) e cancri (0-1.3%) in funzione dei
differenti criteri di arruolamento. La prevalenza osservata in questi
studi è analoga a quanto osservato in precedenza e conferma che la
maggior parte delle colonscopie di screening sono negative (2-4). In
sintesi, è necessario sottoporre a colonscopia 9 individui per
diagnosticare 1 adenoma, 25 per 1 adenoma avanzato e 143 per 1
carcinoma. Pur non essendo disponibili studi prospettici randomizzati,
la sensibilità dell’esame, superiore alla rettosigmoidoscopia, la
plausibilità biologica e la natura delle lesioni asintomatiche
identificate forniscono elementi a sostegno dell’efficacia della
colonscopia, quale test di screening, nel ridurre incidenza e mortalità
per CCR (1-4). Occorre però considerare che studi istologici e autoptici
suggeriscono che la quota di CCR derivati da adenomi potrebbe essere
inferiore del 55-60% nel colon prossimale rispetto al colon distale,
dove in più dell’80% delle lesioni invasive sono evidenziabili residui
di tessuto adenomatoso. Inoltre, non vi è evidenza di un plateau
dell’incidenza degli adenomi prossimali; la prevalenza delle lesioni
avanzate prossimali nei pazienti nella fascia di età bersaglio dello
screening, intorno ai 60 anni, è compresa tra il 2% ed il 5% e tende ad
aumentare oltre i 65 anni. Non è chiaro, quindi, quale sia l’intervallo
di età ottimale per offrire il test, così come non è ben definito
l’intervallo di ripetizione, dopo una colonscopia negativa (1,3,15).
Attualmente, una colonscopia ogni 10 anni a partire dai 50 anni di età sembra una proposta plausibile.
I dati disponibili relativi alla fattibilità, all’impatto organizzativo
ed ai costi di un programma di screening con colonscopia sono scarsi e
spesso, basati su assunzioni per cui mancano verifiche dirette. Dati
riguardanti l’accettabilità del test nella popolazione generale a
rischio intermedio sembrano indicare una certa preferenza nei confronti
di altre procedure invasive.
Effetti collaterali
La colonscopia è per definizione una procedura invasiva e questa
caratteristica ha notevole impatto sull’accettabilità. La preparazione
all’esame in genere richiede una dieta di uno o più giorni associata a
farmaci o prodotti per ottenere un’adeguata toilette intestinale. I dati
disponibili indicano che circa il 15% dei pazienti non completa la
preparazione intestinale indicata, a causa dell’insorgenza di effetti
collaterali: nausea e vomito, dolore addominale e disturbi del sonno
sono stati osservati in una proporzione variabile tra il 4% ed il 38%
dei casi, secondo il tipo di preparazione utilizzata. Le complicazioni
si verificano più frequentemente dopo una polipectomia, con un’incidenza
complessiva di emorragia variabile tra 0.2% e 2.5% ed un’incidenza di
perforazione variabile tra 0.07% e 0.7%. Da segnalare che la
polipectomia endoscopica può essere inefficace nell’asportazione dei
polipi. I tassi di perforazione riportati variano dallo 0.2% al 3%, ma
casistiche più recenti riportano frequenze pari a 0.04% per esami
puramente diagnostici con progressivo aumento con l’aumentare dell’età e
con la presenza di diverticolosi. In due recenti studi condotti su
pazienti asintomatici sottoposti a colonscopia di screening, il tasso di
complicazioni gravi che hanno richiesto un ricovero è stato dello 0.3%.
La probabilità di morte per complicazioni dovute alla procedura è stata
stimata in 1 su 20.000 pazienti sottoposti a colonscopia.
Parte rilevante dei rischi della colonscopia è dovuta alla sedazione
spesso richiesta o proposta per semplificare la procedura migliorandone
l’accettabilità. Complicazioni cardio-respiratorie, circa il 50% sul
totale degli eventi avversi, sono però rare in pazienti senza patologie
cardiache o polmonari, ma rappresentano un potenziale rischio per i
soggetti anziani o con possibili anomalie cardio-vascolari. Il tasso di
complicazioni, quindi, rappresenta un importante aspetto che si
contrappone al ruolo ormai consolidato di protagonista della colonscopia
nella diagnosi e trattamento delle lesioni neoplastiche (43).
3.3 Colonscopia virtuale
Consiste in metodica minimamente invasiva, di visualizzazione di tutto
il colon e retto, che utilizza una tomografia computerizzata per
acquisire immagini 2D/3D. Dal 1990 ad oggi, sono stati compiuti notevoli
miglioramenti tecnologici, cosicché l’uso integrato di immagini 2D e 3D
permette una facile diagnosi dei polipi, delle loro caratteristiche,
consistenza e sede (3,4,46).
Un’adeguata preparazione e distensione gassosa del colon sono
fondamentali per una buona accuratezza dell’esame. L’efficacia
dell’esame comunque è notevolmente correlata con le dimensioni delle
lesioni. Infatti, in uno studio su 300 pazienti esaminati per screening,
sottoposti sia a colonscopia virtuale sia a colonscopia, la sensibilità
per paziente è stata del 94% per polipi > 1 cm e del 60% per polipi
< 0.5 cm (47). In altro studio su 200 pazienti sintomatici, la
colonscopia virtuale ha mostrato una sensibilità per cancro/polipi > 1
cm del 73% ed una specificità del 94% (48). Uno studio multicentrico
americano con oltre 1.000 individui, con una metodologia particolarmente
attenta per il confronto tra colonscopia virtuale e colonscopia, ha
evidenziato un netto miglioramento dei risultati con una sensibilità del
99% per polipi > 1 cm e del 97% per polipi > 0.6 cm, con una
minor sensibilità della colonscopia ottica, se effettuata in assenza di
colonscopia virtuale. Infatti, alcuni polipi sono stati diagnosticati
nelle pliche coliche, che costituiscono un noto punto cieco per la
colonscopia ottica (48). I risultati ottenuti da questo studio non sono
stati confermati da un altro studio prospettico su 600 pazienti
provenienti da 9 ospedali (49). L’accuratezza della colonscopia virtuale
è stata inferiore, con una sensibilità del 39% per polipi < 0.6 cm e
del 55% se > 1 cm. Pur con notevoli variazioni tra le Istituzioni
partecipanti, sono stati condotti studi con buoni risultati modificando e
contenendo la preparazione con lassativi, vero punto cruciale della
metodica (50).
Nel 2005, due meta-analisi dei risultati di 33 studi su un totale di
oltre 6.000 pazienti hanno stimato una sensibilità dell’85-93% per
adenomi > 1 cm e del 9% per cancro, sovrapponibile quindi alla
sensibilità della colonscopia ottica (4,51). Fino ad ora non è stato
condotto alcuno studio prospettico randomizzato per dimostrare
l’efficacia della colonscopia virtuale nel ridurre la mortalità e
morbilità per cancro colorettale, però è da rilevare come l’efficienza
della colonscopia virtuale è strettamente correlata alla colonscopia
ottica. Quindi, la colonscopia virtuale presenta alcuni vantaggi, quali
ridotta invasività ed eliminazione della sedazione. Gli svantaggi
risiedono nella preparazione analoga alla colonscopia ottica, nella
necessità di una colonscopia ottica di conferma ed, in linea teorica,
nel rischio a lungo termine di esposizione alle radiazioni (1-4,6,51).
3.4 Combinazione di FOBT e rettosigmoidoscopia
L’associazione di due test con caratteristiche differenti è stata posta
quale metodologia alternativa utile a compensare ridotta sensibilità da
un lato ed accertabilità ed attuabilità dall’altro. In uno studio
effettuato in 2.885 soggetti con età media di 63 anni e con prevalenza
di adenomi avanzati del 10%, è stato osservato che il test per sangue
occulto fecale e la rettosigmoidoscopia effettuati una sola volta hanno
fallito nell’identificare la neoplasia avanzata del colon nel 24% dei
casi. Un dato non significativo, se confrontato all’eventuale utilizzo
della sigmoidoscopia (45). Un importante studio randomizzato norvegese
condotto con l’intento di confrontare rettosigmoidoscopia, e
rettosigmoidoscopia + test sangue occulto fecale immunologico, pur con
una compliance del 65%, non ha rilevato alcuna differenza tra i bracci
dello studio ed ha segnalato complicanze serie, 6 perforazioni nei
pazienti sottoposti a colonscopia terapeutica (2-4,45).
3.5 Ricerca di DNA nelle feci
La progressione da mucosa sana a cancro (sequenza adenoma/cancro) è una
sequenza di eventi molecolari ormai ben caratterizzata, dove numerosi
geni sono coinvolti, senza che però siano sempre presenti ed in sequenza
obbligata (52). Quindi, è possibile pensare che nelle feci siano
presenti componenti di DNA tumorale e per rilevare tale presenza sono
state messe a punto metodiche ad hoc, comunque considerando due problemi
essenziali, quali la molteplicità dei geni e la discriminazione dal DNA
dei batteri fecali. Attualmente, è disponibile solo un kit commerciale e
l’impiego di tale test ha costi elevati, superiori ai test per la
ricerca di sangue occulto fecale.
Dopo studi preliminari (4), è stato effettuato un importante studio
prospettico su 4.400 soggetti asintomatici, confrontando colonscopia,
DNA fecale e test al guaiaco.
La sensibilità del DNA fecale per il cancro è stata del 50%, con tasso
di falsi positivi del 5% evidenziando una sensibilità e, soprattutto,
specificità inferiori alle attese (53-56).
Quindi, la metodica rimane sicuramente interessante, ma se non saranno
migliorati i parametri d’impiego, tra cui i costi, è difficile, pensare
ad un suo utilizzo a breve nei programmi di screening (3,4,56).
La Tabella 1 sintetizza i risultati ad oggi ottenibili con i diversi test per lo screening del cancro colorettale.
Tabella 1
3.6 Conclusioni
L’evidenza che lo screening sia in grado di ridurre la mortalità per
cancro colorettale attraverso la diagnosi in stadi precoci e
l’individuazione e l’asportazione degli adenomi è ormai un dato
consolidato. Nessun test utilizzabile al riguardo, però, è perfetto per
la diagnosi sia del cancro sia degli adenomi, e presenta elementi a
favore e limiti.
Quindi, la preferenza degli individui e la disponibilità delle metodiche
giocano un ruolo nella scelta del test di screening. In linea teorica,
lo screening dovrebbe essere strutturato in modo da iniziare con una
stratificazione per rischio e proseguire dopo il test iniziale con un
adeguato follow-up, sino a raggiungere il risultato finale. L’efficacia
di ogni singolo test è, infatti, strettamente correlata alla qualità ed
al livello di partecipazione al programma. Inoltre, considerando la
differenza di incidenza e di distribuzione di adenomi e cancri nei vari
tipi popolazione, sono state suggerite raccomandazioni di screening
differenziate.
Individui a rischio intermedio (età > 50 anni)
Test per la diagnosi di Cancro
– Test al guaiaco annuale o test immunologico annuale /biennale
– DNA fecale in valutazione
Test per la diagnosi di Adenomi e Cancro
– Rettosigmoidoscopia ogni 10 anni
– Colonscopia ogni 10 anni
– Clisma doppio contrasto ogni 5 anni
– Colonscopia virtuale ogni 5 anni
3.7 Sorveglianza
Screening e sorveglianza sono due definizioni che hanno in comune
l’obiettivo di ottenere diagnosi precoce però si differenziano sia per
procedure sia per modalità organizzative.
Per sorveglianza s’intende il monitoraggio di coloro che hanno avuto
precedenti diagnosi di malattie neoplastiche o pre-neoplastiche del
colon o in cui è stata identificata una condizione di rischio aumentato
(1). La familiarità con l’età rappresenta uno di fattori più frequenti
di rischio per il cancro colorettale, con aumento relativo fino a 3-4
volte (16%) in determinate condizioni, tale evidenza può motivare
l’attivazione di protocolli differenti per intensità e procedure
diagnostiche (1,3,6).
Familiarità semplice
I pazienti che presentano un solo parente di primo grado con CCR
diagnosticato dopo i 50 anni di età hanno un rischio relativo doppio o
triplo, rispetto alla popolazione generale, di sviluppare loro stessi la
malattia o di sviluppare un adenoma colorettale. Le attuali
raccomandazioni consigliano, in questi casi, lo stesso tipo di screening
proposto per i pazienti con rischio generico (FOBT annuale ±
sigmoidoscopia ogni 5 anni) cominciando, però, dai 40 anni di età.
Comunque, occorre tenere presente che, con questa metodica di screening,
circa il 25-30% dei tumori colorettali localizzati prossimamente alla
giunzione colon discendente-sigma non viene diagnosticato; in
particolare, ricorrendo esclusivamente alla rettosigmoidoscopia, non si
diagnostica oltre il 35% delle lesioni neoplastiche avanzate ossia
adenomi con diametro > 10 mm o con componente villosa o ad alto grado
di displasia o cancro invasivo. In base a queste considerazioni, anche
se non supportate da studi clinici controllati randomizzati in
doppio-cieco, la colonscopia totale, quando eseguibile, dovrebbe
costituire la metodica di scelta, rappresentando una procedura sicura,
con un rischio di complicanze maggiori (emorragia digestiva, accidenti
cerebro-cardio-vascolari) quantificabile intorno allo 0.3%, se associata
a manovre terapeutiche (polipectomia) e allo 0.1%, se esclusivamente
diagnostica (1,3-6).
Familiarità complessa
Con il termine familiarità complessa per CCR s’intende la presenza nel
nucleo familiare di uno o più parenti con diagnosi di neoplasia
colorettale, che non rientra nella definizione di familiarità semplice o
di sindrome ereditaria (FAP, HNPCC). I pazienti che presentano un
parente di primo grado con diagnosi prima dei 50 anni di età o con due
parenti di primo grado con CCR presentano un rischio aumentato di 3-4
volte, rispetto alla popolazione generale, così come presentano un
rischio aumentato di circa 2-3 volte i pazienti con due parenti di
secondo grado con CCR, di circa 2 volte con un parente di primo grado
con un polipo adenomatoso, soprattutto se in stadio avanzato (diametro
>= 1 cm o villoso) o di circa 1.5 volte con un parente di secondo o
terzo grado con CCR. In tutti questi casi, è stato notato un progressivo
aumento del rischio al ridursi dell’età di diagnosi del caso indice, in
particolare se rilevato ad un’età <= 60 anni. In tutti i casi sopra
detti, eccetto nel caso della presenza di parenti di secondo o terzo
grado con CCR, viene raccomandata una colonscopia totale ogni 3-5 anni a
partire dai 40 anni oppure ad un’età inferiore di 10 anni rispetto
all’età, al momento della diagnosi, del caso indice più giovane. In
alternativa, come seconda scelta, dovrebbe essere proposto il clisma
opaco a doppio contrasto, solo dopo che la pancolonscopia non è stata
accettata o tollerata dal paziente. Per i pazienti con parenti di
secondo o terzo grado con CCR, si consiglia la stessa modalità di
screening dei pazienti con rischio generico, tenendo presente i limiti
sopra riportati (1-6).
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4.0 ANATOMIA PATOLOGICA
4.1 Istopatogenesi
4.2 Caratteristiche macroscopiche
4.3 Caratteristiche istologiche
4.4 Stadiazione
4.5 Stadiazione dopo terapia neoadiuvante
4.6 Margini di resezione
Direzioni future
4.1 Istopatogenesi
Dal punto di vista genetico-molecolare si distinguono due principali
categorie di carcinoma colorettale (1,2). La prima e più frequente è
caratterizzata da instabilità cromosomica, con marcate alterazioni del
cariotipo, frequenti delezioni alleliche, aneuploidia ed inattivazione
dei geni onco-soppressori APC e p53 e di geni localizzati sul
braccio lungo del cromosoma 18. Questi tumori progrediscono secondo la
sequenza adenoma-carcinoma, prendendo origine dai comuni adenomi.
L’evento iniziante è rappresentato dall’inattivazione biallelica del
gene APC cui segue il progressivo accumularsi delle altre alterazioni genetiche (in ordine preferenziale: mutazione di K-ras, delezione di 18q, inattivazione di p53).
La seconda categoria (15% dei casi) è caratterizzata da instabilità dei
microsatelliti (MSI) e comprende tumori sporadici (prevalenti) ed
ereditari (sindrome di Lynch) (vedi cap. 2). I carcinomi con MSI (o più
precisamente MSI-H) presentano modeste alterazioni del cariotipo,
contenuto nucleare di DNA diploide, infrequenti delezioni alleliche ed
alterazioni del gene p53 e tendono, per contro, ad accumulare mutazioni
in brevi sequenze ripetute presenti nella porzione codificante di
numerosi geni, quali TGFßRII, BAX e IGFRII. Il
carcinoma MSI-H è determinato da deficit del sistema di riparazione del
DNA, DNA Mismatch Repair (MMR), causato da metilazione biallelica del
promoter del gene MLH1 nei carcinomi sporadici e da mutazione germline di MLH1, MSH2 o, più raramente, di MSH6e PMS2,
con inattivazione somatica del secondo allele, nei tumori ereditari
(3,4). Mentre la sequenza adenoma-carcinoma è operante anche nella
genesi dei tumori MSI-H ereditari, nei quali la progressione da adenoma a
carcinoma si verifica più rapidamente, i carcinomi MSI-H sporadici
sembrano originare da precursori morfologici differenti (polipi
iperplastici ed adenomi serrati, costituenti la serrated neoplasia
pathway) (5,6).
Negli ultimi anni, è stata dimostrata l’esistenza di una terza categoria
molecolare di carcinoma colorettale, caratterizzata da elevati livelli
di metilazione genica (CpG Island Methylator Phenotype, CIMP) (7,8).
Questi tumori presentano metilazione del promoter di numerosi geni, tra
cui geni onco-soppressori e mutazione dell’oncogene BRAF. Inoltre, parte dei casi sono MSI-H per metilazione del promoter di MLH1. La maggioranza dei carcinomi CIMP si svilupperebbe da polipi serrati, secondo una sequenza
polipo iperplastico → adenoma serrato → adenocarcinoma
nella quale, a livello molecolare, la mutazione di BRAF è
l’evento più precoce, cui segue la progressiva acquisizione del fenotipo
CIMP e più tardivamente, in una parte dei casi, l’instaurarsi
dell’instabilità dei microsatelliti.
Classificazione istologica degli adenomi
Gli adenomi colorettali vengono classificati in base all’istotipo ed al
grado di displasia. Secondo la classificazione istologica WHO (9), si
distinguono tre tipi di adenoma: tubulare (componente tubulare >
80%), villoso (componente villosa > 80%) e tubulo-villoso (entrambe
le componenti presenti in misura compresa tra 20% e 80%). La displasia
viene graduata in basso grado (lieve o moderata) ed alto grado (grave),
in base all’entità delle alterazioni architetturali (conformazione delle
ghiandole e dei villi) e citologiche (mucosecrezione; stratificazione,
polarità, ipercromasia e polimorfismo nucleari; attività mitotica).
4.2 Caratteristiche macroscopiche
La maggioranza dei carcinomi del grosso intestino sono localizzati nel
sigma (45% circa) e nel retto (25%). Nelle ultime decadi è stato
descritto un incremento dei tumori localizzati nel colon prossimale
(cieco, colon ascendente e trasverso), che attualmente costituiscono
oltre il 30% dei casi. Le dimensioni variano da pochi mm a più di 10 cm
di diametro. L’aspetto macroscopico può essere esofitico/vegetante con
crescita prevalentemente intraluminale, più frequente nel colon destro,
endofitico/ulcerato con prevalente crescita intramurale, anulare con
interessamento circonferenziale della parete e stenosi del lume, a
placca, o diffusamente infiltrante tipo linite plastica. Aspetti misti o
intermedi sono frequenti. Le lesioni precoci presentano spesso
conformazione polipoide, peduncolata o sessile.
4.3 Caratteristiche istologiche
Istotipo
La classificazione WHO (9) distingue i seguenti istotipi:
– adenocarcinoma, costituito da strutture ghiandolari di variabili dimensioni e configurazione;
– adenocarcinoma mucoide (o mucinoso), caratterizzato dalla presenza
di abbondante muco extracellulare, che costituisce > 50% del volume
tumorale;
– carcinoma a cellule con castone (signet-ring cell carcinoma),
costituito per > 50% da cellule castonate, contraddistinte da un
voluminoso vacuolo intracitoplasmatico di muco dislocante alla periferia
il nucleo;
– carcinoma midollare, prevalentemente costituito da lamine e trabecole
solide di cellule in genere regolari e con modeste atipie nucleari e
caratterizzato dalla presenza di numerosi linfociti intraepiteliali;
– carcinoma indifferenziato, privo di aspetti morfologici di differenziazione;
– carcinoma a piccole cellule, con caratteristiche morfologiche e
biologiche simili a quelle del carcinoma polmonare a piccole cellule;
– carcinoma adenosquamoso;
– carcinoma squamoso.
Gli adenocarcinomi rappresentano oltre l’85% dei casi, gli
adenocarcinomi mucoidi il 10% e gli altri istotipi nel complesso meno
del 5%, essendo i carcinomi squamosi ed adenosquamosi molto rari. I
tumori con una componente mucoide < 50% sono classificati come
adenocarcinomi. I carcinomi a cellule con castone e a piccole cellule
sono associati ad una prognosi peggiore, mentre il carcinoma midollare,
essendo quasi sempre MSI-H, comporta una prognosi favorevole. La
prognosi dell’adenocarcinoma mucoide, MSI-H nel 30% dei casi, sembra
principalmente dipendere dalle caratteristiche genetiche della
neoplasia. Nel complesso, la valutazione dell’istotipo è più rilevante
ai fini della caratterizzazione bio-patologica del tumore, che della
definizione della prognosi del paziente.
Grado di differenziazione
In base alle caratteristiche delle ghiandole, utilizzando i criteri
della classificazione WHO, gli adenocarcinomi sono suddivisi in ben e
moderatamente differenziati (basso grado, con ghiandole regolari o
modicamente irregolari) e poco differenziati (alto grado, con ghiandole
irregolari od assenti). In presenza di eterogeneità intratumorale, il
grado viene definito dalla componente meno differenziata, con
l’esclusione dei margini di infiltrazione, ove sono spesso presenti
aspetti di sdifferenziazione. La suddivisione in due categorie è più
riproducibile rispetto a quella in tre gradi e quindi preferibile, anche
in ragione del fatto che dal punto di vista clinico è rilevante
l’identificazione dei tumori poco differenziati a prognosi peggiore.
Recentemente, il College of American Pathologists ha proposto un sistema
di grading in due classi, basato su criteri classificativi differenti
(basso grado: > 50% del tumore produce ghiandole; alto grado: <
50% del tumore produce ghiandole) (10). Un analogo sistema di grading
basato sulla predominanza della componente bene/moderatamente
differenziata o scarsamente differenziata è utilizzato dai patologi
anglosassoni (11). Negli adenocarcinomi mucoidi, il grado di
differenziazione viene determinato basandosi sulle caratteristiche sia
della componente non mucoide sia di quella mucoide (basso grado:
accumuli di muco delimitati da epitelio colonnare mucosecernente; alto
grado: aggregati irregolari, o singole cellule immerse nel muco o
presenza di cellule con castone).
Altri parametri
Numerose altre caratteristiche istologiche vengono prese in
considerazione nel carcinoma colorettale, soprattutto in funzione di una
correlazione con il decorso clinico. Tra queste, ricordiamo l’invasione
vascolare e perineurale, il tipo di crescita (espansiva od
infiltrativa), il grado di infiltrazione linfocitaria al margine di
invasione, la presenza di aggregati nodulari linfocitari peritumorali
(reazione linfocitaria “tipo Crohn”), il numero di linfociti
compenetranti le cellule neoplastiche (Tumor-Infiltrating Lymphocytes,
TIL) ed il tumor budding (12,13).
Correlazioni morfo-genotipiche
I carcinomi colorettali MSI-H presentano caratteristiche patologiche
distintive rispetto ai carcinomi non MSI-H: prevalente localizzazione
nel colon prossimale, scarsa differenziazione, più frequente istotipo
mucoide, midollare o indifferenziato, marcata infiltrazione linfocitaria
peritumorale “tipo Crohn” e presenza di un elevato numero di TIL (1).
Tuttavia, ad eccezione dell’istotipo midollare (14), non esistono
alterazioni istopatologiche patognomoniche del fenotipo MSI-H, per la
cui identificazione si rendono pertanto necessarie appropriate indagini
genetiche (analisi dell’instabilità dei microsatelliti con PCR) od
immunoistochimiche (analisi dell’espressione delle proteine del MMR)
(15).
4.4 Stadiazione
Lo stadio è il più importante fattore prognostico nel carcinoma
colorettale ed il principale parametro utilizzato per stabilirne il
trattamento. Si raccomanda l’utilizzo del sistema di classificazione
UICC-TNM (16).
pT: tumore primitivo
pTis: carcinoma in situ: intraepiteliale o con invasione della lamina propria della mucosa
pT1: tumore che infiltra la sottomucosa
pT2: tumore che infiltra la tonaca muscolare
pT3: tumore che infiltra a tutto spessore la tonaca
muscolare con invasione della sottosierosa o dei tessuti pericolici o
perirettali non rivestiti da sierosa
pT4: tumore che infiltra direttamente altri organi o strutture e/o il peritoneo viscerale
Dal punto di vista patologico, sarebbe più corretto utilizzare il
termine di adenocarcinoma in situ per le neoplasie intraepiteliali (che
non superano la membrana basale) e di adenocarcinoma intramucoso quando è
presente infiltrazione della lamina propria (senza estensione oltre la
muscolaris mucosae). Nel colon-retto, comunque, entrambi i tipi di
neoplasia sono privi di potenziale metastatico e per tale motivo, molti
patologi ritengono preferibile utilizzare per queste lesioni il termine
di displasia grave (alto grado).
Il carcinoma infiltrante la sottomucosa (pT1) rappresenta la forma più
precoce di adenocarcinoma con potenziale metastatico (carcinoma
colorettale iniziale o early colorectal cancer). Spesso presenta
conformazione polipoide, è associato ad una componente adenomatosa, da
cui origina e viene asportato endoscopicamente (cosiddetto adenoma o
polipo cancerizzato o maligno) (17). In caso di rimozione endoscopica,
la valutazione istologica della lesione ha un’importanza primaria nel
definire il successivo trattamento. L’infiltrazione del margine di
resezione, l’invasione di vasi linfatici o venosi e la scarsa
differenziazione tumorale costituiscono sicura indicazione alla
resezione chirurgica. Quando questi tre parametri sono negativi, il
rischio di presenza di metastasi linfonodali o di residui neoplastici
nella parete è molto basso, giustificando un atteggiamento conservativo.
Ulteriori fattori che nella maggior parte degli studi sono risultati
correlarsi al rischio di metastasi linfonodali sono il budding tumorale e
la misurazione microscopica quantitativa della massima profondità di
infiltrazione nella sottomucosa (18).
pN: linfonodi regionali
pN0: linfonodi regionali liberi da metastasi
pN1: metastasi in 1-3 linfonodi regionali
pN2: metastasi in 4 o più linfonodi regionali
Nelle neoplasie colorettali non è infrequente il riscontro nel tessuto
adiposo periviscerale di noduli tumorali, senza evidenza istologica di
residuo tessuto linfatico. Secondo l’ultima classificazione TNM, questi
noduli tumorali devono essere considerati come metastasi linfonodali
quando presentano forma e contorno regolare del linfonodo,
indipendentemente dalle dimensioni. I noduli con margini irregolari
devono essere invece considerati come espressione di infiltrazione
neoplastica discontinua ed eventualmente, anche di invasione venosa e
pertanto non conteggiati come metastasi linfonodali regionali. Questo
criterio classificativo qualitativo introdotto nella sesta edizione non è
stato accolto dai patologi anglosassoni, che preferiscono attenersi a
quanto riportato nella quinta edizione TNM, in cui i noduli tumorali
vengono classificati esclusivamente in base alle dimensioni ed
equiparati a metastasi linfonodali solo se di diametro > 3 mm (19).
L’esame istologico del materiale ottenuto con una linfoadenectomia
regionale comprende abitualmente 12 o più linfonodi. Il numero di
linfonodi esaminati è comunque molto variabile e dipende da numerosi
fattori, tra i quali i più importanti sono una variabilità anatomica
individuale, l’estensione chirurgica della linfoadenectomia,
l’accuratezza della ricerca effettuata dal patologo e le stesse
caratteristiche istologiche e biologiche del tumore (20). Nei pazienti
sottoposti a radioterapia pre-operatoria si riscontra più frequentemente
un minor numero di linfonodi nel pezzo operatorio. Si ritiene comunque,
che il numero medio di linfonodi esaminati per paziente sia un buon
indice di qualità della pratica clinica e questo numero, grazie alla
notevole attenzione posta al problema, è aumentato negli ultimi anni.
Anche se è opinione comune che debba essere esaminato un minimo di 12
linfonodi per una definizione accurata della classe pN0, studi recenti
hanno, in realtà, dimostrato che non esiste un valore soglia del numero
di linfonodi da esaminare per una stadiazione adeguata. È compito del
patologo cercare ed esaminare con la massima diligenza tutti i linfonodi
presenti nel pezzo operatorio e, nel referto istopatologico, deve
sempre essere specificato sia il numero di linfonodi esaminati sia il
numero di linfonodi metastatici (21). Studi di recente pubblicazione
hanno evidenziato che il numero di linfonodi esaminati è un importante
parametro prognostico sia nei pazienti pN0 sia nei pazienti con
linfonodi positivi, essendo stato dimostrato che un numero minore di
linfonodi esaminati si associa ad una minore sopravvivenza (22).
Inoltre, è stato recentemente riportato come il rapporto tra numero di
N+ e numero totale di N esaminati sia un fattore prognostico
indipendente e più significativo delle categorie pN (23).
Secondo una regola generale della classificazione TNM, i casi con sola
presenza di cellule tumorali isolate (ITC) nei linfonodi regionali sono
classificati come pN0. Le ITC sono singole cellule o piccoli gruppi di
cellule la cui dimensione massima non supera 0.2 mm, generalmente
evidenziabili con analisi immunoistochimica, ma che possono essere
rilevate anche con la colorazione ematossilina-eosina. Lo stesso
criterio classificativo è da applicarsi quando la presenza di cellule
tumorali o loro componenti viene evidenziata con tecniche non
morfologiche, quali analisi molecolari. Questi casi vengono classificati
come segue:
pN0 (i-): con l’esame istologico non si osservano
metastasi nei linfonodi regionali; negativa la ricerca di ITC mediante
metodi morfologici
pN0 (i+): con l’esame istologico non si osservano
metastasi nei linfonodi regionali; positiva la ricerca di ITC mediante
metodi morfologici
pN0 (mol-): con l’esame istologico non si osservano
metastasi nei linfonodi regionali; negativa la ricerca di ITC mediante
metodi non morfologici
pN0 (mol+): con l’esame istologico non si osservano
metastasi nei linfonodi regionali; positiva la ricerca di ITC mediante
metodi non morfologici
Nel carcinoma colorettale il significato prognostico di ITC, rilevate
con metodi morfologici o molecolari, non è chiaramente definito, i
diversi studi avendo prodotto risultati contrastanti.
I tumori con sole micrometastasi (metastasi di dimensioni comprese tra
0.2 e 2 mm) possono essere identificati con l’aggiunta della sigla
“(mi)”, ad esempio pN1(mi).
pM: metastasi a distanza
pM0: assenza di metastasi a distanza
pM1: presenza di metastasi a distanza
Nel caso la stadiazione sia solo clinica “p” viene omesso.
Nel caso di stadiazione con ecografia endocavitaria lo stadio T e lo stadio N devono essere preceduti dalla lettera “u”.
Raggruppamento in stadi
Stadio 0: Tis N0 M0
Stadio I: T1-2 N0 M0
Stadio IIA: T3 N0 M0
Stadio IIB: T4 N0 M0
Stadio IIIA: T1-2 N1 M0
Stadio IIIB: T3-4 N1 M0
Stadio IIIC: ogni T N2 M0
Stadio IV: ogni T ogni N M1
Gli stadi I, II e III corrispondono rispettivamente agli stadi A, B e C
della classificazione di Dukes. Nella sesta edizione della
classificazione UICC-TNM, è stata introdotta negli stadi II e III una
suddivisione in sottogruppi ad indicare categorie di pazienti con
prognosi differente, rispettivamente peggiore per lo stadio IIB rispetto
al IIA, per lo stadio IIIC rispetto al IIIB e per il IIIB rispetto al
IIIA (24).
4.5 Stadiazione dopo terapia neoadiuvante
Per quanto riguarda il carcinoma rettale, quando la stadiazione
patologica viene effettuata dopo radioterapia o radiochemioterapia, le
categorie pTNM devono essere precedute dalla lettera “y” (ad esempio
ypT2) ed indicano l’estensione del tumore al momento della valutazione
istopatologica. La risposta tumorale alla terapia neoadiuvante sembra
essere un rilevante fattore prognostico (25), ma i risultati riportati
in letteratura non sono univoci. Sono stati proposti diversi sistemi di
valutazione istologica del grado di risposta alla terapia neoadiuvante
(26). Attualmente i patologi inglesi utilizzano una classificazione
semplificata che distingue tre categorie (11):
– assenza di cellule tumorali residue (regressione completa);
– residui tumorali minimi (rari focolai microscopici di cellule tumorali identificabili);
– regressione tumorale non significativa.
Nel sistema TNM, i tumori con regressione completa vengono classificati come ypT0.
4.6 Margini di resezione
È importante verificare lo stato dei margini di resezione (prossimale,
distale e radiale), essendo la radicalità dell’intervento un importante
fattore prognostico e criterio di pianificazione terapeutica.
La classificazione TNM distingue le seguenti categorie:
R0: assenza di residui tumorali
R1: residui tumorali microscopici
R2: residui tumorali macroscopici
In particolare, nel carcinoma del retto è fondamentale la valutazione
istologica del margine di resezione radiale (o profondo o
circonferenziale), essendo il suo interessamento il più importante
fattore predittivo di recidiva loco-regionale. Inoltre, una recente
meta-analisi ha evidenziato che il coinvolgimento del margine radiale
comporta un significativo aumento del rischio di recidiva locale, di
disseminazione metastatica e di morte per neoplasia anche in pazienti
trattati con terapia neoadiuvante e total mesorectal excision (27).
Nelle neoplasie rettali la distanza minima del tumore dal margine di
resezione radiale dovrebbe sempre essere riportata nel referto
istologico.
Direzioni future
Per quanto riguarda le lesioni preinvasive, obiettivi prioritari della ricerca in questo settore sono:
– definizione del ruolo delle caratteristiche istologiche dell’adenoma
nel rischio di successivo sviluppo di cancro, al fine di ottimizzare il
follow-up dei pazienti sottoposti a polipectomia endoscopica;
– elaborazione di una classificazione istologica dei polipi serrati,
correlata alle caratteristiche bio-molecolari ed evolutive dei diversi
tipi di lesione e rispondente alle attuali esigenze cliniche.
Per quanto riguarda il carcinoma invasivo, gli obiettivi più immediati da conseguire in campo anatomo-patologico sono:
– validazione di nuovi parametri nel trattamento dell’adenoma cancerizzato, asportato endoscopicamente;
– verifica del ruolo di parametri patologici nell’identificazione dei
pazienti stadio II ad alto rischio, da selezionare per la terapia
adiuvante.
Per raggiungere questi obiettivi, dovranno essere indagati criteri
patologici obiettivi e riproducibili, validati in studi clinici
controllati e disegnati in stretta collaborazione tra patologo e
clinico.
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6.0 DIAGNOSTICA
6.1 Molecolare
Direzioni future
6.2 Strumentale
Direzioni future
6.1 Molecolare
Marcatori per diagnosi precoce
La diagnosi precoce rappresenta un importante aspetto nella cura dei tumori colorettali (CCR).
Attualmente, la ricerca del sangue occulto nelle feci (FOBT) rappresenta
il sistema di diagnosi non invasiva più diffuso ed utilizzato nei
programmi di screening per i tumori colorettali (1-3) (vedi cap. 3).
Nonostante i notevoli miglioramenti in termini di sensibilità e
specificità registrati utilizzando i nuovi test FOBT e le nuove
strategie di screening (4), il principale limite nell’accuratezza rimane
l’alto numero di falsi negativi e la sensibilità non ottimale
nell’individuare le lesioni pre-neoplastiche, quali polipi ed adenomi.
L’analisi delle alterazioni molecolari presenti nelle cellule tumorali
esfoliate nelle feci rappresenta un’interessante alternativa agli
attuali approcci non invasivi per la diagnosi precoce del CCR.
Anche se gli studi basati su questi marcatori sono ancora relativamente
preliminari, essi sono fortemente suggestivi e lasciano prevedere, in un
prossimo futuro, il loro utilizzo come razionale di screening. Infatti,
diversamente dall’analisi del sangue occulto, basato su sanguinamenti
che avvengono ad intermittenza, l’esfoliazione cellulare avviene in
maniera continuativa, assicurando un notevole vantaggio in termini di
sensibilità del test.
Infatti, la popolazione cellulare dell’epitelio nel colon normale si
rinnova ogni 3/8 giorni, per cui si ha una continua esfoliazione di
cellule che si riversano nel lume intestinale e quindi nelle feci (5,6).
Diversi studi indicano che l’esfoliazione cellulare è molto maggiore in
soggetti che presentano una neoplasia che negli individui sani. A
conferma di ciò, il DNA proveniente da cellule neoplastiche può
costituire fino al 14-24% del DNA recuperato nelle feci, nonostante il
CCR coinvolga meno dell’1% della superficie colica totale (7,8,9).
Le prime evidenze a supporto dell’ipotesi che lo stato di conservazione e
la quantità del DNA genomico presente nelle feci potessero
rappresentare un buon indicatore della presenza di cellule neoplastiche,
si sono ottenute circa 10 anni or sono in uno studio, in cui si
osservava che la quantità di DNA presente nelle feci di pazienti con CCR
era superiore a quello ottenibile da individui sani (9).
Inoltre, da successivi studi è emerso come la capacità di amplificare
frammenti di DNA genomico, estratto da feci, di dimensioni superiori
alle 200-300 paia di basi (bp) fosse maggiore nei campioni fecali
provenienti da pazienti con CCR. In particolare, è stato osservato come
la semplice analisi dei livelli di amplificato del DNA fecale (L-DNA,
Long DNA) fosse in grado di identificare oltre la metà dei pazienti con
tumore o con lesioni precancerose, quali gli adenomi (7,10).
Questa tecnica è stata poi ulteriormente perfezionata per permettere
valutazioni quantitative, ottenendo risultati ancora più interessanti e
raggiungendo una sensibilità di circa l’80% nell’individuare lesioni
neoplastiche (11,12).
La differente resa e qualità del DNA proveniente da cellule neoplastiche
rispetto a quello proveniente da cellule sane sembra essere legato al
diverso destino che queste subiscono, una volta raggiunto il lume
intestinale. Le cellule normali non ancora in apoptosi attivano
immediatamente questo processo. Il DNA viene quindi frazionato,
generando piccole molecole di circa 150/200 bp (10). Le cellule maligne
invece, generalmente, sopravvivono più a lungo in quanto le alterazioni
genetiche presenti precludono l’attivazione dei processi di apoptosi e
morte cellulare. Una volta raggiunto il lume, le cellule neoplastiche
possono comunque venire distrutte ad opera dei sali biliari che
attraverso la loro azione emulsionante provocano la rottura delle
membrane cellulari liberando DNA più integro che rilascia nelle feci
molecole di dimensioni anche superiori a 150-200 bp.
Oltre al DNA, negli ultimi anni, sono stati studiati altri marcatori
molecolari. È noto da tempo che alterazioni a carico di particolari
geni, quali oncogeni ed oncosoppressori, eventi epigenetici, quali
l’ipermetilazione di alcune regioni specifiche di DNA ed alterazioni a
carico dei sistemi di controllo della corretta replicazione del DNA sono
alla base dell’instabilità genomica e genetica e spesso causa della
trasformazione e progressione tumorale. Molti studi hanno evidenziato
come effettivamente l’analisi di questi marcatori molecolari, a partire
dal DNA estratto dalle feci, possano essere un valido approccio per lo
sviluppo di nuovi sistemi di diagnosi precoce (7,13-16,20,23,24,32)
(Tabella 1).
Tabella 1 Marcatori molecolari di diagnosi precoce
In particolare, dati interessanti si sono ottenuti utilizzando alcuni specifici marcatori. Le mutazioni del gene K-ras,
ad esempio, sono state le prime ad essere studiate in materiale fecale
(13) e sono tuttora alla base dello sviluppo di nuovi test diagnostici
(18). In tutti i casi, questo tipo di approccio si è dimostrato
fattibile e con un’elevata specificità, ma purtroppo con non altrettanta
elevata sensibilità, almeno quando utilizzato singolarmente, per poter
pensare ad un suo impiego a fianco o in sostituzione degli attuali
approcci non invasivi.
Analoghe considerazioni possono essere formulate per l’analisi di mutazioni degli oncosoppressori quali APC
e p53: essi si ritrovano, infatti, frequentemente alterati nei tumori
colorettali, ma purtroppo mai con una frequenza tale da garantire
un’alta sensibilità (7,8,19).
Inoltre, risultati disponibili indicano come singoli marcatori abbiano
una diversa sensibilità a seconda della localizzazione del tumore
(15,20), limitando ulteriormente le potenzialità diagnostiche di questi
quando utilizzati singolarmente.
Da questi dati emerge quindi come sia necessario utilizzare sistemi
multiparametrici (7,17,21-23), che allo stesso tempo aumentano
notevolmente i tempi ed i costi dell’analisi (24-26). Questo ha reso
improponibile un loro impiego su larga scala.
Direzioni Future
Negli ultimi anni, non soltanto le feci, ma anche il sangue periferico è
stato utilizzato e si è dimostrato un valido approccio per la diagnosi
precoce (27). A tale proposito, vi sono alcuni studi che indicano come
l’analisi del DNA libero circolante sia, ad esempio, un buon marcatore
di diagnosi precoce anche per i tumori colorettali. A riguardo, vi sono
risultati molto interessanti, basati sia sulla valutazione quantitativa
(28) sia sul grado di integrità del DNA, alla stregua di quanto fatto
nelle feci (29).
Comunque, la validazione di qualsiasi nuovo test diagnostico molecolare
deve essere raggiunta attraverso apposite linee guida (30,31) che
prevedono innanzitutto una corretta valutazione della sensibilità e
specificità in studi caso-controllo sia pilota sia confirmatori e,
successivamente, studi in coorti di individui con caratteristiche simili
a quelle utilizzate nei progetti di screening.
Nel caso di CCR, dovrebbe essere anche valutata la capacità di
individuare le lesioni precancerose potenzialmente più aggressive, in un
confronto tra metodologie diagnostiche molecolari più avanzate ed il
FOBT convenzionale.
Per molti degli approcci molecolari fino ad oggi proposti, si è ancora lontani dal disporre di questi confronti e validazioni.
Due sono i metodi che allo stato attuale della sperimentazione e delle
conoscenze sembrano più promettenti: il sistema molecolare
multiparametrico, per il quale esiste già un kit commerciale, che in
studi su larga scala ha presentato tuttavia alcuni limiti in termini di
costi ed effettiva sensibilità (19,24,26,32). Un’interessante
alternativa sembra essere la valutazione quantitativa dello stato di
conservazione del DNA estratto dalle feci (FL-DNA e sistemi analoghi)
che, rispetto al precedente è caratterizzato da una maggior semplicità
di esecuzione a fronte di sensibilità e specificità simili, se non
superiori, nella rilevazione delle lesioni tumorali. Futuri studi su
larghe coorti di individui definiranno meglio le potenzialità di
quest’approccio per la diagnosi precoce del CCR.
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6.2 Strumentale
Gli accertamenti diagnostici devono essere guidati dall’interpretazione
dei segni e dei sintomi emergenti durante un’accurata visita clinica,
che comprenda anche l’esecuzione di un’esplorazione rettale digitale.
L’esplorazione rettale è un semplice esame che, pur limitandosi al
tratto distale del retto, può consentire la diagnosi sino al 10-15% dei
tumori del grosso intestino. La consapevolezza dell’importanza della
visita clinica nella diagnostica del carcinoma colorettale deve
costituire un patrimonio professionale non solo dello specialista, ma
anche e soprattutto del Medico di Medicina Generale (vedi cap. 10). Si
stima che fra l’esordio dei sintomi e l’intervento chirurgico
intercorrano 4 mesi per le localizzazioni al colon sinistro e 7 mesi per
quelle al colon destro.
In questi ultimi anni, nelle scienze mediche si è realizzata
un’evoluzione culturale tumultuosa e sostanziale, che ha coinvolto tutte
le discipline, interessando in maniera prevalente quelle più legate al
progresso tecnologico.
In particolare, la diagnostica per immagini ha beneficiato del
perfezionamento delle apparecchiature, per cui è divenuto possibile
ottenere, in maniera rapida e poco traumatizzante, immagini molto fedeli
alla realtà anatomica, in grado di incrementare l’accuratezza
diagnostica ed il riconoscimento di patologie in fase precoce. Le
caratteristiche di rapidità e risoluzione, con effettuazione di studi
perfusionali, ha permesso inoltre di ottenere immagini che, oltre
all’alto contenuto diagnostico anatomico, forniscono informazioni di
tipo funzionale, molto importanti per la valutazione della risposta alle
terapie.
Questa situazione rende conto del ruolo sempre più importante che hanno
assunto in oncologia le grandi apparecchiature computerizzate, quali la
Tomografia Computerizzata (TC), particolarmente nella sua versione
spirale multi-strato e la Risonanza Magnetica (RM), che anche nella
patologia del tumore del colon-retto hanno affiancato ed in parte
sostituito, le tecniche radiologiche tradizionali.
Esami endoscopici
Rettosigmoidoscopia. L’esame, eseguito con
strumento flessibile, è di facile esecuzione ed è ben tollerato;
richiede una semplice preparazione eseguibile dal paziente con un
clistere due ore prima; inoltre, presenta costi modesti. Poiché il 70%
dei carcinomi sporadici del grosso intestino sono localizzati nel colon
sinistro, l’esame presenta una discreta sensibilità. Associata ad
eventuale polipectomia, la rettosigmoidoscopia come test di screening
induce una significativa riduzione di mortalità per carcinoma
colorettale nella popolazione in cui viene applicata. Il principale
svantaggio dell’esame consiste nella sua inadeguatezza nella diagnosi
dei tumori primitivi o di lesioni sincrone del colon destro. Pertanto,
deve essere considerato nel sospetto di carcinoma del colon, o come
esame di screening, solo quando associato al clisma opaco con doppio
mezzo di contrasto, od alla colonscopia virtuale, nei casi in cui non
sia possibile eseguire una colonscopia totale.
Colonscopia. È un esame discretamente
invasivo, che richiede una preparazione fastidiosa per il paziente:
dieta senza scorie per due giorni e somministrazione di un lassativo
osmotico il giorno precedente l’esame. Inoltre, presenta un costo
discreto. Nel settore dello screening è un esame indispensabile in
popolazioni a rischio (familiarità, diagnosi pregressa di polipi o
carcinomi colorettali, presenza di malattie infiammatorie intestinali
croniche). Per la diagnosi di tumori del grosso intestino, la
colonscopia è l’esame con maggiore accuratezza diagnostica, sensibilità e
specificità superiori al 95%. Pur essendo considerata il gold standard
diagnostico, anche la colonscopia può non diagnosticare lesioni anche
significative. Si stima che tra il 2% ed il 6% dei carcinomi sfuggano
alla colonscopia ed è riportata un’incidenza dello 0.3-0.9% di carcinomi
nei tre anni che seguono una polipectomia. E’ anche noto che il 25% dei
piccoli adenomi ed il 6% degli adenomi > 1 cm sfuggono alla prima
colonscopia e che la molteplicità degli adenomi aumenta la probabilità
di non identificarli tutti. Questi dati sono significativamente
correlati a standard di qualità dell’esame, quali la buona preparazione
intestinale, l’accuratezza nell’esplorazione e l’esperienza
dell’operatore (1).
In presenza di polipi, oltre alla diagnosi, è possibile il trattamento
delle lesioni mediante polipectomia o mucosectomia. Le complicazioni si
verificano più frequentemente dopo una polipectomia, con un’incidenza
complessiva di emorragia variabile tra lo 0.2% e 2.5% ed un’incidenza di
perforazione variabile tra lo 0.07% e 0.7% (vedi cap. 3). La
perforazione è evento molto raro, che necessita in genere di intervento
chirurgico in urgenza. La pancolonscopia è attualmente da considerarsi
l’esame di riferimento per la diagnosi del carcinoma del grosso
intestino.
Esami radiologici
Clisma opaco con doppio mezzo di contrasto.
Possiede una sensibilità globale pari al 94%. Nel caso dei polipi, la
sensibilità dipende dalle dimensioni: 22% per polipi di 2-3 mm, 56% per
polipi di 4-5 mm, 83% per polipi compresi tra 6-9 mm, quasi il 100% per
polipi > 1 cm. L’accuratezza diagnostica è molto variabile in
rapporto all’esperienza del radiologo. Poiché i residui fecali
interferiscono con la qualità dell’esame, è consigliabile un’accurata
preparazione intestinale come per la colonscopia. È necessario ricorrere
ad una successiva endoscopia per la biopsia o la rimozione delle
lesioni eventualmente diagnosticate. Il clisma opaco può essere
preferibile nel sospetto di lesioni perforate e nelle neoplasie
stenosanti che non consentono la progressione dell’endoscopio. In tali
casi, il clisma deve essere condotto con mezzo di contrasto
idrosolubile, inoltre deve essere eseguito con doppio mezzo di contrasto
(dmc) nei pazienti che rifiutano l’endoscopia o nei casi in cui
l’endoscopia risulta incompleta per mancata osservazione di tutto il
colon. Dal momento che le indagini con il bario interferiscono con la
TC, il clisma con bario deve essere programmato almeno 4-5 giorni prima.
Anche il clisma opaco, come la colonscopia, presenta, seppure
raramente, il rischio di perforazione, con necessità di immediato
intervento chirurgico.
Colonscopia virtuale (CV). E’ ormai nota come
la nuova metodica radiologica di studio del colon, alternativa o
integrativa della colonscopia tradizionale, in specifiche situazioni
cliniche. Essa può essere effettuata utilizzando sia la TC sia la RM ed è
stata proposta, in anni recenti, per la diagnosi precoce degli adenomi e
delle neoplasie maligne. La TC, oggi maggiormente utilizzata, consiste
nell’acquisizione di immagini che vengono successivamente elaborate con
una work station, creando sia immagini 2D sia 3D, che permettono una
visione endo-luminale ed una valutazione completa di tutto il colon,
comprese le zone stenotiche anche a monte delle stenosi neoplastiche,
non transitabili normalmente dall’endoscopio tradizionale. Fino ad oggi,
sono stati condotti diversi studi che hanno prodotto risultati
eterogenei. La sensibilità della CV aumenta con le dimensioni delle
lesioni. Per polipi < 6 mm, essa è circa del 48%, tra 6 e 9 mm del
70% e per polipi > 9 mm dell’85%. La variabilità dei risultati
dipende probabilmente dalla qualità delle apparecchiature utilizzate. La
sensibilità per i tumori risulta, invece, maggiormente omogenea, con
risultati rispettivamente del 92%, 93% e 97% per le 3 classi di
dimensione (2-4). Le immagini di colonscopia virtuale soffrono di un
numero relativamente elevato di falsi positivi, rappresentati in gran
parte da residui fecali. In questi casi, appare estremamente importante
la ricerca della pulizia intestinale ed è d’aiuto lo studio
contemporaneo delle immagini assiali oltre che di quelle virtuali. I
falsi negativi sono legati prevalentemente alla scarsa sensibilità per
le lesioni piatte. L’accuratezza diagnostica complessiva sembra
paragonabile a quella della colonscopia tradizionale e superiore al
clisma opaco (5), con una minore invasività rispetto a queste due
indagini.
Esami radiologici di stadiazione pre-trattamento e follow-up
Rx Torace. È un esame ritenuto indispensabile nella stadiazione clinica e nella valutazione anestesiologica pre-operatoria.
Ecografia epatica (US). Essendo il fegato il
principale organo “bersaglio” delle metastasi a distanza, rilevate in
circa il 15-20% dei pazienti al momento della prima osservazione,
l’ecografia epatica è ritenuta esame indispensabile nella stadiazione
clinica pre-trattamento. Nel riconoscimento delle metastasi epatiche,
l’ecografia convenzionale ha una sensibilità relativamente bassa
(53-77%), ma l’utilizzo del mezzo di contrasto (Contrast Enhanced
Ultrasound, CEUS) sembra migliorarla notevolmente. Sotto guida
ecografica, è possibile anche l’esecuzione di biopsie percutanee.
Ecografia con mezzo di contrasto (CEUS). La
disponibilità di mezzi di contrasto (mdc) dedicati, sempre più efficaci,
permette di valutare il parenchima epatico in tutte le fasi
contrastografiche: arteriosa, parenchimale, portale, tardiva. Questo ha
portato ad un notevole incremento del potere diagnostico di questa
metodica sia in termini di risoluzione spaziale sia, soprattutto, di
caratterizzazione tessutale (discriminazione tra patologia benigna e
lesione eteroformativa), riducendo sensibilmente la sua dipendenza
dall’operatore (6,7). In un recentissimo studio comparativo tra CEUS e
TC multi-strato (8), la sensibilità per le metastasi da tumore del
colon-retto è risultata di poco superiore per la TC (89% vs 80%), mentre
la specificità di poco superiore per la CEUS (98% vs 94%).
Ecografia transrettale. Non ha valore di
accertamento diagnostico di 1° livello: è importante per una stadiazione
clinica pre-trattamento nei tumori del retto, ma non può essere
eseguita nei tumori stenosanti. L’accuratezza diagnostica varia dal 77%
al 93% per lo studio del parametro T, solo di poco inferiore alla
Risonanza Magnetica (9), mentre l’accuratezza è inferiore per lo studio
del parametro N (sensibilità 50%; specificità 70%). L’esame è molto
utile, in presenza di tumori “precoci”, per decidere la fattibilità di
un intervento conservativo (escissione chirurgica transanale o
asportazione endoscopica).
Ecoendoscopia (EUS). L’indagine ecoendoscopica
è attualmente considerata di fondamentale importanza per la stadiazione
locale del carcinoma rettale, per stratificare le neoplasie iniziali
ancora suscettibili di resezione locale, da quelle più invasive, ma non
avanzate (T1-2, N0) con indicazioni alla resezione chirurgica immediata e
da quelle avanzate per infiltrazione del grasso perirettale e/o
linfoadenopatie perilesionali o del mesoretto, che si giovano di una
radiochemioterapia neoadiuvante.
L’accuratezza diagnostica dell’EUS per il parametro T varia tra l’80% ed
il 95% ed è migliore di quella della TC (65-75%) e della RM (75-85%) ed
è soprattutto adeguata nel riconoscimento dello stadio T2.
L’accuratezza nel determinare la metastatizzazione ai linfonodi
loco-regionali varia tra il 70% ed il 75% ed anche in questo caso, è
superiore a quella della TC (55-65%) e della RM (60-70%). Linfonodi
ipoecogeni a margini netti e rotondeggianti di diametro >= 1 cm sono
generalmente sede di metastasi, ma per dimensioni inferiori
l’accuratezza diagnostica è minore.
Si deve sottolineare che l’EUS, grazie al valore predittivo positivo
(PPV) nell’identificare i tumori T3/T4 (100%) ed al basso rischio di
sottostadiazione (15%) rispetto alla TC (39%), è l’esame di stadiazione
più efficace nella stratificazione dei pazienti per la scelta
terapeutica ed è anche la strategia a miglior rapporto costo-efficacia
associata alla TC nella stadiazione complessiva, rispetto a TC e RM.
Limite dell’EUS è la difficoltà di valutare i rapporti tra neoplasia
primitiva e linfonodi e la fascia mesorettale. Ciò può essere limitativo
nella definizione pre-operatoria dei margini di resezione, che non sono
correttamente valutabili con la sola EUS.
L’EUS è anche la migliore indagine diagnostica di recidiva dopo
resezione anteriore del retto per l’alta sensibilità (100%), superiore a
quella della TC (82-85%). La specificità è inferiore per la difficoltà
di discriminare tra flogosi e recidiva, ma in questo caso può essere
migliorata mediante esecuzione dell’agoaspirato ecoguidato (10).
TC addomino-pelvica e torace. Nei tumori del
grosso intestino, non ha valore di accertamento diagnostico di 1°
livello, mentre è utilizzata per la stadiazione clinica pre-trattamento
relativa all’estensione loco-regionale (parametro T e N) e alla presenza
di metastasi a distanza (parametro M). L’accuratezza della TC nella
stadiazione dei tumori nella fase iniziale è controversa, mentre nelle
fasi avanzate è ben documentata, potendosi evidenziare l’ispessimento
parietale, l’infiltrazione delle strutture contigue e le alterazioni
flogistiche peri-coliche. La diffusione della TC spirale multi-strato
(attualmente da 4 a 128 strati), con la velocità di esecuzione,
altissima risoluzione spaziale, tessutale e temporale, ha portato sempre
più all’utilizzo di questa metodica sia nella stadiazione sia nel
follow-up dei tumori del colon-retto. La sua indipendenza
dall’operatore, la facile confrontabilità di esami successivi ed il
costo relativamente minore rispetto ad altre metodiche rendono
attualmente la TC spirale multi-strato del torace e dell’addome il
metodo di imaging maggiormente utilizzato negli studi clinici. Per la
sensibilità diagnostica notevolmente maggiore per noduli polmonari di
minime dimensioni, sempre più spesso la TC viene infatti estesa allo
studio sia dell’addome sia del torace, sostituendo progressivamente
l’uso dei radiogrammi tradizionali anche per questo distretto. Tale
atteggiamento diagnostico (TC torace in luogo di Rx) deve essere
ritenuto standard per i pazienti con carcinoma del retto candidabili a
trattamento neoadiuvante, mentre in tutti gli altri casi, l’esecuzione
di Rx Torace può essere sufficiente per una stadiazione basale. Per
quanto riguarda l’accuratezza diagnostica della TC nelle metastasi
epatiche, essa è attualmente considerata la migliore possibile per una
singola modalità diagnostica pre-operatoria e la sensibilità sembra
migliorare con l’aumento del numero degli strati di detettori (11).
Nella TC per lo studio del fegato, l’impiego di più fasi
contrastografiche (arteriosa, portale, tardiva) ha portato ad un grande
miglioramento nell’accuratezza diagnostica delle lesioni focali. Per
quanto riguarda l’utilizzo della fase arteriosa nelle metastasi, è
controverso l’impatto sulla sensibilità complessiva, mentre sembra
verosimile l’incremento della specificità, specie per le metastasi
ipervascolari (12,13).
Risonanza Magnetica (RM). La RM,
particolarmente con l’introduzione delle nuove sequenze veloci e
l’impiego dei recenti mezzi di contrasto epato-specifici, sembra avere
complessivamente le stesse indicazioni e la stessa accuratezza della TC
multi-strato e queste due metodiche sono attualmente considerate il gold
standard per la diagnosi di lesioni focali epatiche (14). In alcuni
studi comparativi, la RM sembra avere una sensibilità lievemente
maggiore ed in particolare, in quello di Kim et al., in cui sono
valutati comparativamente i risultati diagnostici rispetto ai reperti
chirurgici e patologici (15). Particolarmente interessante risulta per
la rilevazione delle metastasi, l’impiego dei contrasti
superparamagnetici SPIO (Super Paramagnetic Iron Oxide) con affinità
specifica per il sistema reticolo-endoteliale, in particolare per le
cellule di Kupffer del fegato: queste cellule non sono presenti nel
tessuto patologico delle metastasi, determinando così una diversità del
segnale di risonanza (15-17). Particolarmente importante è il ruolo
della RM nella stadiazione pre-operatoria delle neoplasie rettali, dove è
considerata attualmente la metodica diagnostica più accurata. In una
recentissima casistica (9), la RM ha ottenuto una sensibilità del 96%
quando analizzata da radiologi con specifica competenza e del 77% quando
analizzata da radiologi generici, con una specificità rispettivamente
del 74% e 40%. La sensibilità riportata per le adenopatie è dell’85%. Il
limite maggiore riportato è la difficoltà di discriminazione tra stadio
T2 e T3 (18). Viene sempre sottolineata l’importanza dell’esperienza
del radiologo refertatore, per ottenere risultati di valore così
elevato.
PET e PET-TC. La tomografia ad emissione di
positroni permette di studiare l’eventuale accumulo di precursori
metabolici marcati. Viene utilizzata per identificare siti primitivi e
secondari di neoplasia o per differenziare le lesioni maligne da quelle
benigne. Nel carcinoma colorettale viene talora utilmente impiegata
allo scopo di chiarire la natura di lesioni dubbie già evidenziate da
esami di 1° livello, come la TC, oppure quando, soprattutto in corso di
follow-up, si osserva un incremento di un marcatore oncologico, in
assenza di localizzazioni documentate dai più convenzionali esami
diagnostici.
Direzioni future
Imaging funzionale. Sia la TC multistrato sia
la RM offrono attualmente software con la possibilità di effettuare
indagini che, oltre al dettaglio anatomico, forniscono importanti
informazioni sulla vitalità dei tessuti patologici, principalmente in
termini di studio del micro-circolo tumorale. Si tratta degli esami
detti di “perfusione” (perfusion CT) e “diffusione” (Dynamic Contrast
Enhanced Magnetic Resonance Imaging, DCE-MRI). Queste possibilità,
ancora non utilizzate su grande scala in senso routinario in campo
clinico ed ancora in fase valutativa, sono comunque oggetto di numerose
comunicazioni scientifiche e sembrano presentare interessantissime
prospettive riguardo alla valutazione della risposta delle lesioni
tumorali alla terapia, in particolare rispetto ai nuovi farmaci
chemioterapici ed anti-angiogenici. Tra i tumori più studiati, figura
appunto quello del colon-retto (19-24).
Computer Assisted Diagnosis, CAD. Sono sistemi
di diagnosi assistita; si tratta di software “intelligenti”, che hanno
la capacità di identificare le lesioni tumorali e di presentarle al
radiologo per la valutazione definitiva (polipi e tumori nella CV,
lesioni epatiche). Il ruolo del CAD, al momento, è quello di agire quale
secondo osservatore, al fine di ridurre gli errori di percezione,
sempre insiti nella metodica, dal momento che l’enorme numero di
immagini da analizzare (fino a oltre 1.000 per paziente) rende il lavoro
del radiologo estenuante (25).
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[/column][/box][box][column collapse_spacing=”yes” vertical_align=”top” auto_height=”yes” css=”border-top-width: medium; border-top-style: none; border-top-color: initial; border-right-width: medium; border-right-style: none; border-right-color: initial; border-bottom-width: medium; border-bottom-style: none; border-bottom-color: initial; border-left-width: medium; border-left-style: none; border-left-color: initial; padding-top: 0; padding-right: 0; padding-bottom: 0; padding-left: 0; ” width=”24″ last]
7.0 TRATTAMENTO: 7.1 Endoscopico
7.1 Endoscopico
L’asportazione endoscopica degli adenomi gioca un ruolo fondamentale nella diagnosi e nell’impedire la
progressione della lesione precancerosa a carcinoma in stadio iniziale. Attualmente, tale procedura
permette nella maggior parte dei casi di elettroresecare, attraverso le tecniche di polipectomia o
mucosectomia (1,2), neoformazioni peduncolate, sessili o piatte in un unico frammento. Le neoformazioni
più voluminose possono comunque essere asportate in più di un frammento, purché tutti i frammenti
vengano recuperati per l’esame istopatologico. Un adenoma con cancerizzazione focale confinata entro
la muscolaris mucosae (pTis) viene attualmente considerato, dal punto di vista clinico, come un adenoma
con displasia di alto grado, condizione che non si configura come invasiva ed in cui non può esservi
disseminazione linfatica. Invece, l’adenoma con focolaio di cancerizzazione, che infiltra la sottomucosa
oltre la muscolaris mucosae (pT1), è considerato carcinoma infiltrante in stadio iniziale con potenzialità
metastatiche.
La polipectomia endoscopica può esser considerata un trattamento oncologicamente sufficiente anche in
caso di adenoma con focolaio di carcinoma invasivo quando all’esame istopatologico si confermino
alcuni parametri anatomo-patologici favorevoli quali la completezza dell’asportazione con margine di
resezione distante di almeno 1 mm dal carcinoma o per le forme sessili e non polipoidi, con infiltrazione
confinata in profondità entro 1.000 micron, un grading favorevole (G1-2) e l’assenza di invasione linfatica
o vascolare della sottomucosa. In questi casi, la possibilità di metastasi ai linfonodi pericolici è molto
improbabile. Metastasi ai linfonodi sono possibili nel 15-30% dei casi, quando uno o più dei parametri
istopatologici sono sfavorevoli (margine di resezione interessato dall’infiltrazione, scarsa differenziazione
invasione vascolare e/o linfatica) ed è quindi consigliabile la resezione chirurgica con linfoadenectomia.
Una recente revisione dell’argomento di Hassan et al. (2005) (3) su 38 studi (1.900 pazienti) ha
quantizzato il rischio di outcome sfavorevole in questi termini:
– se il margine di sezione è positivo, il rischio di malattia residua è del 30%, di recidiva del 17%, di
metastasi linfonodali del 7%, di metastasi a distanza del 9% e di mortalità dell’8%;
– se la differenziazione è scarsa, il rischio di malattia residua è del 18%, di metastasi linfonodali del 23%,
di metastasi a distanza del 10%, di mortalità del 15%;
– se vi è invasione vascolare, il rischio di malattia residua è del 18%, di metastasi linfonodali del 35%, di
metastasi a distanza del 5% e di mortalità del 3%.
Se si eccettua la necessità di intervenire chirurgicamente in caso di resezione incompleta, la prevalenza
di metastasi linfonodali nei casi ben differenziati e senza invasione vascolare è del 7-9%. Se nessuno dei
fattori di rischio considerati fosse presente, il rischio di malattia residua è 1%, di recidiva 0%, di
metastasi linfonodali 5%, di metastasi a distanza 0.3% e di mortalità 0.7%.
E’ perciò evidente che il trattamento da farsi dopo una polipectomia endoscopica deve esser
personalizzato: infatti, oltre ai parametri summenzionati, occorre tener conto dell’età del paziente, del
rischio operatorio generale e specifico cioè legato alla sede della resezione, alla disponibilità del
paziente in caso di astensione chirurgica di sottoporsi ad un controllo (eco)endoscopico periodico, alla
difficoltà di reperire il tratto di colon-retto sede della polipectomia se l’operatore iniziale ha omesso di
annotare reperi precisi del polipo. In particolare in soggetti anziani o con rischio operatorio elevato per
comorbidità, si ritiene che, anche in caso di margini di resezione dubbi o polipectomia in frammenti, se il
carcinoma è ben differenziato, si possa optare per un attento follow-up endoscopico per monitorare
un’eventuale recidiva locale (4). L’endoscopia ha un ulteriore ruolo terapeutico nel carcinoma avanzato
complicato da occlusione, sia come preparazione ad un intervento di resezione in elezione, sia come
palliazione definitiva, in caso di metastasi a distanza.
Le protesi metalliche attualmente disponibili possono essere posizionate in tutti i segmenti colici,
risolvendo l’ostruzione ed evitando nell’85% dei casi una colostomia temporanea od un intervento di
resezione immediata che, in corso di occlusione, è gravato da morbilità e mortalità significative. Inoltre,
risolta l’occlusione, si può procedere ad una stadiazione completa con scelte terapeutiche più ragionate
(eventuale chemioterapia e/o radioterapia neoadiuvante).
Nel carcinoma metastatico o non operabile, le protesi metalliche risolvono l’ostruzione e consentono una
qualità di vita migliore con un netto beneficio in termini di costi e complicanze rispetto ad una colostomia
definitiva, che è evitabile in più di due terzi dei casi (5).
Nei carcinomi avanzati del tratto distale, sigma e retto, la fotocoagulazione laser mantiene ancor oggi un
ruolo palliativo sia nel controllo del tenesmo sia del sanguinamento, con risultati efficaci nella quasi totalità
dei casi, ma anche nel trattamento disostruttivo, soprattutto nelle neoformazioni a carattere
prevalentemente vegetante, evitando la colostomia immediata nel 90% dei casi, ottenendo risultati
consolidati nel 65% dei casi e mantenendo la canalizzazione in tre quarti dei pazienti trattati (6).
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[/column][/box][box][column collapse_spacing=”yes” vertical_align=”top” auto_height=”yes” css=”border-top-width: medium; border-top-style: none; border-top-color: initial; border-right-width: medium; border-right-style: none; border-right-color: initial; border-bottom-width: medium; border-bottom-style: none; border-bottom-color: initial; border-left-width: medium; border-left-style: none; border-left-color: initial; padding-top: 0; padding-right: 0; padding-bottom: 0; padding-left: 0; ” width=”24″ last]
7.0 TRATTAMENTO: 7.2 Chirurgico (prima parte)
7.2 Chirurgico
Nella presentazione della strategia chirurgica si è fatto particolare
riferimento alle “Guidelines 2000 for Colon and Rectal Surgery” (1),
pubblicate nel 2001 ad opera di un gruppo di esperti sponsorizzato dal
National Cancer Institute ed alla revisione della letteratura più
recente, in proposito.
Va considerato che tutte le raccomandazioni esposte sono di grado C o D
secondo la evidence-based clinical practice, a meno che non sia
diversamente specificato nel testo. Questo significa che le procedure
consigliate si basano, al massimo, su studi randomizzati di scarsa
potenza statistica, esposti cioè a un forte rischio di errore di falsa
positività e falsa negatività (tipo I e tipo II) e, più comunemente, su
studi clinici non randomizzati, prospettici o retrospettivi o su analisi
di semplici casistiche, con risultati non sempre coerenti tra loro.
Recentemente (primavera 2008), un gruppo di esperti della Commissione
Oncologica della Regione Lombardia ha prodotto una “Linea Guida
terapeutica per il carcinoma del colon” ed una “Linea Guida terapeutica
per il carcinoma del retto” che rappresentano un riferimento per la
pratica clinica nell’ambito della Rete Oncologica Lombarda
(www.progettorol.it). Ulteriori approfondimenti sullo argomento sono
liberamente accessibili nell’ambito del Progetto State of the Art
(www.Startoncology.net). Relativamente ai tumori del retto si è
recentemente svolta a Perugia la European Rectal Cancer Consensus
Conference (EURECA-CC2), i cui risultati saranno pubblicati a breve.
Per ciascuna sede di tumore del colon e del retto, si è voluto
presentare una trattazione uniforme del volume di resezione comprensiva
del livello di sezione del peduncolo vascolo-linfatico, indicativo
perciò dell’estensione della linfoadenectomia standard e della lunghezza
dei margini di sezione sul viscere.
Carcinoma del colon
Livello di legatura-sezione del peduncolo linfovascolare
L’estensione ideale della resezione viene definita dalla legatura e
sezione del peduncolo vascolare principale e del corrispondente
drenaggio linfatico.
Se il tumore è equidistante dai due peduncoli vascolari principali,
entrambi dovrebbero essere sezionati all’origine. Tuttavia, va precisato
che la vascolarizzazione del colon non segue un pattern costante, come
hanno dimostrato i moderni studi di anatomia radiologica.
Per il colon destro, e conseguente emicolectomia destra, occorre
considerare che l’arteria ileocolica è il vaso arterioso più costante e
nasce a circa 7 cm dall’origine dell’arteria mesenterica superiore (lato
destro), di cui costituisce l’ultima collaterale. Da essa può originare
un ramo colico superiore che, di fatto, funziona come arteria colica
destra. Questa ha un’origine distinta dall’arteria mesenterica superiore
solo nel 13% dei casi e più comunemente è sostituita da rami
dell’arteria ileocolica o dell’arteria colica media. Nel 46% dei casi,
questa si divide in due rami, uno per l’angolo colico destro e l’altro
per il traverso. Quando l’arteria dell’angolo colico destro ha origine
dalla mesenterica superiore (32% dei casi), manca l’arteria colica
destra e viceversa.
Per quanto concerne il colon traverso, e la colectomia trasversa,
occorre tener presente che l’arteria colica media non è sempre un
singolo vaso, ma possono esistere più arterie:
– colica media unica (46% dei casi), che si divide in un ramo per l’angolo colico destro e uno per il traverso;
– per l’angolo colico destro (32%);
– per il colon traverso (12%);
– accessoria per il colon traverso (3%);
– colica sinistra accessoria (7%); quest’ultima è importante perché si
associa ad assenza (86%) od atrofia (9%) dell’arteria colica media e
quindi, quando presente, è l’unica arteria afferente all’angolo
splenico.
Infine, per quanto attiene al colon sinistro, e relativa emicolectomia
sinistra e resezione anteriore del retto-sigma, la prima collaterale
dell’arteria mesenterica inferiore è la colica sinistra, seguita dai
rami sigmoidei dopo i quali l’arteria mesenterica inferiore viene
denominata arteria rettale superiore. Nel 38% dei casi, l’arteria
colosigmoidea ha origine dalla colica sinistra.
E’ importante ricordare che la normale arteria colica sinistra può mancare.
Linfoadenectomia
Il livello della sezione del peduncolo vascolare condiziona anche il
volume della linfoadenectomia che, a sua volta, ha importanti
implicazioni prognostiche e terapeutiche.
Il volume ideale della linfoadenectomia non è unanimemente accettato e
generalmente si ritiene che un campione di almeno 12 linfonodi nel pezzo
operatorio sia adeguato (1,2) anche se solo il 40% delle Istituzioni
americane, secondo una recente indagine, si adegua a questo standard
(3). Una recente ampia revisione della letteratura (4) su 17 studi, che
includeva globalmente 61.371 pazienti, ha dimostrato in 16 un incremento
nella sopravvivenza nei pazienti in II stadio con l’aumento del numero
di linfonodi nel pezzo operatorio e analogamente 4 studi su 6 di
pazienti in III stadio riportavano un’associazione positiva. Anche se
non è stato possibile definire chiaramente un valore cut-off del numero
dei linfonodi che si associa ad una miglior sopravvivenza, (in alcuni
studi, il beneficio oncologico era presente nei casi in cui il numero
dei linfonodi superava 17 ed in altri 40!), emerge l’indicazione per
un’ampia linfonodectomia.
Vi è un solo studio randomizzato dell’Associazione Francese per la
Ricerca in Chirurgia (5) che ha paragonato, in 270 pazienti con tumori
del colon sinistro, l’emicolectomia sinistra (legatura dell’arteria
mesenterica inferiore all’origine, resezione di circa 32 cm di colon,
anastomosi trasversorettale) alla resezione segmentaria (legatura
dell’arteria colica sinistra e delle arterie sigmoidee, resezione di
circa 22 cm di colon, anastomosi colon discendente-retto superiore o
sigmoidectomia) con risultati sovrapponibili nei due gruppi, in termini
di sopravvivenza e frequenza di stadi II/III.
Tale studio ha peraltro un valore limitato, perché l’entità delle due
resezioni è troppo simile per discriminare un’eventuale differenza tra
resezioni limitate e resezioni estese.
Margini di resezione
Benché vi sia qualche divergenza di opinione, 5-10 cm di intestino su
entrambi i lati del tumore costituiscono probabilmente il volume minimo,
nei tumori del colon, di resezione viscerale adeguato ad asportare i
linfonodi pericolici e paracolici (lungo l’arcata marginale) e ridurre
le recidive anastomotiche.
Nei pazienti con due o più neoplasie coliche o con HNPCC si deve
prendere in considerazione la colectomia totale con ileo-rettoanastomosi
o la proctocolectomia.
Va precisato che l’ampiezza della resezione intestinale ed il volume
della linfoadenectomia sono strettamente correlati e non è possibile
definire il ruolo indipendente dell’ampiezza della resezione viscerale
sulla frequenza di recidive e sulla sopravvivenza.
No-touch isolation technique
La preoccupazione che, durante la mobilizzazione del tratto colico sede
del tumore, potessero staccarsi microemboli neoplastici, origine di
future metastasi, ha costituito lo stimolo per la messa a punto, negli
anni ’60 da parte di Turnbull, della cosiddetta no-touch isolation
technique, che consisteva nella legatura precoce dei peduncoli vascolari
principali prima di qualunque manovra sul colon. Mentre un certo numero
di studi ha, di fatto, confermato che la manipolazione del tumore si
accompagna ad una maggior frequenza di cellule neoplastiche in circolo,
fenomeno peraltro in parte prevenibile con il clampaggio precoce e
simultaneo del peduncolo arterioso e venoso, tuttavia, il significato
biologico di questo fenomeno non è affatto chiaro.
Di fatto, l’unico studio randomizzato su 236 pazienti non ha dimostrato
alcuna significativa differenza nella sopravvivenza a 5 anni tra braccio
trattato con no-touch isolation technique e braccio trattato con
chirurgia convenzionale (6).
Chirurgia laparoscopica del colon
Sebbene la prima serie di resezioni coliche videolaparoscopiche per
cancro sia stata pubblicata nel 1991, questa tecnica non è stata subito
accettata dai chirurghi quale trattamento per le patologie oncologiche
colorettali.
Oggi tuttavia si dispone di ampie casistiche di studi randomizzati e
meta-analisi (7-9) che rendono possibili alcune conclusioni di massima.
1 Diversi studi hanno dimostrato un’equivalenza dei risultati a breve
termine (10) e dei risultati a lungo termine (11) tra laparoscopia e
chirurgia aperta. Una recente revisione della Cochrane Library (12) su
12 RCT (3.346 pazienti) ha dimostrato che non vi erano significative
differenze tra chirurgia laparoscopica e chirurgia aperta per quanto
concerne frequenza di ernie incisionali, reinterventi per aderenze,
recidive sulla cicatrice laparotomica o metastasi ai port-sites.
Inoltre, incidenza di recidive locali, sopravvivenza globale e libera da
malattia erano sovrapponibili. I recentissimi dati (13) del COLOR RCT
riportano conclusioni simili, ma più conservative in quanto la
sopravvivenza a 3 anni era dell’81.8% nella resezione laparoscopica
contro l’84.2% in quella aperta, un’equivalenza che non è
statisticamente smentita.
2 Resta confermato che la chirurgia laparoscopica si accompagna ad un
più precoce ritorno alla normalità dei pazienti operati anche quando
confrontata con una chirurgia aperta che si associ ad un programma di
ottimizzazione dell’assistenza peri-operatoria (14), anche se i benefici
in termini di qualità della vita, nel breve termine, sono stati
definiti minimi (15).
3 Va sempre considerato che i risultati degli studi comparativi tra
chirurgia laparoscopica e chirurgia aperta non possono essere tout
court estesi a tutte le neoplasie del colon, poiché molti RCT
escludevano i pazienti obesi od occlusi o precedentemente operati sul
colon ipsilaterale o con tumori multipli od estrinsecati od aventi sede
nel colon traverso.
In ultima analisi, i dati attualmente disponibili rivelano una
sostanziale equivalenza relativamente alla radicalità oncologica, alla
morbilità, alle recidive locali e alla sopravvivenza globale e libera da
malattia.
I limiti della chirurgia laparoscopica, da quanto emerge dalle
casistiche segnalate, sono la necessità di un’adeguata esperienza
laparoscopica del Centro e di un’adeguata curva di apprendimento dei
Chirurghi.
Sono inoltre necessarie ulteriori analisi relative ai costi.
Carcinoma del retto
Anatomicamente, il retto comincia dove finisce il mesocolon del sigma,
in corrispondenza del tratto medio della III sacrale e termina a livello
della superficie superiore del pavimento pelvico.
Nell’accezione delle Guidelines 2000 for Colon and Rectal Cancer Surgery
(1), il retto comprende i 12 cm distali di intestino crasso fino al
margine anale, misurati con rettoscopio rigido.
Il mesoretto è il tessuto cellulo-adiposo a contenuto linfovascolare,
grasso e nervoso che circonda il retto, cui aderisce, iniziando a
livello del promontorio sacrale ove l’arteria emorroidaria superiore si
divide nei due rami rettali sinistro e destro. Il mesoretto si
assottiglia progressivamente in senso caudale, in corrispondenza del III
distale del retto, fin sotto la fascia di Waldeyer che ricopre i
muscoli elevatori.
Nonostante il retto così definito misuri circa 12 cm, un insieme di
considerazioni cliniche e anatomo-chirurgiche tende a definire
specificamente l’approccio chirurgico per i tumori degli ultimi 8 cm di
retto.
Tali considerazioni sono:
1 Il tumore in questa sede, al contrario di tutti gli altri segmenti
intestinali, è ben stadiabile perché palpabile e ben raggiungibile
eco-endoscopicamente. Ciò ha consentito l’attuazione di studi
randomizzati per stadi di malattia ben definiti e particolarmente
riguardanti l’impiego di un trattamento neoadiuvante.
2 Il retto medio-distale è un tratto di intestino fisso, parzialmente
extrapelvico e che, quindi, si presta bene ad una radioterapia pre o
post-operatoria.
3 I vari tipi di trattamento chirurgico per tumori di questo distretto
si debbono confrontare non solo sul piano del risultato oncologico
(sopravvivenza a distanza, sopravvivenza libera da malattia e recidiva
locale), ma anche su quello, importantissimo, della conservazione
sfinteriale e quindi della qualità di vita, anche se i rapporti tra
mantenimento o meno della funzione sfinteriale e qualità di vita sono
lungi dall’esser chiari e costanti.
La problematica si pone essenzialmente per i tumori del III distale del
retto, cioè i tumori che occupano gli ultimi 5 cm e sono subito sopra la
giunzione (anello) anorettale.
Gli interventi conservativi per via addominale comprendono perciò, la
resezione anteriore alta per tumori del retto superiore o sigma distale,
la resezione anteriore per tumori del III medio, la resezione anteriore
bassa per tumori del III inferiore, che non si estendono nell’ultimo
centimetro distale di retto. In quest’ultimo caso, se il retto viene
asportato in toto con sezione a livello della giunzione anorettale, si
ha una resezione anteriore ultrabassa e se la resezione si estende
ancora più distalmente nel canale anale, la continuità è ottenuta con
un’anastomosi coloanale.
Livello di legatura-sezione del peduncolo linfovascolare prossimale
Il peduncolo vascolare principale è costituito dall’arteria emorroidaria
(rettale) superiore che va legata alla sua origine dopo l’emissione
della colica sinistra e delle arterie sigmoidee.
Una recente revisione sistematica della letteratura (16) ha analizzato
se il livello della legatura dell’arteria emorroidaria (rettale)
superiore, “alta”, in corrispondenza dell’origine dell’arteria
mesenterica inferiore o “bassa”, subito dopo l’emissione della colica
sinistra e/o delle arterie sigmoidee, potesse avere un’importanza
oncologica o compromettere l’innervazione e la vascolarizzazione del
moncone prossimale con conseguenze sulla tenuta dell’anastomosi.
L’analisi ha concluso che la legatura alta compromette la perfusione e
la vascolarizzazione del moncone prossimale ed è oncologicamente
ininfluente. Pertanto la legatura “bassa”, che è meno invasiva, è
preferibile. Si rende però spesso necessaria la legatura alta per una
mobilizzazione tension-free del colon sino al piccolo bacino.
Linfoadenectomia
Il drenaggio linfatico del retto superiore è longitudinale lungo il
peduncolo vascolare, quello del retto inferiore è
longitudinale-craniale, ma anche laterale ai linfonodi iliaci,
ipogastrici, sacrali, inguinali e lungo i vasi emorroidali medi ed i
legamenti laterali.
La chirurgia standard che comporta la legatura dei rami dell’arteria
mesenterica inferiore a valle dei rami colosigmoidei consegue un buon
controllo del distretto linfonodale longitudinale-craniale ed è noto che
un’ulteriore estensione craniale non è oncologicamente utile.
La dissezione linfonodale laterale rimane un argomento estremamente controverso.
Un’ottima, recente ed ampia revisione di tutta la letteratura (17) su circa 3.000 pazienti fornisce le seguenti informazioni:
– l’incidenza di N+ laterali nei pazienti sottoposti a dissezione
laterale è pari a 14.6 % ed è numericamente rilevante solo nel retto
inferiore (16.7%);
– la frequenza di recidive locali è del 26.1% a 5 anni;
– la sopravvivenza pari a 39.8% a 5 anni.
Nel mondo occidentale si tende a considerare l’interessamento dei
linfonodi laterali come diffusione metastatica a distanza (nel TNM sono
classificati M1), ma la Società Giapponese per i tumori colorettali (18)
considera tali linfonodi come distretto loco-regionale e cita
sopravvivenze del 25-80% in studi selezionati di pazienti N+ trattati
con dissezione laterale allargata.
Poiché l’intervento di dissezione laterale allargata si associa ad una
morbilità peri-operatoria più elevata e a sequele urogenitali
importanti, anche gli autori giapponesi limitano la dissezione laterale
ai tumori del retto sottoperitoneali T3/4.
Nel mondo occidentale si tende a considerare la dissezione linfonodale
laterale superata dall’impiego della RT pre-operatoria. Una recente
pubblicazione della Cochrane Library (19) ha confrontato la semplice
chirurgia a chirurgia preceduta da RT (19 RCT) e la RT pre-operatoria
verso chemio-RT pre-operatoria (9 RCT). I risultati di questa
meta-analisi dimostrano che la RT si associa ad un modesto miglioramento
della sopravvivenza (~2%) e ad una diminuzione delle recidive locali e
che la riduzione delle recidive locali è ulteriormente potenziata dal
trattamento combinato. Una dissezione laterale non aggiunge alcun
beneficio se il paziente riceve un trattamento di RT pre-operatoria
(20).
Margine di resezione
Il margine di resezione importante è quello distale, perché sono i
rapporti con lo sfintere che condizionano l’esecuzione di un intervento
conservativo o demolitivo. Attualmente, si ritiene adeguato un margine
di resezione prossimale di almeno 5 cm ed uno distale di almeno 1 cm.
I criteri di scelta tra interventi conservativi e demolitivi dello
sfintere riposano su dati anatomo-patologici e clinici ben assodati:
1 propagazione microscopica distale intramurale: è limitata entro 2 cm
dal bordo distale del tumore in oltre il 95% dei casi. Se la
propagazione distale supera 1.5 cm, ciò avviene in tumori poco
differenziati, a prognosi pessima indipendentemente dall’ampiezza del
margine di sezione che si vuole mantenere;
2 rapporto tra ampiezza del margine di sezione, recidive locali e
sopravvivenza. Se si mantiene un margine distale < 1 cm, aumenta la
frequenza di recidive locali, ma ciò non condiziona la sopravvivenza.
Negli ultimi 15 anni, però, l’impiego crescente di radiochemioterapia
pre-operatoria nei carcinomi del retto basso localmente avanzati ha
ridotto significativamente il numero di interventi chirurgici
demolitivi, senza incremento del rischio di recidiva locale;
3 diffusione nel mesoretto. La diffusione nel mesoretto costituisce un
importante fattore prognostico negativo, specialmente quando è > 2
cm. Nei tratti distali del retto, dove lo spessore del mesoretto è
ampiamente < 2 cm anche diffusioni di minore spessore possono
comportare un significato prognostico sfavorevole. Pertanto, la
diffusione mesorettale deve essere rapportata, ai fini prognostici, con
lo spessore del mesoretto nella sede interessata dalla neoplasia;
4 linfonodi nel mesoretto. In corrispondenza del III distale del retto,
il mesoretto è particolarmente povero di linfonodi, contenendone in
media uno solo.
Escissione totale del mesoretto (TME)
L’aspetto controverso non concerne la necessità di asportare il
mesoretto, procedura che va sempre eseguita, perché la diffusione
neoplastica nel mesoretto (pT3) rappresenta un importante indicatore di
gravità della malattia. L’infiltrazione radiale marginale costituisce un
fattore prognostico negativo indipendente di sopravvivenza (oltre che
di recidiva) ed un interessamento del margine circonferenziale dopo TME è
indicativo di malattia avanzata, non di chirurgia inadeguata.
Il contenzioso concerne il reale ruolo terapeutico della procedura a cui
le Guidelines 2000 for Colon and Rectal Cancer Surgery (1)
attribuiscono un livello di evidenza III ed un grado di raccomandazione C
affermando testualmente che la TME “resterà una procedura controversa
finché l’evidenza scientifica di studi randomizzati non dimostrerà un
vantaggio”.
I risultati a favore della TME provengono da studi prospettici su larga
scala, ove Unità di Chirurgia colorettale dedicate, che hanno
centralizzato il trattamento chirurgico dei pazienti con carcinomi del
retto, hanno riportato un miglioramento dell’outcome oncologico dopo
l’adozione di tale tecnica (21).
Ad un reale ruolo terapeutico della TME, si contrappone l’esperienza di
molti Autori che hanno continuato a riportare elevata frequenza (>
10%) di recidive locali nonostante l’adozione della TME e la vasta
esperienza dell’Università di Heidelberg e di Sydney dimostra che il
miglioramento nel tempo dei risultati della chirurgia rettale non
corrisponde all’introduzione della TME. Infine, la recente esperienza
del Dutch Colorectal Cancer Group (22,23) ha dimostrato, con uno studio
randomizzato, che l’aggiunta della RT alla TME riduce a circa metà
l’incidenza di recidive locali, ridimensionando così il ruolo
terapeutico della sola TME.
Attualmente, si ritiene che l’escissione del mesoretto possa essere
parziale, limitata a pochi cm caudalmente per i tumori del retto
superiore e totale nei tumori del retto medio e distale.
Resezione anteriore, amputazione per via addomino-perineale, resezioni inter-sfinteriche
Sulla base di queste acquisizioni, la chirurgia radicale del retto
extraperitoneale deve attuare, ove possibile, una resezione con
conservazione dello sfintere con una sezione distale che cada in tessuto
sano (resezione anteriore bassa, ultrabassa, con anastomosi coloanale).
Se lo sfintere è compromesso per infiltrazione neoplastica o la sua
integrità anatomo-funzionale è ridotta per la necessità di mantenere un
margine di sicurezza dal bordo distale del tumore di 1-2 cm, va eseguito
un intervento demolitivo secondo Miles (ossia con asportazione
ano-rettale).
In tempi recenti, l’intervento di amputazione del retto per via
addomino-perineale è stato severamente criticato perché la sua
esecuzione su piani non anatomici comporterebbe un alto rischio di
recidiva locale. Va peraltro osservato che una recentissima ed ampia
revisione della letteratura (24), che ha confrontato resezioni
conservative del retto (resezioni anteriori) ad interventi demolitivi
(amputazioni del retto per via addomino-perineale), non solo non ha
convalidato queste accuse, ma ha chiaramente dimostrato come
l’intervento di amputazione per via addomino-perineale venga eseguito in
pazienti portatori di tumori con fattori prognostici sfavorevoli
(tumori localmente più avanzati, poco differenziati, con metastasi
linfonodali, di maggiori dimensioni, più frequentemente in soggetti di
sesso maschile od obesi).
Nel tentativo di preservare la funzionalità sfinteriale, alcuni autori
hanno proposto per tumori il cui limite inferiore si posizioni a 0.5-3
cm dalla linea dentata, una resezione inter-sfinterica. Si tratta di
accedere al piano inter-sfinterico mediante un’incisione lungo la linea
dentata (0,5 cm al di sotto) e quindi dissecare in toto od in parte lo
sfintere interno a seconda che tale piano venga raggiunto immediatamente
od un poco più cranialmente a seguito di una breve mucosectomia.
Secondo una recente revisione di 21 studi (612 pazienti di 13 unità
chirurgiche), la percentuale di recidive locali era di 9.5% (range
0-31%) con una sopravvivenza media a 5 anni di 81.5% (25).
I risultati funzionali sono tuttora oggetto di discussione perché una
sintomatologia di urgenza defecatoria è presente nel 58.8% dei pazienti
ed episodi di incontinenza diurna e notturna sono riportati
rispettivamente nel 15-41% e nel 20-76% dei casi (25). Inoltre,
l’impiego della chemioradioterapia se offre dei benefici in termini
oncologici, tuttavia incide negativamente sulla funzionalità sfinteriale
e ciò indica che è necessaria un’accurata selezione dei pazienti per
conseguire risultati accettabili sul piano oncologico e su quello
funzionale.
Uno dei problemi attuali nella programmazione terapeutica del carcinoma
rettale è infatti proprio l’accurata selezione dei pazienti per evitare
una RT pre-operatoria, qualora non sia necessaria, proprio in
considerazione del possibile danno funzionale sfinteriale nei pazienti
con anastomosi molto basse.
Chirurgia laparoscopica del retto
Gli unici dati disponibili sull’outcome oncologico concernono i
risultati a 3 anni di RCT progettati per tumori del colon e del retto
insieme.
In generale, finora risulta un’equivalenza delle due procedure in
termini oncologici, però, come anche osservato nella recente
meta-analisi della Cochrane Library (26), per quanto concerne il retto, i
dati sugli esiti oncologici non sono ancora maturi.
Una recente meta-analisi (27) ha preso in considerazione 21 studi (2.071
pazienti) ed ha riportato, come atteso, un beneficio nella rapidità di
ripresa della funzionalità intestinale e della durata della degenza
ospedaliera di 1-2 giorni, senza differenza nell’incidenza di
complicanze precoci e tardive.
E’ però motivo di preoccupazione che uno studio randomizzato (28) abbia
segnalato come la disfunzione sessuale maschile fosse significativamente
maggiore nei pazienti trattati con resezione laparoscopica a confronto
con la chirurgia aperta (47% vs 5%) e che nel RCT CLASICC (29) i
pazienti sottoposti a chirurgia laparoscopica avessero un’incidenza
doppia (12% vs 6%) di margine distale infiltrato da neoplasia, anche se
questo non si traduceva in un maggior rischio di recidiva locale.
È necessario pertanto, per quanto riguarda il retto, attendere i
risultati degli studi randomizzati in corso prima di proporre un
confronto statisticamente significativo tra la tecnica “open” e la
tecnica “mini invasiva laparoscopica”. Allo stato attuale, sembrerebbe
che la sopravvivenza globale, la sopravvivenza libera da malattia e
l’incidenza di recidive locali siano analoghe con un trend forse
favorevole per la chirurgia mini-invasiva, in particolare per i tumori
precoci Dukes’A (29).
Anche con una ragionevole esperienza laparoscopica, la possibilità di
conversione a chirurgia aperta può superare il 20% pur trattandosi di
pazienti e neoplasie selezionate favorevolmente dal punto di vista
chirurgico (30,31).
Situazioni cliniche particolari
uT0
Il trattamento di carcinomi rettali non più apprezzabili all’esame
clinico e strumentale (uT0) è diventata una realtà dopo trattamento
neoadiuvante con chemioradioterapia (32% circa dei casi).
L’indicazione alla terapia chirurgica è problematica soprattutto quando
l’asportazione della lesione originaria dovrebbe comportare un
intervento demolitivo dello sfintere. La scelta di procedere con
l’intervento programmato inizialmente, prescindendo dal tipo di risposta
ottenuto oppure con un intervento conservativo (che può rischiare di
essere R1) visto che il tumore non è più apprezzabile od ancora di
adottare una politica di attesa deve essere discussa apertamente con il
paziente.
Innanzitutto, va segnalato (32) che solo il 25% delle remissioni
complete cliniche e strumentali (cCR) sono tali all’esame istologico e
che inoltre metastasi linfonodali o depositi neoplastici nel mesoretto
sono mediamente presenti nel 6.6% dei casi yT0. L’esperienza della
letteratura sull’esito di un approccio di semplice periodica
osservazione è scarsissimo, ma Habr-Gama et al. (33) su 260 pazienti
hanno riportato solo il 4.2% di recidiva locale.
Una politica di compromesso è pertanto quella adottata in taluni centri
americani, in cui ogni decisione è posposta ad un’exeresi/macro-biopsia
della sede originale di malattia e quindi ad un accertamento istologico
del parametro T.
Tale procedura peraltro non è scevra da rischi perché all’asportazione
di un grosso spicchio di tessuto che interessi a tutto spessore la
parete rettale pesantemente irradiata può residuare un’ulcerazione
sintomatica che stenta a guarire e può, nei casi più gravi, richiedere
una colostomia a fini palliativi.
Early rectal cancer
Questi tumori, quando sono di piccole dimensioni, <= 3-4 cm, (pari o
meno di un terzo della circonferenza rettale) ampiamente mobili,
esofitici e situati nel III medio-distale del retto, possono essere
trattati con exeresi locali: escissione con tecnica transanale “a
paracadute” o con Transanal Endoscopic Microsurgery (TEM) oppure con
tecnica solo endoscopica (polipectomia, dissezione sottomucosa).
La critica più importante a tale approccio è che esso non considera la
presenza di metastasi linfonodali, che nel T1 del III distale del retto
sarebbero presenti nel 22-34% dei casi (dati del Memorial Sloan
Kettering e della Mayo Clinic, rispettivamente).
Un’estesa revisione del National Cancer Database (34) ha dimostrato che
le recidive locali a 5 anni dopo exeresi locale erano rispettivamente
del 12.5% nel T1 e del 22.1% nel T2 (significativamente maggiori
rispetto alla chirurgia standard: 6.9% e 15.1% rispettivamente) e la
sopravvivenza nel T2 (ma non nel T1) significativamente più ridotta
(67.6% vs 76.5%).
Analogamente, aggregando 54 pubblicazioni che hanno analizzato le
recidive locali dopo TEM (35) risultano percentuali piuttosto alte di
recidive: 6%, 12%, 20% nel T1, T2, T3, rispettivamente.
In questi casi, le recidive sono spesso localmente avanzate e la
chirurgia di salvataggio richiede talora un’estesa dissezione pelvica
con resezione in blocco degli organi adiacenti, con sopravvivenza
malattia-specifica a 5 anni di circa il 50%.
Dai dati cumulativamente disponibili in letteratura si evince che:
1 non vi è alcun paziente a rischio di recidiva zero o quasi con l’escissione locale;
2 il successo terapeutico dipende da una stringente selezione dei pazienti idonei;
3 il ruolo terapeutico della radiochemioterapia adiuvante non è ancora totalmente definito.
Resezioni in blocco di tumori adesi a strutture/organi attigui
Se durante la laparotomia si scopre che il tumore è adeso o infiltra le
strutture circostanti, la cui resezione può esser effettuata in modo
radicale, occorre allargare, se possibile, il volume della resezione.
Va considerato che solo una frazione (circa 50%) delle aderenze tra
tumore ed organi adiacenti è di tipo neoplastico (pT4), mentre molte
sono solo di tipo infiammatorio (pT3). Non è spesso possibile
discriminare tra i due tipi di infiltrazione ed in genere non è
proponibile un accertamento bioptico, pena la perforazione del viscere
ed eventuale disseminazione neoplastica. La procedura consigliata è
pertanto quella dell’asportazione in blocco del colon-retto e della
struttura adiacente, evitando di discontinuare le strutture adese.
La sopravvivenza finale dipende dal tipo di infiltrazione (pT3 vs pT4) e soprattutto dallo stato linfonodale (36).
Ovariectomia
L’indicazione all’ovariectomia, procedura di per sé molto semplice, può
trovare indicazione, oltre che se un ovaio è morfologicamente alterato
od adeso al tumore, sulla presunzione dell’esistenza di metastasi
occulte (fino al 17% nello stadio III), di possibili localizzazioni
future di malattia e di rischio di sviluppo di una neoplasia ovarica
primitiva, la cui incidenza è fino a 5 volte superiore nelle donne con
neoplasia colorettale. Due studi comparativi retrospettivi non hanno
riportato alcuna differenza significativa nella sopravvivenza tra
pazienti ovariectomizzate o non (37,38). Pertanto, attualmente, la
ragione principale per eseguire un’ovariectomia di principio è
l’abolizione del rischio di una neoplasia ovarica primitiva, soprattutto
in donne in post-menopausa o in quelle in cui vi sia un ragionevole
sospetto di familiarità neoplastica.
Lavaggio intestinale
Una serie di studi ha dimostrato che vi sono cellule neoplastiche vitali
nel lume del colon e del retto alla fine della resezione e/o del tempo
anastomotico.
Il lavaggio intestinale con diverse soluzioni, dalla fisiologica a
quella contenente iodio, ha la capacità di ridurre drasticamente il
numero di cellule vitali, anche se nessun studio ha finora documentato
che tale pratica si rifletta in una riduzione delle recidive locali.
Procedure in urgenza
Un tumore colorettale che evolve verso un quadro clinico acuto di
occlusione intestinale, di perforazione o di emorragia richiede un
provvedimento chirurgico d’urgenza.
I principi di radicalità oncologica permangono invariati, ma possono
essere le condizioni del paziente ad esigere soluzioni più limitate o in
più tempi. Mentre, talora, il quadro emorragico, specie se distale, può
essere temporaneamente tamponato con provvedimenti endoscopici e la
chirurgia posposta in un regime di semi-elezione, la perforazione può
essere trattata solo chirurgicamente.
La rottura/perforazione del tumore, non quella diastasica a monte del
tumore, rappresenta un fattore prognostico negativo per il rischio di
disseminazione peritoneale ed esige un trattamento adiuvante
post-chirurgico.
Più articolato è l’approccio nel paziente con occlusione del grosso
intestino, perché la disponibilità di un trattamento endoscopico
mediante il posizionamento di stent può risolvere l’urgenza chirurgica e
consentire una successiva terapia più ragionata in condizioni di
semi-elezione.
Uno studio recente (39) ha confrontato l’outcome di pazienti con
occlusione del colon sinistro sottoposti a chirurgia resettiva d’emblée o
a semplice deviazione e chirurgia resettiva in secondo tempo. I
pazienti resecati subito avevano una maggior incidenza di fistole
anastomotiche ed una tendenza a maggior morbilità post-operatoria. Anche
la sopravvivenza a lungo termine era tendenzialmente inferiore
nonostante questo gruppo di pazienti fosse stato in qualche modo
selezionato favorevolmente.
Tumori con metastasi a distanza alla presentazione clinica
Una neoplasia colorettale può presentarsi con metastasi a distanza all’esordio clinico o alla laparotomia.
Il corretto comportamento terapeutico non è dettato da studi
controllati, che non esistono, ma dalla conoscenza della storia naturale
della malattia e delle reali possibilità dell’attuale terapia
oncologica. Se la diagnosi di malattia avanzata (ad esempio: metastasi
epatiche multiple, carcinosi peritoneale) è posta prima della
laparotomia, occorre valutare se vi è una sintomatologia intestinale
(alterata canalizzazione, compressione / infiltrazione di organi cavi,
sanguinamento ecc.) che esige una palliazione e se vi è anche
un’eventuale alternativa endoscopica all’esplorazione chirurgica.
Invece, se la diffusione della malattia è diagnosticata in corso di
laparotomia, una palliazione di tipo chirurgico appare il provvedimento
più naturale nel paziente sintomatico.
Diversa è la situazione in pazienti più o meno asintomatici: partendo
dal detto che “è difficile far star meglio, chi sta abbastanza bene”,
l’effetto di una palliazione anticipata per prevenire una complicanza
che non si è nemmeno sicuri se avverrà o se il paziente soccomberà
prima, è quanto meno poco prevedibile.
Una recente meta-analisi (40) ha dimostrato che nei pazienti
asintomatici con metastasi epatiche la resezione intestinale porta a
minimi benefici palliativi, si accompagna a complicanze e mortalità
significative e può ritardare l’inizio di un trattamento chemioterapico.
Perciò, in occasione di una diagnosi laparotomica, una palliazione
“anticipata” può essere concessa solo se comporta rischi minimi
(resezione limitata, bypass) e non inficia la qualità della vita (ad
esempio: allestimento di una colostomia in previsione di una futura
occlusione).
Oltre ad una buona conoscenza della malattia di base, che consente di
formulare una prognosi sulla durata di sopravvivenza del paziente ed una
previsione della causa dominante dell’exitus, ad esempio
l’insufficienza d’organo per compromissione epatica o polmonare, un
aspetto importante da considerare è la necessità di un trattamento
chemioterapico tempestivo.
In presenza di una possibile/incipiente complicanza legata al tumore,
l’eventuale concomitanza di una depressione midollare iatrogena potrebbe
amplificare la gravità dell’evento ed orientare verso una chirurgia
riduttiva o palliativa anticipata.
Recentemente, Eisenberger et al. (41) hanno rivisto 10 anni di
letteratura sull’argomento e hanno concluso che “la resezione di un
tumore asintomatico primario era frequentemente associata con una
sopravvivenza prolungata”; tuttavia, poiché anche in questa ottima
revisione tutti gli studi disponibili sono retrospettivi, non è dato
sapere con certezza se i pazienti resecati o no fossero prognosticamente
paragonabili ed è presumibile che la chirurgia resettiva sia stata
risparmiata ai pazienti più compromessi. Infatti, anche negli studi in
cui appariva un vantaggio nella sopravvivenza con chirurgia immediata,
l’analisi multivariata faceva emergere altri fattori – ad esempio
l’effettuazione di un trattamento oncologico (42) e la sua efficacia
(43) – quali determinanti prognostici. Nell’ambito dei pazienti
resecati, infatti, la sopravvivenza era di 4.2 mesi in presenza di
metastasi epatiche che interessavano più del 50% dell’organo contro il
14.4% se l’interessamento era minore (44).
Nella Tabella seguente, è illustrato un ragionevole approccio al problema, come suggerito da Cohen (45).
[/column][/box][box][column collapse_spacing=”yes” vertical_align=”top” auto_height=”yes” css=”border-top-width: medium; border-top-style: none; border-top-color: initial; border-right-width: medium; border-right-style: none; border-right-color: initial; border-bottom-width: medium; border-bottom-style: none; border-bottom-color: initial; border-left-width: medium; border-left-style: none; border-left-color: initial; padding-top: 0; padding-right: 0; padding-bottom: 0; padding-left: 0; ” width=”24″ last]
7.0 TRATTAMENTO: 7.2 Chirurgico (seconda parte)
Recidiva locale nei tumori del retto
L’indicazione al trattamento chirurgico di una recidiva pelvica di
carcinoma rettale già operato è assai complessa ed i fattori da prendere
in considerazione sono notevoli: innanzitutto, occorre una stadiazione
accurata con TC e RM per escludere i pazienti che hanno metastasi a
distanza e per definire quali e quante pareti pelviche siano interessate
dalla malattia. Maggiore è il numero di pareti infiltrate (quelle
pelviche laterali contano di più di quelle anteriori e posteriori) e
minori sono le possibilità di radicalità chirurgica. Occorre poi
bilanciare il rischio operatorio di un intervento di chirurgia maggiore
con la possibilità non trascurabile di una demolizione senza garanzie di
radicalità e con i postumi di un intervento che può compromettere anche
la funzionalità genito-urinaria. Alcuni autori considerano che la
presenza di edema da compressione venosa dell’arto inferiore, la
sciatalgia, l’idroureteronefrosi siano controindicazioni ad un
intervento con finalità curative.
La letteratura offre poche certezze, poiché spesso non è dato di capire
come e quanto sia stata selezionata la popolazione di pazienti trattati e
se i successi di interventi altamente demolitivi anche sulle strutture
ossee (tipo resezioni addomino-sacrali-pelviche di Wanebo) siano merito
dell’intervento o di situazioni particolarmente favorevoli che hanno
portato a resezioni estese di recidive relativamente piccole o
slow-growing.
Secondo l’esperienza dell’Istituto Tumori di Milano (46) e la recente
letteratura (47), la resecabilità è quasi del 50% ed i risultati
migliori si ottengono quando si reinterviene dopo una pregressa
resezione anteriore con un intervento tipo Miles o Hartmann o
exenteratio, per una recidiva “anastomotica” (che a volte è un secondo
primitivo), diagnosticata in fase pre-sintomatica durante il follow- up
e, secondo alcuni studi, quando il paziente è di sesso femminile ed il
CEA nei limiti della normalità. L’impossibilità ad eseguire un controllo
periodico endoscopico o ecoendoscopico (nel maschio) dopo una Miles fa
sì che soprattutto nei maschi, le recidive situate nel “letto” del retto
precedentemente asportato siano mal localizzate e mal resecabili.
Il fattore prognostico di gran lunga più importante è il tipo di
resezione: con intervento R0 si ottiene una sopravvivenza di circa il
44% a 5 anni, ma anche con R1 è stata riportata una sopravvivenza del
38% in pazienti operati dopo radioterapia, mentre con R2 nessun paziente
sopravvive a 4 anni. I fattori che si associano ad una maggior
probabilità di intervento R0 comprendono ancora: una pregressa resezione
anteriore ed una recidiva peri-anastomotica, l’assenza di sintomi ed un
CEA normale. I primi tre fattori sono risultati statisticamente
significativi anche all’analisi multivariata.
I risultati sono indubbiamente amplificati se si fa precedere la
chirurgia da un trattamento combinato di chemioterapia e radioterapia e
se si possono irradiare intra-operatoriamente (IORT) le sedi residue di
dubbia radicalità (48). Le recidive locali non trattabili
chirurgicamente vanno avviate ad un trattamento palliativo locale:
laserterapia endoscopica, posizionamento di endoprotesi e chemio o
radioterapia esterna.
Carcinoma colon-retto: metastasi epatiche
Metastasi epatiche sono presenti nel 15-25% dei pazienti al momento
della diagnosi di tumore colorettale ed in un ulteriore 25-50%
compariranno entro 3 anni dalla resezione del tumore primitivo. In circa
la metà di questi pazienti, le metastasi sono confinate al fegato come
pure sono limitate al fegato nel 20% dei pazienti che muore per
neoplasia colorettale.
Dal 1976, anno in cui Wilson e Adson per primi dimostrarono che la
resezione di una metastasi epatica può avere un potenziale curativo, vi è
stato un tale progresso nel trattamento chirurgico e nell’approccio
alle metastasi epatiche, che è molto improbabile che il chirurgo
colorettale possa affrontarle correttamente. L’approccio moderno al
trattamento delle metastasi epatiche da neoplasia colorettale è infatti
multidisciplinare e la chirurgia ha un posto ben preciso nella terapia
combinata di queste lesioni.
Infatti, se il paziente è operato per la neoplasia colorettale in
condizioni di elezione e dopo un adeguato staging oncologico, il
riscontro inatteso alla laparotomia di metastasi epatiche, e quindi un
intervento del chirurgo colorettale, dovrebbe essere un’evenienza sempre
più rara.
L’analisi della letteratura (49) ha dimostrato l’esistenza di vari
fattori che risultano all’analisi multivariata determinanti ai fini
prognostici: clinici/demografici (età, sesso, stadio di T, metastasi
sincrone vs metacrone, emotrasfusioni, ipotensione pre-operatoria),
biologici (CEA, labelling index, ploidia, p53, presenza di BAX) e
chirurgico/patologici (numero delle lesioni, dimensioni, presenza di
malattia extraepatica, di margini di sezione infiltrati, invasione
venosa portale o arteriosa epatica, assenza di una pseudocapsula, grado
di differenziazione). Sulla base di alcuni di questi sono stati
costruiti anche scores predittivi.
In che misura questi fattori rappresentino un’assoluta controindicazione
alla resezione è fonte di discussione, in quanto per esempio la
sopravvivenza a 3 anni dopo epatectomia associata a linfonodectomia
epatica completa per la presenza di adenopatie lungo il peduncolo
epatico è solo il 5-19% (valore che è pur sempre migliore della
sopravvivenza senza resezione). Non vi è invece sopravvivenza con
metastasi all’asse celiaco.
L’orientamento attuale pertanto, così come emerge dal consensus di un
gruppo di esperti nel 2009 (50), è quello di considerare i pazienti con
fattori prognostici negativi identificabili pre-operatoriamente (>1
fattore oncologico sfavorevole: > 4 metastasi, dimensioni > 5 cm,
metastasi sincrone, Stadio Dukes’ C del primitivo, marker elevati) quali
candidati ad un trattamento oncologico pre-operatorio (e
post-operatorio) ed eseguire una chirurgia d’emblée seguita da terapia
adiuvante negli altri pazienti.
Questo approccio si basa sulle seguenti considerazioni:
1 la chemioterapia neoadiuvante è in grado di rendere resecabili metastasi inizialmente non resecabili (51,52);
2 il successo, ai limiti della significatività, di studi di
chemioterapia adiuvante, sistemica od intra-arteriosa epatica (53-57);
3 la recentissima evidenza scientifica (58) che nei pazienti
resecabili, con <= 4 metastasi epatiche, il trattamento pre- e
post-operatorio con FOLFOX4 riduce il rischio di ripresa di malattia di
circa un quarto.
Carcinoma colon-retto: metastasi polmonari
Le metastasi polmonari sono presenti come unica sede di malattia nel
10-20% dei pazienti affetti da carcinoma del colon-retto. Tale evenienza
è più probabile per le neoplasie rettali, ma si osserva anche in alcuni
casi di carcinoma del colon, specie se precedentemente resecati per
metastasi epatiche. In pazienti selezionati la resezione delle metastasi
polmonari può essere un’opzione ragionevole. La sopravvivenza a 5 anni
dopo resezione varia dal 25% al 40%. Il Registro Internazionale delle
Metastasi Polmonari (IRLM) (59) mostra in una casistica di 653 pazienti
trattati con chirurgia radicale una sopravvivenza del 37% a 5 anni e del
22% a 10 anni, con una sopravvivenza mediana di 41 mesi (60-65). Ad
un’analisi multivariata, l’intervallo libero da malattia, maggiore o
minore di 36 mesi, ed il numero di metastasi, singola o multiple,
sembrano avere significato prognostico indipendente.
La resezione combinata di metastasi epatiche e polmonari rimane invece controversa e non supportata da sufficienti evidenze.
Direzioni future
Le tecniche sia della chirurgia del colon sia di quella del retto sono
ormai da tempo standardizzate. Nella pratica clinica, gli sviluppi
futuri saranno conseguenti da un lato ad una diagnosi più precoce grazie
soprattutto ai programmi di screening (ormai avviati in tutte le
regioni italiane), dall’altro ad un rigoroso approccio interdisciplinare
che consenta di definire una strategia terapeutica alla prima
osservazione del tumore, in modo che siano possibili trattamenti
integrati sequenziali, dal momento che il chirurgo non può trattare “da
solo” un paziente con neoplasia del grosso intestino, in particolare nel
caso di un tumore del retto.
a) Le grandi opportunità future nel trattamento dei tumori del colon
retto dopo l’introduzione dei programmi regionali di screening (66)
I programmi di screening consentono di identificare tumori in soggetti
asintomatici. Si tratta di neoplasie spesso iniziali (ad esempio, polipi
cancerizzati) con caratteristiche biologiche probabilmente particolari e
con necessità di trattamenti anche innovativi, quali studio del
linfonodo sentinella con approccio mininvasivo per identificare i polipi
cancerizzati asportati endoscopicamente in modo completo, in cui
limitarsi ad una semplice sorveglianza clinica oppure procedere a una
radicalizzazione chirurgica.
Nell’anno 2006, in Regione Lombardia sono stati identificati con il
programma di screening ben 721 carcinomi in soggetti asintomatici, (in
101 casi si è trattato di polipi cancerizzati, la maggior parte dei
quali è stata trattata solo con polipectomia endoscopica) (67). Nella
sola città di Milano (1.300.000 abitanti), per una compliance al test di
screening del 40%, sono previsti 272 polipi cancerizzati ogni anno.
b) Il futuro ruolo della chirurgia nel trattamento integrato, in particolare dei tumori del retto
Nei tumori del retto “localmente avanzati” (cT2-3 cN+ cM0), è ormai
documentato che la chirurgia demolitiva deve essere preceduta da un
trattamento neoadiuvante di RT/CT.
In studi multicentrici osservazionali, è necessario valutare le
indicazioni ad una chirurgia radicale open verso laparoscopia o
mininvasiva con componente robotica (66). Studi ulteriori sono necessari
per meglio definire le modalità di trattamento nei pazienti in cui la
RT/CT neoadiuvante ha consentito una remissione clinica completa
(chirurgia demolitiva secondo i tradizionali criteri di radicalità
oncologica verso escissione nella sede in cui era stato inizialmente
osservato il tumore verso solo sorveglianza clinica) (68).
Nei tumori del retto “iniziali” (polipi cancerizzati, carcinomi cT2 cN0
cM0), gli studi futuri dovranno precisare il trattamento ottimale:
chirurgia demolitiva open verso chirurgia demolitiva mininvasiva o
escissione transanale, con tecnica chirurgica “a paracadute” oppure con
TEM (Transanal Endoscopic Microsurgery) oppure con tecnica endoscopica.
c) La qualità di vita dopo il trattamento chirurgico
I risultati del trattamento, in particolare nei tumori del retto, non
devono essere valutati solo come sopravvivenza globale e come
sopravvivenza libera da malattia, ma anche come qualità di vita. I
chirurghi sono ormai consapevoli che, ove possibile, è necessario
applicare tecniche nerve sparing, facendo cioè particolare attenzione
alla integrità nervosa e sphincter saving. In futuro, sarà necessario
confrontare la funzionalità della sfera uro-genitosessuale e la
continenza conseguenti le differenti tecniche chirurgiche (chirurgia
open verso chirurgia laparoscopica o chirurgia mininvasiva con
“componente robotica”).
d) La valutazione dei costi delle prestazioni chirurgiche
Considerate le limitate risorse economiche disponibili, è necessario
approfondire l’analisi dei costi di prestazioni chirurgiche
“appropriate” e di “qualità”. Il rapporto costo/benefici deve
considerare non solo i costi specifici del trattamento chirurgico
nell’Ospedale, ma anche i costi “sociali” nel Territorio.
e) Il ruolo del chirurgo negli studi translazionali
In futuro, il chirurgo dovrebbe partecipare sempre più a studi
interdisciplinari in collaborazione con i ricercatori di base per meglio
valutare i fattori prognostici e quelli predittivi, grazie ad
un’approfondita analisi del materiale patologico asportato
chirurgicamente oppure di quello biologico prelevato dal paziente, nelle
varie fasi del trattamento integrato quali lo studio del significato
delle cellule tumorali circolanti (CTC), nel carcinoma del retto
localmente avanzato.
f) La chirurgia mini-invasiva con componente robotica
La chirurgia del retto con approccio robotico non modifica le linee
essenziali della chirurgia laparoscopica. Sono stati pubblicati alcuni
studi che dimostrano alcuni potenziali vantaggi della chirurgia robotica
del retto, che meritano di essere meglio valutati in ulteriori studi
multicentrici (69,70).
La chirurgia robotica permette trazioni costanti e delicate durante la
TME, con eccellente visualizzazione delle strutture nervose e potenziale
miglioramento degli esiti funzionali urinari e sessuali. Tale
valutazione funzionale rappresenta quindi un aspetto importante in
qualsiasi studio con un braccio robotico.
Inoltre, sono state riportate alcune evidenze relative a perdite
ematiche contenute nella resezione del retto con TME ed una minore
incidenza di conversioni in open rispetto alla laparoscopia, anche nei
pazienti obesi. Conseguentemente, un numero maggiore di pazienti può
beneficiare dell’approccio mini-invasivo con componente robotica (71).
g) Staff multidisciplinare nel management clinico
Negli ultimi 10 anni, l’approccio multidisciplinare al paziente con
carcinoma colorettale si è reso possibile nei centri nazionali di
riferimento e ha prodotto un miglioramento dei risultati oncologici e
della qualità di vita. In particolare, la discussione collegiale di ogni
caso clinico da parte di chirurgo, oncologo medico, radioterapista,
radiologo, patologo, endoscopista, psico-oncologo e biologo rappresenta
ormai il Gold Standard.
In tal modo sono stati ottimizzati i percorsi diagnostici, le sequenze
terapeutiche, gli schemi di follow-up, il trattamento delle ricadute di
malattia e le terapie di supporto.
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7.0 TRATTAMENTO: 7.3 Radiante
7.3 Radiante
Il cancro del retto differisce dal cancro del colon per la maggiore
propensione a recidivare localmente dopo exeresi chirurgica anche se
apparentemente radicale. Le principali motivazioni di tale evenienza
sono rappresentate dalla mancanza, in una larga parte del retto, del
rivestimento sieroso, dalla ricca rete vascolare e linfatica presente
nel tessuto adiposo immediatamente a contatto con la parete rettale e
dalla stretta prossimità con il sacro, che rappresenta un confine
invalicabile da parte del chirurgo, limitando l’estensione delle
exeresi. La recidiva locale dopo exeresi chirurgica si manifesta nella
gran parte dei casi nei tessuti presacrali e origina dai residui
microscopici rimasti nelle vie linfatiche, nei capillari o nelle guaine
perineurali del tessuto adiposo perirettale, non asportato durante
l’intervento; la stretta contiguità con il sacro rende assai
problematica una chirurgia di salvataggio e la stessa diagnosi è spesso
tardiva, perché la recidiva neoplastica si sviluppa dentro il tessuto
cicatriziale ed è da questo difficilmente differenziabile con le
indagini di imaging, compresa la RM. La recidiva locale da cancro del
retto può rappresentare la sola modalità di ricaduta della malattia ed
essendo difficilmente controllabile può condurre a morte il paziente con
un’evoluzione relativamente lunga, caratterizzata da grave
sintomatologia dolorosa e da deficit funzionali progressivi della
funzione evacuativa e minzionale.
Per questi motivi, pur rimanendo la chirurgia la terapia curativa
primaria, a partire dagli anni ’90, la radioterapia è divenuta una
componente standard dell’approccio terapeutico complessivo nel cancro
del retto, come trattamento adiuvante alla chirurgia con l’obiettivo
principale di evitare la comparsa della recidiva locale. Le modalità di
impiego e le stesse indicazioni della radioterapia adiuvante nel cancro
del retto hanno tuttavia subito nel tempo una considerevole evoluzione e
sono state oggetto di controversie, alcune tuttora aperte. Prima di
descrivere le basi scientifiche delle fasi di questa evoluzione, che
servono a capire come si è arrivati all’attuale stato dell’arte, è
opportuno ricordare alcuni elementi innovativi introdotti in questi
ultimi 15 anni, che ad essa hanno contribuito in maniera rilevante. Tali
elementi innovativi comprendono:
1 il sostanziale miglioramento della capacità di definire con metodiche
strumentali prima dell’intervento chirurgico, l’estensione della
malattia nello spessore della parete e nel grasso perirettale,
attraverso l’Ecografia Endoscopica (Ecoendoscopia o EUS) e la Risonanza
Magnetica con bobina multicanale (phased array); quest’ultima ottenendo
immagini di alta risoluzione, consente l’identificazione della fascia
mesorettale;
2 la diffusione in tutti gli ambienti chirurgici specialistici della
Total Mesorectal Excision (TME) che contrariamente alla tradizionale
blunt dissection segue piani anatomici definiti (la fascia mesorettale) e
fornisce un pezzo anatomico sul quale il patologo può definire, oltre
allo stadio della malattia, l’effettiva radicalità (e qualità)
dell’intervento;
3 la definizione di una procedura dettagliata per l’esame macro e microscopico del pezzo operatorio da parte del patologo;
4 la dimostrazione dell’attività nel cancro colorettale, oltre al
tradizionale 5-Fluorouracile (5-FU), di numerosi altri farmaci
chemioterapici e più recentemente anche di alcuni farmaci a bersaglio
molecolare, tutti potenzialmente associabili alla radioterapia;
5 il considerevole sviluppo della tecnologia delle apparecchiature per radioterapia;
6 l’accresciuta abitudine all’attività multidisciplinare.
Basi scientifiche dell’evoluzione dell’impiego della radioterapia adiuvante nel carcinoma del retto
La Consensus Conference del NIH (National Institute of Health), svoltasi
nel ’90 a Bethesda (1) definiva l’associazione di radioterapia con dosi
di 40-48 Gy e 5-FU alla dose di 500 mg/m2 in bolo nei giorni
1-3 della I e V settimana di radioterapia come trattamento standard nei
pazienti operati radicalmente, che presentavano all’esame istologico
del pezzo operatorio l’invasione del grasso perirettale (pT3) e/o
l’interessamento di 1 o più linfonodi (pN1,2). Tale indicazione si
basava sui risultati dello studio randomizzato svolto dal GITSG (2), cui
seguivano a breve intervallo un secondo studio statunitense del NSABP
(3) ed un successivo studio norvegese (4). Complessivamente, questi 3
studi, se pur con disegni diversi, dimostravano la superiorità
dell’associazione chemioradioterapica rispetto alla sola radioterapia o
alla sola chemioterapia come trattamento adiuvante post-operatorio, con
una riduzione del rischio di recidiva loco-regionale del 50% rispetto
alla sola chirurgia (incidenza assoluta di recidive <= 15%) ed un
miglioramento della sopravvivenza a 5 anni del 10% (p < 0.01). A
fronte di questi vantaggi, il trattamento chemioradioterapico con queste
modalità presentava tuttavia una morbilità non indifferente (tossicità
ematologica > G3 nel 20% dei casi e gastrointestinale nel 15%) con
una compliance del 70% ed un 4% di morti tossiche. Nessuna conclusione
era possibile sull’efficacia della chemioterapia adiuvante, impiegata
con regimi di diversa intensità dopo la chemioradioterapia concomitante
nei due studi statunitensi ed omessa del tutto nello studio norvegese.
La sopravvivenza a 5 anni risultava infatti esattamente sovrapponibile
nei 3 studi: 58%, 56% e 58%, rispettivamente.
Lo studio INT-NCCTG pubblicato nel ’94 (5) dimostrava la possibilità di
ridurre sostanzialmente la tossicità ematopoietica senza perdita di
efficacia, con la somministrazione del 5-FU in infusione continua (225
mg/m2/die) durante tutta la durata della radioterapia. Tale
regime, per l’ottima tolleranza, specie se associato a tecniche di
radioterapia adeguate con campi conformati (e con l’aggiunta del Belly
Board per escludere le anse ileali dal campo di RT), è divenuto la
modalità di riferimento di associazione tra radiazioni e 5-FU anche in
altre patologie neoplastiche.
In nord Europa nel frattempo, invece di aderire alle raccomandazioni di
Bethesda, veniva promossa una serie di studi randomizzati (6-8) che
confrontavano la sola chirurgia verso uno schema di radioterapia
pre-operatoria ipofrazionata indicata come short course, consistente
nella somministrazione di 4-5 sedute di 500 cGy in 4-5 giorni
consecutivi, seguiti immediatamente dall’intervento chirurgico.
Complessivamente, tali studi dimostravano un vantaggio significativo
della radioterapia short course pre-operatoria rispetto alla sola
chirurgia, con una riduzione delle recidive locali del 50% ed un valore
assoluto dell’incidenza di recidive inferiore al 10%. Nei pazienti che
ricevevano la radioterapia pre-operatoria anche la sopravvivenza
assoluta a 5 anni era significativamente migliore con un incremento
assoluto del 10%. Tali risultati, complessivamente migliori di quelli
ottenuti negli studi di chemioradioterapia post-operatoria, devono però
essere valutati tenendo conto della diversa tipologia dei pazienti
inseriti. Gli studi di radioterapia pre-operatoria short course
includevano, infatti, tutti i pazienti clinicamente considerati
resecabili senza selezione per fattori di rischio (30% risultavano
all’intervento chirurgico in stadio I), mentre gli studi di
chemioradioterapia post-operatoria includevano solo pazienti che
risultavano allo stadio II o III all’esame anatomo-patologico del pezzo
operatorio.
In concomitanza con gli studi di radio o chemioradioterapia adiuvante
venivano pubblicati, in diversi ambienti chirurgici specialistici, i
risultati ottenuti dalla sola chirurgia effettuata con la tecnica della
TME, che riportavano un’incidenza di recidive locali ampiamente
inferiore al 10% (9-11). Tali risultati, se pur relativi alla casistica
complessiva operata, mettevano in dubbio la necessità della terapia
adiuvante.
Per verificare l’effettiva necessità del trattamento adiuvante anche nei
pazienti operati con la tecnica della TME, il gruppo cooperativo
nord-europeo CKVO promuoveva un ulteriore studio, randomizzando pazienti
con neoplasie clinicamente operabili a ricevere una chirurgia con la
tecnica della TME da sola o preceduta da una radioterapia pre-operatoria
con il regime short course. Tutti i chirurghi che partecipavano allo
studio avevano ricevuto uno specifico training ed i pazienti arruolati
erano selezionati sulla base del giudizio clinico di operabilità, come
nei precedenti effettuati con lo stesso regime. I risultati pubblicati
nel 2001 su una casistica di 1.718 pazienti (12) dimostravano nel gruppo
sottoposto a radioterapia pre-operatoria, un vantaggio significativo
sull’incidenza di recidive locali (2.4% vs 8.2% p < 0.001), ma non
sulla sopravvivenza. L’analisi per stadio patologico dimostrava che il
vantaggio più consistente riguardava le neoplasie in stadio III e IV
(5.1% vs 16.1%) e quelle localizzate nel terzo medio (1% vs 10.1%) e
distale (5.8% vs 10%) del viscere, mentre era assente o trascurabile
nelle neoplasie in stadio I-II e/o localizzate nel terzo superiore (13).
Complessivamente lo studio del CKVO forniva alcune importanti conclusioni:
1 la TME era da considerarsi trattamento loco-regionale unico adeguato
solo negli stadi I-II e nelle neoplasie intraperitoneali;
2 nelle neoplasie extraperitoneali o in stadio clinico più avanzato la
sola TME era seguita da recidiva loco-regionale in oltre il 15% dei
casi;
3 l’aggiunta della radioterapia pre-operatoria in questo gruppo di pazienti riduceva il rischio di oltre il 50%.
In un’ulteriore analisi di questo studio (14), gli Autori evidenziavano
inoltre l’importanza prognostica della distanza minima tra la periferia
del tumore ed il margine di resezione (Circumferential Resection Margin,
CRM): nei pazienti sottoposti a TME senza RT short course
pre-operatoria, infatti, l’incidenza di recidive locali era pari a 5.8%
con CRM > 2 mm, a 14.9% con CRM 1-2 mm e a 16.4% con CRM <1 mm.
L’incidenza di recidive locali non veniva ridotta dall’impiego in questi
casi della RT post-operatoria; nel gruppo sottoposto a RT short course
pre-operatoria lo stato del CRM conservava un peso prognostico sul
rischio di ripresa solo con CRM < 1 mm; l’incidenza di recidive
locali era comunque significativamente minore per tutti i 3 valori di
CRM (rispettivamente 0.9%, 0%, 9.3%).
Contemporaneamente agli studi nord-europei di RT pre-operatoria short
course venivano pubblicati attorno alla seconda metà degli anni ’90
numerosi studi non randomizzati di fase II, in casistiche
monoistituzionali numericamente limitate (15-18), sull’impiego
pre-operatorio dell’associazione concomitante di radioterapia alla dose
di 45 Gy (frazionamento convenzionale) con 5-FU in infusione continua
per tutta la durata della radioterapia, come nei regimi post-operatori,
in pazienti con neoplasie avanzate considerate inoperabili o con
malattia localmente avanzata (T3-4), selezionati in base all’ecografia
transrettale entrata in uso routinario. L’intervento chirurgico era
dilazionato di 4-6 settimane dalla fine del trattamento per consentire
la regressione sia delle tossicità acute sia della massa tumorale.
Questi studi dimostravano complessivamente:
1 elevata compliance della CTRT pre-operatoria, portata a termine in
oltre il 90% dei pazienti con manifestazioni di tossicità acuta di grado
G3 limitata al 30% dei casi, lievemente maggiore (45%) nei pazienti di
età > 70 anni;
2 regressione obiettiva (downsizing) del tumore nella larga maggioranza dei casi (75-80% );
3 riconduzione a resezione R0 in oltre l’80% dei casi inizialmente valutati inoperabili;
4 riconversione a resezione anteriore di una larga quota dei pazienti
inizialmente assegnati ad amputazione, portando ad 80-85% la percentuale
di interventi conservativi;
5 regressione di stadio (downstaging) in oltre il 69% dei casi, con la
completa scomparsa istologica del tumore in circa il 15%;
6 modesto aumento della morbilità peri-operatoria, prevalentemente
rappresentata dalla maggiore incidenza di infezioni della ferita e di
deiescenze anastomotiche, per lo più senza conseguenze con il ricorso ad
una colostomia provvisoria ed avendo l’accortezza di assicurarsi che
l’ansa anastomotica prossimale fosse esclusa dal territorio irradiato;
7 incidenza di recidive locali < 10% e quindi più favorevole
rispetto ai valori rilevati negli studi di CTRT post-operatoria;
l’incidenza di recidive locali risultava inoltre particolarmente bassa
(< 5%) nei pazienti che presentavano una completa regressione della
neoplasia all’esame anatomo-patologico del pezzo operatorio.
Sulla base di questi dati, nella seconda metà degli anni ’90 è stata
disegnata una serie di studi multicentrici di fase III basati
sull’impiego della CTRT pre-operatoria, i cui risultati sono stati
pubblicati negli ultimi anni e che ne hanno definitivamente stabilito il
ruolo di trattamento di riferimento nelle neoplasie del retto
extraperitoneale clinicamente classificate come T3-4 o come N+.
Il vantaggio dell’aggiunta della chemioterapia alla radioterapia
pre-operatoria è stato dimostrato in due studi clinici randomizzati
europei. Nello studio multifattoriale a 4 bracci condotto dal
Radiotherapy Group dell’EORTC (19), 1.011 pazienti sono stati
randomizzati a ricevere un trattamento pre-operatorio con radioterapia
(45 Gy- 50 Gy in 25 sedute) da sola o associata a 5-FU ed Acido Folinico
in bolo la prima e la quinta settimana; ognuno dei due gruppi dopo
l’intervento chirurgico era ulteriormente randomizzato a ricevere altri 4
cicli di 5-FU adiuvante oppure ad essere avviato a solo follow-up.
Nello studio coordinato dalla Federation Francophone de Cancerologie
Digestive (FFCD), 733 pazienti sono stati randomizzati a ricevere
pre-operatoriamente sola radioterapia (45 Gy in 25 sedute) o
radioterapia associata a 5-FU ad Acido Folinico la prima e la quinta
settimana; dopo l’intervento, entrambi i gruppi ricevevano 4 ulteriori
cicli di chemioterapia con lo stesso regime (20). In entrambi gli studi
il regime di CTRT pre-operatorio è risultato superiore alla sola
radioterapia pre-operatoria in termini di incidenza di recidive locali
(8.7% e 8.1% vs 17.1% e 16.5%), e di risposte patologiche complete (14% e
12.1% vs 5.3% e 3.9%); nello studio dell’FFCD la tossicità acuta >=
G3 è risultata un pò superiore nel braccio di CTRT (13.5% vs 2.2%) con
uguale tossicità tardiva.
La CTRT pre-operatoria è stata confrontata con la CTRT post-operatoria
in 2 studi clinici randomizzati, uno statunitense condotto dal NSABP ed
uno europeo, condotto da un gruppo cooperativo tedesco (German Rectal
Cancer Study Group). Entrambi gli studi hanno utilizzato il 5-FU
somministrato la prima e la quinta settimana della radioterapia; 4 cicli
di chemioterapia adiuvante sono stati somministrati dopo l’intervento
chirurgico nel braccio di CTRT pre-operatoria e dopo il trattamento
combinato nel braccio di CTRT post-operatorio. Il primo studio,
riportato solo all’ASCO meeting (21), è stato chiuso dopo soli 267
pazienti per insufficienza di reclutamento; nessuna differenza è stata
rilevata nell’incidenza delle recidive locali (9% nel braccio pre-
rispetto al 5% in quello post-operatorio), mentre sono risultate
superiori nel braccio pre-operatorio la sopravvivenza libera da malattia
a 5 anni (64% vs 53%) e la percentuale di interventi conservativi dello
sfintere (48% vs 39%). Nel secondo studio (22), 803 pazienti sono stati
randomizzati nei due bracci di trattamento; la dose di radioterapia era
in entrambi di 50.4 Gy in 28 frazioni; i pazienti randomizzati nel
braccio post-operatorio ricevevano un boost addizionale di 540 cGy. Il
regime pre-operatorio ha dimostrato una maggiore compliance (circa 90%
dei pazienti ha ricevuto l’intero trattamento previsto rispetto a poco
più del 50% nel braccio post-operatorio); una maggiore percentuale di
pazienti inizialmente assegnati ad amputazione sono risultati operabili
con resezione anteriore (39% vs 19%); minore è risultata la tossicità
>= G3 (14% vs 24%); minore l’incidenza cumulativa di recidive locali
(6% vs 13%). Nessuna differenza significativa è invece risultata
nell’incidenza di metastasi a distanza (36% vs 38%) e nella
sopravvivenza libera da malattia a 5 anni (68% vs 65%).
L’analisi degli studi di CTRT pre-operatoria ha inoltre fornito alcune
indicazioni addizionali sui principali fattori prognostici della
malattia. La risposta patologica al trattamento pre-operatorio,
riscontrata all’esame anatomo-patologico del pezzo operatorio
(identificata facendo precedere la definizione del pTN dalla sigla “y”)
si è confermata come parametro prognostico altamente significativo; la
risposta patologica completa (pCR) deve comprendere sia l’assenza di
malattia a livello del tumore primitivo (ypT0) sia l’assenza di
linfonodi invasi (ypN0) e la significatività di questo ultimo parametro
richiede che almeno 12 linfonodi siano stati esaminati (23). Nei
pazienti con downstaging si è evidenziata la possibilità di
differenziare ulteriormente la prospettiva prognostica attraverso
l’applicazione di sistemi di grading istologico della risposta tumorale
(24,25). La negatività del margine circonferenziale (distanza minima tra
tumore e margine inchiostrato non inferiore a 2 mm) è risultata nei
pazienti con malattia residua il parametro predittivo principale di
recidiva locale (26).
Gli studi randomizzati dell’ultimo quinquennio hanno quindi codificato
come trattamento adiuvante di riferimento nel cancro del retto
localmente avanzato, l’associazione CTRT pre-operatoria con 5-FU in
infusione continua.
Nonostante questo generale consenso, numerosi sono tuttavia gli aspetti
ancora controversi ed evidente è la necessità di miglioramento dei
risultati. In particolare, è da sottolineare che mentre l’incidenza
complessiva di recidive locali è scesa al di sotto del 10%, è rimasta
elevata (25-30%) l’incidenza generale di metastasi a distanza e di
conseguenza, insoddisfacente la sopravvivenza a lungo termine. La larga
variabilità della risposta al trattamento ha inoltre evidenziato la
necessità di una maggiore personalizzazione.
Tra i quesiti oggetto dell’attuale ricerca clinica, questi sono i principali:
La CTRT pre-operatoria può essere omessa in alcune categorie di pazienti in stadio II-III?
La possibilità di omettere la CTRT è stata suggerita per i pazienti in
stadio clinico cT3, N0 e cT1-2, N1 sulla base della bassa incidenza di
recidive locali riportata per i pazienti risultati in stadio patologico
pT3, N0 o pT1-2, N1 dopo sola TME (27,28) o dopo chirurgia primaria
seguita da CT senza RT (29,30). L’applicabilità di questo criterio di
selezione in fase pre-operatoria richiede tuttavia la disponibilità di
una metodica di stadiazione clinica sufficientemente affidabile. In
realtà, né l’ecografia transrettale né la RM hanno dimostrato una
sufficiente sensibilità e specificità nell’identificazione delle
adenopatie. Due recenti lavori (31,32) hanno riportato la presenza,
all’intervento, di linfonodi invasi nel 16% e nel 22% di pazienti
classificati clinicamente T3N0 rispettivamente con ecografia
transrettale e con RM; poiché in entrambi i lavori l’intervento era
preceduto da CTRT pre-operatoria è probabile che i falsi negativi
fossero in numero maggiore.
Un diverso impiego della RM è suggerito dallo studio multicentrico
Mercury (33), nel quale pazienti che presentavano una distanza della
neoplasia dalla fascia mesorettale > 1 mm venivano avviati a
chirurgia primaria direttamente o dopo radioterapia short course,
riservando la CTRT pre-operatoria solo ai casi con distanza < 1 mm.
Nei 290 pazienti del primo gruppo, l’esame anatomo-patologico ha
confermato la RM nel 92.8% dei casi, suggerendo un possibile criterio
per la selezione dei pazienti nei quali omettere la CTRT pre-operatoria.
Il lavoro non riferisce tuttavia lo stato dei linfonodi e non riporta
informazioni sul follow-up.
In conclusione allo stato attuale, pur essendo probabile che per una
quota di pazienti in stadio T3N0 o T1-2N1 la CTRT pre-operatoria
rappresenti un overtreatment, non abbiamo gli strumenti per
identificarli con sufficiente attendibilità.
Nella pratica clinica, i tumori T3N0 del retto alto vengono in genere
avviati alla chirurgia, mentre quelli del retto medio-basso ricevono il
trattamento neoadiuvante.
Il 5-Fluorouracile rappresenta ancora lo standard nella CTRT pre-operatoria?
Il quesito nasce dall’attuale disponibilità di altri farmaci oltre al
5-FU con evidenza di attività nella malattia metastatica da carcinoma
colorettale e ha sostanzialmente due motivazioni: la sostituzione del
5-FU con un farmaco che non richieda l’infusione continua e la ricerca
di nuovi regimi intensificati in grado di incrementare il downstaging e
ridurre l’incidenza delle metastasi a distanza. La possibilità, ai fini
del primo obiettivo, di sostituzione del 5-FU con Capecitabina è stata
oggetto di numerosi studi di fase I-II a partire dal 2004 (34-36).
Questi hanno identificato in 825 mg/m2 x2 / die per 7 giorni
consecutivi la dose consigliata in associazione alla radioterapia e
hanno documentato una sostanziale equivalenza con il 5-FU per quando
riguarda il downstaging, l’incidenza di risposte patologiche complete ed
il profilo di tossicità. E’ in corso uno studio randomizzato con
Capecitabina vs 5-FU i.c. da parte del NSABP (R-04), in attesa del quale
la sostituzione del 5-FU con la Capecitabina dovrebbe essere riservato
ad indicazioni specifiche o nell’ambito di studi clinici.
Per quanto riguarda il secondo obiettivo, la gran parte degli studi si è
indirizzato all’impiego di regimi a due farmaci associando al 5-FU
(o alla Capecitabina in sostituzione del 5-FU) Oxaliplatino, Cisplatino o
Irinotecano. Un’ampia revisione degli studi di fase I-II sull’impiego
di tali regimi di combinazione recentemente pubblicata (37) riporta una
significativa associazione tra l’uso di 2 farmaci e l’entità della pCR
ottenuta; per nessuna delle combinazioni esiste tuttavia evidenza di
maggiore efficacia rispetto alle altre, mentre è più elevata rispetto al
solo 5-FU l’incidenza di effetti tossici. Sono in corso 2 studi
randomizzati in cui il trattamento standard con 5-FU i.c. è confrontato
con l’associazione 5-FU-Oxaliplatino (studio STAR) o
Capecitabina-Oxaliplatino (studio RTOG 0247). In conclusione, l’impiego
di regimi a 2 farmaci sembra produrre un maggior numero di risposte del
solo 5-FU, ma in assenza di conferme da parte degli studi randomizzati
in corso ed in considerazione della più elevata tossicità acuta,
dovrebbe essere riservato a pazienti con caratteristiche prognostiche
particolarmente sfavorevoli.
Esistono risultati del tutto preliminari sull’introduzione dei farmaci a
bersaglio molecolare in associazione alla radiochemioterapia.
Quale ruolo per la Chemioterapia adiuvante dopo CTRT pre-operatoria?
A differenza di quanto rilevato nel cancro del colon, la chemioterapia
adiuvante post-operatoria non ha avuto un’equivalente dimostrazione di
efficacia nel carcinoma del retto. Nonostante ciò, la CT adiuvante viene
correntemente impiegata nella pratica clinica, anche dopo CTRT
pre-operatoria. Nello studio randomizzato multifattoriale condotto dal
Radiotherapy Group dell’EORTC (38), l’aggiunta della CT adiuvante con
5-FU secondo il regime Machover, dopo CTRT o sola RT pre-operatoria, non
ha dimostrato vantaggio sulla sopravvivenza fino al terzo anno;
successivamente le curve di sopravvivenza cominciano a differenziarsi a
favore del braccio con CT adiuvante senza tuttavia raggiungere la
significatività statistica; un maggior livello di significatività
(p=0.011) è riportato complessivamente per il sottogruppo di pazienti
che avevano avuto un downstaging del T (ypT0-2), suggerendo che la
responsività alla CTRT possa condizionare anche una maggiore sensibilità
alla CT adiuvante. A questo dato si contrappongono tuttavia i risultati
di una pooled analysis, che ha raccolto da più centri italiani ed
europei 566 casi in pCR (ypT0/ypN0) dopo CTRT pre-operatoria, nella
quale la CT adiuvante, effettuata in 439, è risultata un fattore
peggiorativo sulla probabilità di sopravvivenza cancro specifica (39).
Risultati simili sono riportati da un analogo studio retrospettivo
monoistituzionale tedesco su 72 pazienti, per i quali la sopravvivenza
libera da malattia a 4 anni è risultata, nei 43 sottoposti a CT
adiuvante, equivalente ai 29 non trattati (40).
Sulla base di questi dati l’utilità della CT adiuvante con 5-FU rimane
dubbia e controversi sono anche i criteri per un suo eventuale impiego
in specifici sottogruppi di pazienti; in considerazione dell’efficacia
dimostrata nel cancro del colon, il suo uso continua tuttavia ad essere
giustificato. E’ da sottolineare che non esistono dati relativi
all’impiego adiuvante di regimi con altri farmaci.
Quale ruolo per il regime pre-operatorio short course?
Nonostante i risultati favorevoli emersi dagli studi svedesi
precedentemente riportati e nonostante gli indubbi vantaggi in termini
di costi ed impegno di tempo e risorse di questo regime, sia per i
pazienti sia per le strutture, il suo impiego non ha avuto seguito negli
altri Paesi europei e negli Stati Uniti. Le motivazioni di questa
resistenza sono rappresentate dal timore di effetti tardivi,
dall’assenza di downstaging e dalla non idoneità di questo schema
all’associazione con la chemioterapia. Vanno tuttavia sottolineati, a
favore del regime short course, i risultati di due studi randomizzati
uno polacco su 316 pazienti con tumori T3, T4 (41) ed uno inglese su
1.350 pazienti classificati clinicamente operabili (42), che hanno
confrontato tale regime rispettivamente con CTRT pre-operatoria
convenzionale e con CTRT post-operatoria selettiva, limitata cioè ai
pazienti randomizzati per tale braccio di trattamento, che presentavano
all’intervento invasione extraparietale od interessamento linfonodale.
In entrambi gli studi, il regime short course dimostrava risultati
equivalenti ai regimi convenzionali, in termini di sopravvivenza e di
recidive locali; nello studio polacco il braccio short course presentava
minore tossicità acuta ed equivalente percentuale di interventi
conservativi. Questi risultati rendono quindi il regime short course
proponibile in particolare nei pazienti nei quali si documenti
l’esistenza di un margine libero ampio tra tumore e fascia mesorettale.
Il regime short course è stato inoltre proposto con chirurgia
dilazionata in pazienti con malattia non resecabile e non idonei a CTRT
per controindicazioni mediche o, a scopo palliativo, in pazienti con
metastasi sincrone che non siano suscettibili di exeresi (43).
È in corso uno studio randomizzato nord-europeo che valuta l’efficacia
della chirurgia immediata rispetto la radioterapia short course con
chirurgia dilazionata verso la radioterapia con frazionamento
convenzionale e chirurgia dilazionata (44).
Nei pazienti con risposta clinica completa dopo CTRT pre-operatoria l’escissione locale può sostituire l’exeresi radicale?
Il quesito riguarda le neoplasie del retto distale nelle quali l’exeresi
radicale conservativa (resezione anteriore ultrabassa) comporta un
risultato funzionale non sempre ottimale (evacuazioni multiple,
continenza imperfetta) e nel maschio si accompagna, in un largo numero
di casi, a perdita dell’erezione. Nei casi che presentano dopo CTRT
pre-operatoria un’apparente risposta completa alla valutazione clinica
endoscopica e all’imaging transrettale, è stata pertanto proposta, in
alternativa alla resezione, l’escissione transanale, con reintervento di
resezione, solo nei casi in cui l’esame della parete escissa dimostri
persistenza di cellule neoplastiche.
L’attendibilità dell’exeresi transanale a tutto spessore nel definire la
risposta patologica completa del T è tuttavia altamente dipendente
dall’esperienza del chirurgo e non fornisce comunque informazioni sulla
risposta linfonodale. La probabilità di positività linfonodale, in
presenza di risposta patologica completa sul T, è in realtà non
trascurabile con valori variabili fra il 3% ed il 17%, a seconda degli
Autori (21,32,45,46), anche se la maggior parte dei lavori si allinea
sui valori più bassi. L’unico dato di una certa consistenza sulla
possibilità di evitare la resezione, dopo risposta clinica completa,
deriva dall’esperienza di un gruppo argentino (47), che in una serie di
99/361 pazienti con T2-T4, andati in risposta clinica completa dopo
CTRT, ha seguito solo follow-up: di questi, solo 6 (6%) hanno presentato
una recidiva accompagnata in 1 caso da metastasi a distanza. La
sopravvivenza a 5 anni (con recupero chirurgico) è stata del 95%. Sono a
favore di una chirurgia limitata dopo CTRT pre-operatoria anche i dati
di un gruppo italiano (48), se pur relativi ad una casistica selezionata
di T2 con fattori prognostici favorevoli, randomizzati dopo CTRT
pre-operatoria o a resezione o ad exeresi transanale, con la tecnica
della TEM (Transanal Endoscopic Microsurgery); sia l’incidenza di
recidive sia di metastasi a distanza è risultata nei due gruppi del
tutto simile.
Nonostante questi dati, al momento la resezione deve essere considerata
il trattamento standard dopo CTRT pre-operatoria anche in caso di
risposta clinica completa. Solo nell’ambito di protocolli di studio o su
espressa richiesta del paziente, dopo dettagliata informazione, la
resezione può essere sostituita dall’exeresi transanale.
Esiste un ruolo per la CTRT post-operatoria?
Benché due studi randomizzati (21,22) abbiano dimostrato la superiorità
dell’approccio pre-operatorio, il trattamento adiuvante post-operatorio
nel cancro del retto è tuttora abbastanza largamente impiegato. Gli
svantaggi del trattamento radiochemioterapico post-operatorio (maggiore
tossicità acuta e tardiva a carico del tenue, minore compliance, minor
effetto sull’incidenza di recidive locali) sono già stati illustrati
precedentemente. La scelta per l’approccio post-operatorio è spesso
dettata dalla non accettazione, sia da parte del paziente sia da parte
del chirurgo, della lunga attesa prima dell’intervento chirurgico,
considerato come l’atto terapeutico risolutivo. A seguito
dell’introduzione delle moderne metodiche di imaging ha invece perso
gran parte della sua ragione di essere la motivazione della migliore
selezione dei pazienti basata sulla stadiazione patologica. L’approccio
post-operatorio non ha quindi attualmente giustificazione se non nei
casi avviati direttamente all’intervento, perché classificati
clinicamente T1-2, N0, nei quali la stadiazione patologica individui uno
stadio più avanzato. Questa evenienza riguarda principalmente
l’invasione linfonodale, la cui diagnosi clinica è tuttora assai più
incerta della definizione dell’estensione parietale del T. In questi
casi tuttavia l’utilità della radioterapia post-operatoria va
attentamente valutata tenendo conto del limitato vantaggio atteso sul
controllo locale, in particolare se l’intervento è stato effettuato con
la tecnica della TME, e dei possibili effetti negativi della
radioterapia, in particolare nei pazienti giovani di sesso femminile.
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[/column][/box][box][column collapse_spacing=”yes” vertical_align=”top” auto_height=”yes” css=”border-top-width: medium; border-top-style: none; border-top-color: initial; border-right-width: medium; border-right-style: none; border-right-color: initial; border-bottom-width: medium; border-bottom-style: none; border-bottom-color: initial; border-left-width: medium; border-left-style: none; border-left-color: initial; padding-top: 0; padding-right: 0; padding-bottom: 0; padding-left: 0; ” width=”24″ last]
7.0 TRATTAMENTO: 7.4 Medico
7.4 Medico
Chemioterapia adiuvante del carcinoma del colon
In accordo con le indicazioni emerse dalla ormai lontana Consensus
Conference del 1990 (1), i pazienti con carcinoma del colon in stadio
III dovrebbero ricevere un trattamento adiuvante a base di
5-Fluorouracile (5-FU). Tutti gli studi effettuati hanno evidenziato in
questi pazienti un vantaggio sia in termini di intervallo libero (DFS)
sia di sopravvivenza globale (OS), se confrontati con il solo
trattamento chirurgico: la chemioterapia è in grado di aumentare il DFS a
5 anni rispettivamente dal 55% al 67% e la OS dal 64% al 71% (2).
L’impiego del 5-FU è stato studiato sia in monoterapia sia in
associazione con diversi farmaci ad effetto modulante come l’Acido
Folinico, il Levamisole, il Methotrexate, l’a-Interferone e secondo
differenti tempi e modalità di somministrazione. Dai risultati
osservati, si è giunti a definire come terapia standard l’associazione
di 5-FU con Acido Folinico (FA) da somministrare per 6 mesi dopo
l’intervento chirurgico (regime Machover in Europa; regime Mayo Clinic
in USA). Dai vari studi condotti si è osservato infatti che 6 mesi di
terapia con 5-FU/FA sono equivalenti a 12 mesi di trattamento con
5-FU/Levamisole o a 5-FU/FA/Levamisole (3,4); basse dosi di FA sono
equivalenti ad alte dosi di FA in combinazione con 5-FU (5); 36 mesi di
trattamento con 5-FU/FA non hanno mostrato alcun beneficio in più
rispetto ad un trattamento di 24 mesi (6).
Negli ultimi anni, il confronto si è posto tra regimi infusionali e
schemi che prevedono la somministrazione di 5-FU in bolo, in quanto si è
osservato che i regimi infusionali sono meglio tollerati con risultati
comparabili sia in termini di sopravvivenza globale sia di sopravvivenza
libera da malattia. Lo studio GERCOR (7), per esempio, ha dimostrato
come il regime infusionale (LV5FU2) sia molto meglio tollerato e
presenti un’efficacia equivalente, in pazienti agli stadi II e III, con
DFS pari al 73% a 4 anni. Lo stesso studio X-ACT ha dimostrato che la
Capecitabina orale è meglio tollerata del regime 5-FU in bolo, eccetto
che per la sindrome mano-piede in pazienti in stadio III, con risultati
sovrapponibili (8).
Una svolta interessante nel trattamento del tumore del colon-retto si è
raggiunta con l’introduzione dell’Irinotecan, inibitore della
topoisomerasi I e dell’Oxaliplatino, un diaminocicloesano-platino
composto. Per quanto riguarda l’impiego dell’Irinotecan (CPT-11) nella
terapia adiuvante, in realtà non si sono ottenuti risultati
soddisfacenti: lo studio CALGB C89803 (9) ha esaminato 1.265 pazienti in
stadio III, confrontando lo schema FU/FA bolo + Irinotecan (IFL) con
FU/FA da solo. I risultati a 3 anni non hanno dimostrato alcun vantaggio
in termini di DFS e OS ed il regime IFL è risultato più tossico. Uno
studio successivo, PETACC 03 (10), ha valutato l’impiego dello schema
FU/FA in infusione settimanale o bimensile con lo stesso regime
associato ad Irinotecan (FOLFIRI), senza raggiungere un vantaggio
significativo a favore della combinazione. L’impiego di Oxaliplatino in
fase adiuvante ha riportato invece risultati più promettenti; infatti,
l’ampio studio multicentrico ed internazionale MOSAIC (11) ha riportato
una riduzione del rischio di recidiva pari al 25% negli stadi III, a 4
anni, con la combinazione LV5FU2+Oxaliplatino (FOLFOX-4) rispetto al
solo trattamento infusionale LV5FU2 (p = 0.002). Lo studio ha valutato
anche pazienti in stadio II, nei quali si è osservata una riduzione pari
al 5.4% del rischio di recidiva della malattia nei sottogruppi ad alto
rischio (T4, occlusione intestinale, perforazione, G3, invasione
vascolare od un numero < 10 linfonodi esaminati). Tali risultati sono
stati ulteriormente convalidati dallo studio NSABP C-07 (12), che ha
randomizzato 2.407 pazienti tra 5-FU/FA bolo settimanale solo o in
associazione con Oxaliplatino (FLOX). Sulla base di tali risultati nel
settembre 2004, la European Medicines Evaluation Agency (EMEA) ha
approvato la combinazione di Oxaliplatino e 5-FU/LV come terapia
standard nel trattamento adiuvante degli stadi III. L’impiego di tale
combinazione sembra verosimilmente utile anche per gli stadi II ad alto
rischio, risultato che dovrà essere validato con studi successivi, ma
non dimostra alcun beneficio per la globalità dei pazienti in stadio II.
Molte domande rimangono però ancora aperte, tra cui, quale sia il regime
ideale: FOLFOX-4 oppure FOLFOX-6 o FOLFOX-7, che impiegano una maggiore
dose-intensità di 5-FU e se l’impiego di fluoropirimidine orali, come
la Capecitabina, potrà sostituire l’utilizzo del 5-FU/FA infusionale. A
tal proposito, sono tuttora in corso studi che valutano l’impiego di
Oxaliplatino con Capecitabina. Se verranno convalidati i dati di
efficacia rispetto al regime infusionale, questa combinazione ha la
potenzialità di abbassare i costi, riducendo gli accessi ospedalieri di
oltre il 60% ed il costo dell’inserzione di cateteri venosi centrali con
il rischio di infezioni associate e delle loro conseguenze
(ospedalizzazioni, reinserimenti di nuovi CVC) (13).
L’avvento dei nuovi farmaci molecolari (Bevacizumab e Cetuximab) apre
una breccia nella terapia del tumore del colon-retto e, considerati i
discreti risultati finora ottenuti nel trattamento di II e III linea,
ciò non esclude la possibilità di poter avere dei vantaggi anche nella
terapia adiuvante. Per quanto riguarda il Bevacizumab numerosi studi
sono in corso: lo studio NSABP C-08, che confronta l’impiego del regime
FOLFOX-6 con o senza Bevacizumab per 24 settimane in 2.700 pazienti in
stadio II e III; lo studio AVANT, che sta valutando in 350 pazienti in
stadio II e III l’impiego di FOLFOX-4 per 24 settimane, verso FOLFOX-4 +
Bevacizumab per 24 settimane seguito da Bevacizumab per altre 24
settimane, verso XELOX (Oxaliplatino e Capecitabina) + Bevacizumab per
24 settimane seguito da Bevacizumab per 24 settimane. Un altro studio
interessante è l’ECOG E5202, il primo studio di fase III nel quale i
pazienti in stadio II ad alto rischio di recidiva vengono randomizzati a
ricevere FOLFOX con o senza Bevacizumab sulla base della stabilità dei
microsatelliti e della perdita dell’eterozigosi del cromosoma 18. Per
quanto riguarda il Cetuximab, è in corso uno studio dell’intergruppo
NO147 che confronta il regime FOLFOX-6 per 24 settimane con o
senza Cetuximab in pazienti in stadio III. Il PETACC-8 valuta invece
l’impiego di FOLFOX-4 con o senza Cetuximab per 24 settimane.
Sicuramente, potrebbero essere interessanti anche studi rivolti a
valutare la durata dei trattamenti, come il confronto tra 6 e 12 cicli
di terapia con FOLFOX con conseguente riduzione di neurotossicità.
Un grosso capitolo ancora aperto riguarda la necessità di una terapia
adiuvante nei pazienti in stadio II (Dukes B2) ad alto rischio, che
rappresentano una popolazione molto eterogenea. Vi sono alcuni
parametri patologici che costituiscono dei fattori prognostici, ormai
convalidati, come il grado di penetrazione del tumore (T4), il grado di
differenziazione cellulare (G3), l’invasione vascolare e linfatica,
l’ulcerazione, il numero di linfonodi asportati/esaminati (da 8 a 12) ed
altri parametri clinici come la presenza di perforazione e di
occlusione intestinale, che sono in grado di identificare pazienti ad
alto rischio di recidiva in misura simile ai pazienti con linfonodi
positivi (14). Più recentemente, sono stati identificati anche fattori
biologici predittivi come possibili marcatori tumorali: l’instabilità
microsatellitare (MSI), la delezione 18q, le mutazioni Ras, TP53,
TGFBR2, DCC e l’espressione genica della timidilato sintetasi (TS).
Molti degli studi già in corso, come sopra citato, stanno valutando
anche i sottogruppi di pazienti in stadio II ad alto rischio, al fine di
individuare le sottopopolazioni di pazienti che possano realmente
beneficiare di un trattamento adiuvante, che presenta comunque dei costi
e delle tossicità.
Allo stato dell’arte, i pazienti a più alto rischio (stadio IIIB, IIIC)
dovrebbero essere sottoposti sempre ad un trattamento comprendente
Oxaliplatino (FOLFOX4 o FLOX), salvo in presenza di controindicazioni
all’impiego di questo farmaco. I pazienti in stadio IIIA ed in stadio II
ad alto rischio (IIB, IIA con caratteristiche sfavorevoli) devono
essere sottoposti a trattamento adiuvante (preferibilmente comprendente
Oxaliplatino), mentre non vi sono dati sufficienti per proporre un
trattamento adiuvante, il cui beneficio è del 2-5% in termini assoluti
in questo sottogruppo, nei pazienti a basso rischio (IIA senza fattori
sfavorevoli).
Chemioterapia adiuvante del carcinoma del retto
Fino a due decadi fa, la terapia adiuvante post-operatoria del retto
raccomandata per tutti i pazienti pT3, pN1-2 era una terapia combinata
con chemioterapia a base di 5-FU per 6 mesi dopo l’intervento chirurgico
associata a radioterapia sulla pelvi, somministrata al 3°-4° mese di
trattamento. Nell’ultima decade, molti studi hanno modificato
radicalmente l’approccio chirurgico e clinico di questi pazienti
rompendo così i criteri dettati dalla Consensus Conference. L’impiego di
una tecnica chirurgica differente, che consiste nell’escissione totale
del mesoretto e l’asportazione di un numero minimo di 12 linfonodi ha
permesso di ottenere una migliore definizione patologica della malattia
(15,16). Dal punto di vista clinico, una svolta decisiva è stata
riportata dal German Rectal Cancer Study Group, che ha dimostrato come
ci sia un notevole miglioramento nel controllo della malattia locale,
sia nel profilo tossicologico sia nella preservazione dello sfintere,
nei pazienti trattati con radiochemioterapia combinata pre-operatoria
rispetto ai pazienti trattati con radiochemioterapia post-operatoria
(17).
La questione aperta si pone quindi su quali pazienti possano realmente
beneficiare di un trattamento adiuvante post-operatorio quando
precedentemente sottoposti ad una radiochemioterapia pre-operatoria.
Numerosi studi hanno dimostrato che i pazienti che vengono sottoposti a
chirurgia per un tumore pT3N0 presentano un basso rischio di recidiva
locale dopo la sola chirurgia (18-20). Tali risultati sono stati
confermati successivamente anche dal National Cancer data Base (21).
L’analisi retrospettiva riportata da Gunderson et al. ha dimostrato che i
pazienti T3N0 trattati con chirurgia e sola chemioterapia presentavano a
5 anni una sopravvivenza globale simile ai pazienti sottoposti a
terapia combinata (22). Infine, lo studio condotto dall’EORTC, uno dei
due studi prospettici condotti negli ultimi anni, non ha confermato un
beneficio significativo dall’impiego della chemioterapia post-operatoria
a base di 5-FU nei pazienti con linfonodi positivi (23). I dati di
questo stesso studio evidenziano però un possibile beneficio della
chemioterapia adiuvante nei pazienti che avevano ottenuto un downstaging
con il trattamento pre-operatorio e l’assoluta assenza di utilità di
una chemioterapia simile alla pre-operatoria nel caso in cui non si sia
osservata riduzione della malattia con il trattamento pre-operatorio. I
risultati di tali studi non permettono però di escludere un trattamento
adiuvante post-operatorio, come ad esempio 4 mesi di chemioterapia, nei
pazienti che non hanno risposto alla terapia pre-operatoria, impiegando
regimi differenti, come il FOLFOX (Oxaliplatino, Leucovorin e 5-FU
infusionale). Considerato che la chemioterapia del tumore del retto
localmente avanzato è stata spostata dal momento post-operatorio a
quello pre-operatorio, è necessario ricercare marcatori patologici e
molecolari predittivi, al fine di identificare i sottogruppi di pazienti
che possono trarre vantaggio da una terapia adiuvante dopo la
chirurgia, oltre al trattamento pre-operatorio.
Carcinoma del colon-retto metastatico
I pazienti con malattia metastatica (stadio IV) alla diagnosi
rappresentano circa il 30% delle nuove diagnosi di carcinoma del
colon-retto. Complessivamente, si ritiene che almeno il 35% dei pazienti
operati radicalmente svilupperà una malattia metastatica.
Nei pazienti affetti da carcinoma del colon in fase metastatica
l’obiettivo terapeutico è prevalentemente palliativo; ciò significa che
il prolungamento della sopravvivenza ed il miglioramento della qualità
di vita sono obiettivi raggiungibili, mentre la guarigione è un evento
molto raro in categorie molto selezionate di pazienti. La terapia medica
sistemica rappresenta l’opzione più importante, ma anche altre
procedure terapeutiche possono contribuire alla palliazione, come la
terapia medica loco-regionale, la radioterapia, le procedure ablative e
la chirurgia, mentre in casi selezionati una appropriata integrazione di
chirurgia e procedure mediche può consentire di ottenere una seppur
minima possibilità di guarigione. Ne deriva che l’intensità e
l’aggressività dei trattamenti disponibili devono essere attentamente
commisurati agli obiettivi clinici ragionevolmente raggiungibili,
tenendo conto della storia naturale della malattia e delle condizioni
cliniche del singolo paziente, onde evitare di influenzare negativamente
la qualità di vita.
In linea generale, bisogna sottolineare che la somministrazione della
chemioterapia in fase asintomatica risulta più efficace in termini di
sopravvivenza e qualità di vita rispetto alla somministrazione
posticipata alla comparsa dei sintomi.
Per anni, il carcinoma avanzato del colon-retto è stato sostanzialmente
trattato con 5-FU che, sintetizzato a metà degli anni ’50, ancora oggi
rimane un punto di riferimento. Negli anni ’80 e ’90, il 5-FU è stato
impiegato dapprima in monochemioterapia, poi in associazione con Acido
Folinico (Leucovorin, LV), in bolo ed in infusione continua. La
biomodulazione del 5-FU con LV è in grado di incrementare l’inibizione
farmacologica della timidilato sintetasi, con impatto favorevole sui
risultati terapeutici della pratica clinica. Negli anni ’80 è stata
utilizzata anche la sequenza Methotrexate → 5-FU, che ha prodotto
risultati discreti in termini di risposte obiettive, mentre la
combinazione di 5-FU con Interferone non ha mostrato vantaggi
significativi. Nella seconda metà degli anni ’90, si è rapidamente
imposta l’associazione del 5-FU/LV con i nuovi farmaci CPT-11 od
Oxaliplatino (OHP). Gli schemi con CPT-11 e 5-FU/LV in bolo (24) (Nord
America) od infusione continua (25) (Europa) hanno migliorato
significativamente la sopravvivenza rispetto al solo 5-FU/LV. Nel 2000,
la Food and Drug Administration ha approvato la combinazione del CPT-11 e
5-FU/LV nella prima linea del carcinoma del colon-retto avanzato,
mentre la registrazione di OHP è avvenuta nel 2002.
Tra gli schemi di polichemioterapia, ha trovato spazio anche la
monochemioterapia con fluoropirimidine orali: Capecitabina (CAP) e
Uracil/Ftorafur (UFT). Le fluoropirimidine orali rappresentano
un’alternativa alla terapia con 5-FU/LV, come monoterapia. Come terapia
di prima linea per il carcinoma del colon-retto metastatico, ad esempio,
la Capecitabina (CAP) ha mostrato produrre un tasso di risposta più
elevato (26%) rispetto al 5-FU/LV in bolo (17%), secondo Mayo Clinic e
ha evidenziato effetti equivalenti sia sul tempo alla progressione
tumorale, sia sulla sopravvivenza globale (26).
La somministrazione di fluoropirimidine orali, da sole o in combinazione
con altri farmaci registrati per la patologia del colon-retto, può
essere presa in considerazione quale alternativa all’infusione continua
di 5-FU.
La combinazione tra 5-FU, preferenzialmente infusionale ed OHP (schema
FOLFOX) o CPT-11 (schema FOLFIRI) è considerata lo standard in tutti i
pazienti, in cui le condizioni generali consentano l’impiego di una
polichemioterapia. Alla progressione, deve essere proposto un cross-over
con il farmaco non impiegato in prima linea. I dati disponibili
evidenziano l’equivalenza di attività tra i due schemi in prima linea
(27) e non dimostrano superiorità di una sequenza rispetto all’altra
(FOLFOX → FOLFIRI vs FOLFIRI → FOLFOX) (28).
La sopravvivenza globale dei pazienti con metastasi da neoplasia del
colon-retto correla con l’impiego sequenziale di tutti e tre i
principali farmaci (5-FU, CPT-11 e OHP), secondo le combinazioni sopra
elencate. Si stima che solo il 50-60% dei pazienti trattati con una
prima linea di chemioterapia riesca a ricevere una successiva
chemioterapia.
In alcuni casi può essere ipotizzato anche un trattamento di terza
linea. Lo sviluppo di nuovi farmaci biologici ed il loro impiego nella
fase adiuvante (attualmente solo in studi clinici) ed in quella avanzata
hanno aperto nuovi scenari. Per tale motivo, i pazienti con malattia
metastatica dovrebbero essere inseriti in studi clinici per individuare
le nuove sequenze di chemioterapia efficaci.
Per farmaci biologici, si intendono gli anticorpi monoclonali diretti
verso il fattore di crescita endoteliale (VEGF) ed il fattore di
crescita epidermico (EGFR). Questi farmaci, impiegati in combinazione
con i farmaci convenzionali, dovrebbero essere somministrati in pazienti
selezionati (29). Attualmente, la ricerca traslazionale si propone di
identificare fattori predittivi di risposta per un uso più razionale dei
farmaci biologici.
L’attività degli anticorpi diretti contro VEGF e EGFR in combinazione ai
chemioterapici dovrebbe essere valutata attentamente, secondo le
precise indicazioni di registrazione. Attualmente, in Italia il
Bevacizumab può essere impiegato in associazione con la chemioterapia in
tutte le linee di trattamento della malattia avanzata, mentre è
controindicato in caso di metastasi cerebrali e deve essere impiegato
con cautela, in concomitanza a terapie anticoagulanti.
Studi osservazionali ed uno studio di fase III hanno evidenziato che il
Bevacizumab in combinazione alla chemioterapia aumenta la sopravvivenza
globale e la sopravvivenza libera da progressione (30). Il beneficio si
evidenzia anche in pazienti progrediti ad una precedente chemioterapia
(31). I dati disponibili sono però controversi per quanto riguarda la
sua associazione in prima linea con schemi contenenti Oxaliplatino,
dove, a fronte di un beneficio in tempo alla progressione
statisticamente significativo, ma clinicamente modesto, non si osserva
vantaggio né in percentuale di risposte né in sopravvivenza rispetto
alla sola chemioterapia (32). Anche se il beneficio medio del
trattamento con Bevacizumab è significativo solo una parte dei pazienti
trattati ottiene un risultato favorevole; per tale motivo sarebbe
importante cercare di individuare fattori predittivi che consentano di
selezionare i pazienti da sottoporre a tale trattamento.
L’impiego di anticorpi anti EGFR ha dimostrato di poter ottenere un
vantaggio in sopravvivenza limitato in pazienti resistenti a precedenti
linee di chemioterapia comprendenti Oxaliplatino ed Irinotecan. Ciò è
dimostrato sia per Cetuximab (anticorpo ibrido) sia per Panitumumab
(anticorpo umanizzato), ma sembra limitato a pazienti che non presentano
mutazioni di K-ras. Tale mutazione dovrebbe quindi essere
ricercata prima di impiegare questi farmaci. In particolare Panitumumab è
registrato solo per l’impiego in pazienti gia trattati con precedenti
chemioterapie e che risultino EGFR positivi e K-ras wild-type. Il Cetuximab, attualmente, trova indicazione nel caso in cui vi sia espressione di EGFR; la presenza di K-ras wild-type
non è ancora indispensabile per il suo impiego anche se ormai ci sono
numerosi dati di letteratura che dimostrano l’inefficacia del farmaco
nei pazienti con tumori K-ras mutato, in cui quindi l’impiego
comporta aggravio di spesa e di effetti collaterali senza reale
beneficio. In Italia, il Cetuximab può essere impiegato in combinazione
con la chemioterapia o come agente singolo in pazienti con evidenza di
progressione alla chemioterapia contenente OHP e CPT-11 o nei pazienti
intolleranti al CPT-11.
Il Cetuximab in associazione a CPT-11 ha evidenziato un vantaggio in tempo alla progressione rispetto al solo Cetuximab (33).
In un recente studio, il Cetuximab più terapia di supporto è stato posto
a confronto con la sola terapia di supporto (34) in pazienti
pretrattati con fluoropirimidine, CPT-11 e OHP. Il Cetuximab in
associazione alla terapia di supporto ha prodotto un aumento della
sopravvivenza globale e della sopravvivenza libera da progressione,
senza compromettere la qualità di vita. Dati ancora più recenti
evidenziano una sua efficacia in prima linea di terapia in associazione a
regimi di chemioterapia contenenti Oxaliplatino od Irinotecan anche se
il beneficio clinico appare modesto (35,36). Tale beneficio sembra però
incrementato qualora vengano considerati solo i pazienti K-ras wild-type
ed in questi ultimi appare clinicamente significativo in termini di
percentuale di risposta e tempo alla progressione, ma non in termini di
sopravvivenza (36,37). Uno studio in seconda linea di trattamento in
associazione con CPT-11, in pazienti non selezionati, evidenzia un
vantaggio in tempo alla progressione, rispetto al solo CPT-11, senza
ottenere un beneficio in sopravvivenza, che rappresentava l’end-point
primario dello studio (38).
A differenza di altre patologie neoplastiche, nel carcinoma del
colon-retto avanzato si è registrato un incremento della sopravvivenza
nel corso degli anni. Negli ultimi 25 anni, la sopravvivenza mediana del
carcinoma del colon-retto avanzato è decisamente migliorata passando da
circa 4-6 mesi, con la sola terapia di supporto (39), ai 9-11 mesi con
5-FU in monochemioterapia (40), ai 10-12 mesi con 5-FU e LV o 5-FU in
infusione continua (41-43) ed ai 16-18 mesi con trattamenti contenenti
5-FU, LV, CPT-11 (24,25) o OHP (44-46). L’introduzione di nuovi agenti
per il trattamento del carcinoma del colon-retto metastatico ed il loro
utilizzo in sequenza ha incrementato la sopravvivenza mediana da 6 mesi a
più di 20 mesi (28,47).
Terapia delle metastasi epatiche
Il fegato è la sede di metastasi (come unica od in associazione ad
altre) in circa il 20% dei pazienti alla diagnosi ed in oltre il 60% con
malattia in progressione.
La chemioterapia, somministrata attraverso un accesso diretto
nell’arteria epatica, è stata usata per diversi anni per il controllo
della malattia tumorale nella fase della sola metastatizzazione epatica.
Il fondamento logico è basato su diverse osservazioni: 1) il fegato è
spesso la prima e unica sede di malattia metastatica ed il trattamento
aggressivo della malattia confinata al fegato può produrre una
sopravvivenza prolungata in diversi pazienti; 2) le metastasi epatiche
traggono il loro approvvigionamento di sangue dall’arteria epatica,
mentre i normali epatociti traggono la maggior parte del loro
rifornimento di sangue dalle vene portali; 3) alcuni farmaci hanno
un’alta estrazione epatica al primo passaggio, con conseguenti alte
concentrazioni locali ed una bassa tossicità sistemica.
La chemioterapia loco-regionale endoarteriosa epatica (HAI) deve essere
considerata come un’opzione terapeutica ancora da confermare. Diversi
studi hanno confrontato la HAI con la chemioterapia sistemica, ma in
molti di questi era consentito il cross-over tra i gruppi. Uno studio
(48), in cui non era permesso il cross-over tra i bracci di confronto,
ha evidenziato nei pazienti sottoposti ad HAI un numero più elevato di
risposte obiettive ed una sopravvivenza più lunga rispetto a chi
riceveva la chemioterapia sistemica. Tali dati si riferiscono però a
trattamenti sistemici basati sul solo 5-FU e non esistono confronti con
le più moderne e più efficaci terapie di combinazione. Il ruolo della
HAI deve quindi essere completamente riconsiderato alla luce delle nuove
terapie disponibili.
La maggior parte dei pazienti con metastasi da carcinoma del colon-retto
sono inizialmente non resecabili; la chemioterapia svolge un ruolo
fondamentale nel trattamento delle metastasi epatiche in quanto può
produrre una riduzione aumentando l’indice di resecabilità e consentendo
interventi in pazienti inizialmente non operabili.
L’aggiunta di CPT-11 e OHP ai regimi contenti 5-FU ha reso
potenzialmente operabili il 12-22% dei pazienti con malattia
metastatica, su cui non era inizialmente ipotizzabile alcun trattamento
chirurgico (49).
La tripletta FOLFOXIRI ha dimostrato un aumento significativo della
resecabilità delle metastasi epatiche rispetto ad un regime a due
farmaci in uno studio di fase III, in una sottoanalisi post-hoc (50).
I farmaci biologici come Bevacizumab hanno apportato un significativo
contributo alle risposte obiettive ed alla sopravvivenza di questi
pazienti (51). Risultati sono disponibili anche con l’impiego di
Cetuximab. Tutte le esperienze con i farmaci biologici sono però
riferite a piccole casistiche o a valutazioni post-hoc.
La meta-analisi di Mitry (52) ha valutato l’efficacia della
chemioterapia adiuvante con fluoro-folati dopo resezione delle metastasi
epatiche su una casistica proveniente da due studi europei. Entrambi
gli studi sono stati chiusi prematuramente per il lento arruolamento. La
chemioterapia con 5-FU sembra essere vantaggiosa, anche se in maniera
non significativa, rispetto alla sola osservazione in termini di
sopravvivenza libera da progressione.
Per quanto riguarda i farmaci biologici, non esistono dati in
letteratura che sostengano il loro uso con intento adiuvante, dopo
resezione epatica.
Le metastasi possono svilupparsi anche a livello polmonare e la maggior
parte delle raccomandazioni poste per il trattamento delle metastasi
epatiche sono valide anche per le metastasi sul polmone.
Nel caso di metastasi addominali e/o peritoneali il trattamento è palliativo, piuttosto che curativo.
Altre modalità d’uso della chemioterapia
La chemioterapia cronomodulata prevede l’infusione di farmaci con
intensità variabile in rapporto alle diverse ore della giornata sulla
base di conoscenze legate al ritmo circadiano dell’organismo che
condiziona un differente metabolismo del farmaco in differenti momenti
della giornata. Tale terapia sembra essere meglio tollerata.
Nei pazienti anziani, è importante scegliere una chemioterapia con un
profilo di tossicità accettabile, ma allo stesso tempo in grado di
garantire anche una buona efficacia. Nonostante l’incremento di
incidenza del carcinoma del colon-retto dopo i settanta anni, questo
gruppo di pazienti spesso è poco rappresentato negli studi clinici.
Attualmente, nei pazienti anziani, sono scarse le informazioni per
definire un regime standard, tuttavia non sembra esistere una differenza
di tossicità ed efficacia delle chemioterapie impiegate nei pazienti
più giovani. I fattori più rilevanti nella scelta della terapia per
l’anziano sono il performance status, la presenza/assenza di comorbidità
ed i fattori sociali.
Recidive pelviche
La recidiva pelvica è generalmente localizzata nello spazio presacrale
e, nei pazienti sottoposti a resezione anteriore, coinvolge l’anastomosi
chirurgica. La prognosi dei pazienti con recidiva locale è sfavorevole.
Solo pochi pazienti possono essere sottoposti ad un trattamento
chirurgico, eventualmente associato a radio e chemioterapia adiuvante, e
la percentuale di ripresa di malattia è elevata. Anche la qualità di
vita è scadente, in quanto gravata da dolore, emorragie, infezioni
pelviche e sindromi ostruttive. Il trattamento della recidiva pelvica
deve essere definito in modo interdisciplinare ed è condizionato dal
trattamento effettuato precedentemente.
La chirurgia è comunemente considerata la pressoché unica possibilità di
guarigione; nei casi non resecabili, la radioterapia avrebbe un ruolo
palliativo per il controllo dei sintomi, soprattutto per il dolore (53).
Alcune esperienze hanno evidenziato la possibilità di identificare, in
base ad indagini clinico-strumentali, sottogruppi di pazienti che
possono avvantaggiarsi dei trattamenti radioterapici intensificati
dell’associazione con la chemioterapia o di sovradosaggi intra-operatori
di radioterapia (IORT). Alcuni gruppi prendono in considerazione il
ritrattamento radiochemioterapico in pazienti che avevano ricevuto un
trattamento radiante pre- o post-operatorio per la neoplasia rettale
primitiva (54,55).
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8.0 FOLLOW-UP DOPO TRATTAMENTO CON INTENTI CURATIVI
8.1 Follow-up dopo polipectomia
8.2 Follow-up dopo trattamento chirurgico radicale di un carcinoma colorettale precoce (T1N0M0-Stadio I)
8.3 Follow-up dopo trattamento radicale di un carcinoma
colorettale in stadio II e III (chirurgia con o senza radiochemioterapia
adiuvante)
Presupposto indispensabile per ogni adeguato programma di follow-up è la radicalità del trattamento che lo precede.
In particolare, si rende necessario escludere la presenza di lesioni
sincrone intestinali mediante pancolonscopia, specialmente se la
valutazione pre-chirurgica è risultata incompleta. Inoltre, deve essere
esclusa la presenza di metastasi a distanza e/o di recidiva
loco-regionale.
Nel periodo post-chirurgico, è utile la valutazione del CEA per
documentarne la normalizzazione, entro 45-60 giorni, quando elevato
nella valutazione pre-chirurgica.
Nel carcinoma del colon-retto, il follow-up viene correntemente
eseguito, anche se con scarsa concordanza nelle metodiche utilizzate e
nella loro frequenza.
In ogni caso, gli obiettivi di un programma di follow-up sono chiari e rappresentati da:
– identificazione precoce, in fase asintomatica, di recidive locali e/o
di metastasi a distanza, nonché di tumori primitivi metacroni;
– benefici in termini di sopravvivenza libera da malattia;
– buona qualità di vita e compliance della popolazione sottoposta a follow-up;
– accettabile rapporto costi-benefici.
8.1 Follow-up dopo polipectomia
La sorveglianza dopo polipectomia, per via endoscopica o transanale
chirurgica, è esclusivamente endoscopica e ha lo scopo di riconoscere
una recidiva locale nel primo anno e negli anni successivi, consentire
l’asportazione di polipi di nuova insorgenza e riconoscere un eventuale
tumore primario metacrono.
La sorveglianza endoscopica si articola in maniera diversa in rapporto
al fatto che il polipo rimosso fosse adenomatoso benigno o maligno,
singolo o multiplo. Nei polipi maligni, il follow-up si differenzia nel
caso di polipo sessile o di polipo peduncolato (con relativo livello
d’invasione) ed in rapporto alla completezza della polipectomia (margine
di resezione libero da infiltrazione neoplastica, invasione vascolare,
grado di differenziazione).
Il follow-up endoscopico si differenzia in base alle caratteristiche della lesione polipoide asportata:
– adenoma singolo: pancolonscopia a 5 anni;
– adenomi multipli: pancolonscopia a 1 e a 3 anni dall’asportazione e se negative ogni 5 anni;
– polipo maligno: pancolonscopia a 1 e 3 anni, se negative si procede
con sorveglianza ogni 5 anni. Se la sede della polipectomia è il colon
sinistro, può essere sufficiente una rettosigmoidoscopia.
Un follow-up endoscopico più intensivo può essere indicato in casi
selezionati per la presenza di fattori prognostici negativi (grado di
differenziazione, invasione vascolare, infiltrazione del margine di
resezione, grandi dimensioni della lesione, ecc.).
Anche in caso di resezione chirurgica e linfoadenectomia per la presenza
di un polipo maligno, la sorveglianza è prevalentemente endoscopica con
controlli ad 1, 3 anni e poi ogni 5 anni.
8.2 Follow-up dopo trattamento chirurgico radicale di un carcinoma colorettale precoce (T1N0M0-Stadio I)
In questo gruppo di pazienti, il follow-up è prevalentemente endoscopico
con controlli a 1, 3 anni e poi ogni 5 anni, a cui può aggiungersi una
visita specialistica e misurazione del CEA secondo le seguenti
indicazioni a:
– 3 mesi (qualora un margine di resezione sia a distanza di meno di 2-3
cm): endoscopia per verificare la linea anastomotica + CEA + visita
clinica specialistica;
– 6 mesi: CEA;
– 1 anno: CEA + ecografia epatica + pancolonscopia + visita clinica specialistica;
– 2 anni: CEA;
– 3 anni: CEA + pancolonscopia + visita clinica specialistica.
8.3 Follow-up dopo trattamento radicale di un carcinoma
colorettale in stadio II e III (chirurgia con o senza radiochemioterapia
adiuvante)
Al momento attuale, non esiste uno schema standard di follow-up;
frequenti sono le diversità di comportamento tra le diverse Istituzioni
e, a volte, anche all’interno di una stessa Struttura. Le stesse
Organizzazioni Oncologiche Nazionali ed Internazionali presentano linee
guida differenti sulla conduzione del follow-up in questa patologia,
dopo trattamento con intento curativo.
Lo scarso consenso deriva dai risultati spesso contrastanti degli studi
randomizzati di follow-up, intensivi rispetto a non intensivi, condotti
negli ultimi 30 anni.
Alcuni di questi studi hanno dimostrato un vantaggio in termini di
sopravvivenza e resecabilità delle metastasi e delle recidive a favore
di programmi di sorveglianza intensiva (1,2).
Un recente studio randomizzato ha confermato, a 48 mesi di follow-up, questo vantaggio solo per lo stadio B (3).
Al fine di chiarire il significato e la validità dei vari regimi di
follow-up, diverse meta-analisi hanno preso in considerazione gli studi
randomizzati e conclusi per una riduzione di morte per ogni causa del
20-33% per quei soggetti che ricevevano un follow-up intensivo (4,5).
In particolare, nei gruppi che ricevevano una sorveglianza più intensiva
si aveva una più precoce identificazione delle recidive di malattia ed
un più elevato tasso di resezioni con intento curativo su metastasi e/o
recidiva loco-regionale.
Tra le indagini inserite in un programma di follow-up, la valutazione
del CEA viene raccomandata ogni 3 mesi per i primi 3 anni nei pazienti
in stadio II e III. Questo esame si è dimostrato in grado di aumentare
l’identificazione ed il tasso di resezione di recidiva/metastasi in
pazienti asintomatici (6,7).
Un aumento del 25-30% del CEA tra due successive misurazioni, eseguite
entro 2-4 settimane l’una dall’altra, deve considerarsi indicativo di
ripresa di malattia. Il paziente deve essere quindi sottoposto a
re-staging (ecografia, TC, colonscopia) e nel caso in cui questo si
dimostri negativo, ad una PET, a completamento diagnosi. Se la PET è
negativa, si consiglia controllo ulteriore del CEA e stretto follow-up.
Tra le procedure di imaging, viene raccomandata l’esecuzione di una TC
del torace e dell’addome a cadenza annuale per i primi 3 anni, mentre lo
studio TC della pelvi dovrebbe essere riservato ai pazienti operati per
neoplasia del retto (8).
Questa metodica si é infatti dimostrata in grado di identificare
precocemente la comparsa di recidiva e/o metastasi e quindi di
individuare quei soggetti potenzialmente candidati a resezione curativa
(9).
Non esistono però dati precisi sulla frequenza con cui eseguire questo
esame, ma dalle evidenze disponibili, il controllo TC annuale in
pazienti ad alto rischio e candidati a resezione chirurgica sembrerebbe
il miglior compromesso, anche dal punto di vista del rapporto
costo-beneficio.
L’esame endoscopico completo del colon dovrebbe essere eseguito in fase
pre- o peri-operatoria e comunque, entro un anno dall’intervento
chirurgico. Successivamente, in caso di negatività, è sufficiente
ripetere il controllo a 3 anni e poi al 5° anno dopo la resezione (9).
Invece, non esistono evidenze di supporto all’utilizzo durante il
follow-up di indagini quali la ricerca del sangue occulto nelle feci,
l’esecuzione di esami ematochimici di routine (emocromo, valutazione
degli indici di funzionalità epatica) e radiografia del torace.
Nonostante la presenza di alcuni dati contrastanti sulla frequenza e
sulla tipologia degli esami da eseguire durante il follow-up dopo
resezione di un carcinoma colorettale in stadio II e III, si possono
comunque riassumere le principali raccomandazioni come segue:
– VISITA ogni 3-6 mesi per i primi 3 anni e poi ogni 6 mesi durante il
4° e 5° anno; successivamente a discrezione del medico e del paziente.
Nel caso di un carcinoma del retto, la visita deve comprendere
un’esplorazione rettale;
– VALUTAZIONE del CEA ogni 3 mesi per i primi 3 anni e poi ogni 6 mesi fino al quinto anno dopo l’intervento chirurgico;
– PANCOLONSCOPIA entro 6-12 mesi dall’intervento chirurgico; se
negativa, un nuovo controllo dovrebbe essere eseguito a 3 anni e poi a 5
anni;
– SIGMOIDOSCOPIA: nel carcinoma del retto è consigliata ogni 6 mesi per i primi 2 anni;
– TC TORACE e ADDOME annuale per i primi 3 anni in pazienti considerati
ad alto rischio e candidabili a resezione curativa in caso di recidiva
e/o metastasi;
– TC della PELVI nel carcinoma del retto in pazienti con fattori
prognostici negativi e che non abbiano ricevuto un trattamento
radioterapico, annualmente per i primi 3 anni;
– ECOGRAFIA dell’ADDOME SUPERIORE nei primi 3 anni ogni 6 mesi e nel 4° e
5° anno ogni 12 mesi in pazienti sottoposti a TC nel follow-up
(intervallata alla TC nei primi tre anni); nei pazienti non suscettibili
di resezione epatica e/o polmonare o con controindicazioni alla TC;
– PET non è raccomandata di routine; l’indicazione è invece appropriata
per il re-staging in pazienti con sospetto laboratoristico e/o reperti
di diagnostica per immagini dubbi o negativi oppure per lo studio di
pazienti con lesioni metastatiche potenzialmente operabili.
Naturalmente, queste raccomandazioni sono da intendersi di ordine
generale e riassumono le principali indicazioni al follow-up riportate
nelle linee guida delle principali Organizzazioni Nazionali e
Internazionali di Oncologia. Esse non devono sostituire il giudizio del
Medico che potrà, in base ai diversi fattori prognostici legati alla
neoplasia, al quadro clinico generale nonché alla compliance del
paziente, modificare intensità e modalità della sorveglianza.
Un follow-up di media intensità è generalmente ben accolto dal paziente,
permette di riconoscere precocemente segni e sintomi di ripresa di
malattia e stabilire un adeguato rapporto di fiducia medico-paziente.
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[/column][/box][box][column collapse_spacing=”yes” vertical_align=”top” auto_height=”yes” css=”border-top-width: medium; border-top-style: none; border-top-color: initial; border-right-width: medium; border-right-style: none; border-right-color: initial; border-bottom-width: medium; border-bottom-style: none; border-bottom-color: initial; border-left-width: medium; border-left-style: none; border-left-color: initial; padding-top: 0; padding-right: 0; padding-bottom: 0; padding-left: 0; ” width=”24″ last]
9.0 CARCINOMA EPIDERMOIDE DELL’ANO
9.1 Epidemiologia
9.2 Fattori prognostici
9.3 Stadiazione
9.4 Trattamento
9.5 Principali indicazioni di trattamento
9.6 Esami di follow-up
Direzioni future
Il carcinoma del canale anale è una neoplasia rara, anche se la sua
incidenza è andata progressivamente aumentando parallelamente alle
infezioni virali trasmesse sessualmente.
Fino a 20-30 anni fa, il trattamento standard era la chirurgia
demolitiva con resezione per via addomino-perineale secondo Miles: la
sopravvivenza a 5 anni riportata nelle principali casistiche chirurgiche
era di circa 50-70% (1,2).
La maggior parte delle recidive era loco-regionale, imputabile sia alla
difficoltà tecnica (dovuta alla sede anatomica) di operare una resezione
con ampi margini in tessuto sano, sia alla diffusione attraverso la
ricca rete linfatica.
Negli ultimi anni, l’approccio terapeutico a questa patologia è
radicalmente cambiato: da chirurgico demolitivo è divenuto conservativo
radiochemioterapico, rimanendo il ruolo della chirurgia confinato
esclusivamente a supporto diagnostico e/o come trattamento di
salvataggio nei fallimenti loco-regionali dopo radiochemioterapia.
La prima descrizione dell’impiego della radiochemioterapia risale agli
anni ’70, quando Nigro riporta un alto tasso di risposte complete in
pazienti operati dopo trattamento pre-operatorio con basse dosi di
radiazioni (30 Gy), somministrate in associazione a chemioterapia con
5-Fluorouracile e Mitomicina C.
Tale schema di trattamento, noto con l’acronimo FUMIR, modificato
rispetto allo schema originale soprattutto per l’intento (da
pre-operatorio a curativo) e per la dose (da 30 a 45-50 Gy) ha fatto
registrare ottimi risultati terapeutici per controllo locale e
preservazione d’organo ed è divenuto rapidamente lo standard di cura.
Definizione di canale anale
E’ la porzione terminale dell’intestino lunga 3-4 cm, che si estende
dall’anello ano-rettale (ano-rectal ring) alla giunzione con la cute
perineale (anal verge).
L’epitelio che riveste questa parte del canale anale è di tipo colonnare.
La linea dentata o pettinata è la sede in cui si aprono le ghiandole
anali e rappresenta la zona di transizione tra l’epitelio colonnare del
canale prossimale e l’epitelio squamoso stratificato del canale distale.
L’epitelio che riveste questo tratto di canale anale è globalmente detto
di transizione e contiene epitelio di tipo colonnare, cuboidale,
squamoso e transizionale.
Definizione di margine anale
E’ la regione cutanea dove termina il canale anale che si sviluppa
concentricamente per un raggio di 5 cm a partire dall’anal verge
(margine propriamente detto del canale anale) ed è rivestita da epitelio
squamoso cheratinizzato contenente follicoli piliferi.
Drenaggio linfatico
Il canale anale presenta una ricca rete linfatica che drena in 3
principali gruppi linfonodali: linfonodi mesorettali, linfonodi
otturatori, linfonodi inguinali.
I vasi linfatici del margine anale drenano nei linfonodi
inguino-femorali, che a loro volta drenano negli iliaci esterni e
comuni; anche i vasi linfatici del canale anale, nel tratto al di sotto
della linea pettinata, drenano principalmente nei linfonodi inguinali.
Circa il 10% dei pazienti presenta localizzazioni inguinali (3).
Istologia
Circa l’80% dei tumori primitivi del canale anale presenta istologia
squamosa. Vengono identificati differenti sottotipi: a grandi cellule
cheratinizzanti, a grandi cellule non cheratinizzanti (transizionali) e
basaloidi. Il termine “cloacogenico” viene usato per questi ultimi due
sottotipi. Circa il 15% delle neoplasie del canale anale presenta
istotipo adenocarcinomatoso. Il rimanente 5% si presenta con neoplasia a
piccole cellule, indifferenziata o melanoma.
Le neoplasie primitive del margine anale sono assimilabili alle
neoplasie cutanee di altri distretti: carcinomi squamocellulari,
carcinomi a cellule basali, malattia di Bowen, sarcoma di Kaposi,
malattia di Paget e Melanomi. Queste ultime hanno un comportamento
differente da quelle del canale anale e quando è possibile una
escissione chirurgica completa (wide excision) presentano una
sopravvivenza a 5 anni dell’80% (4).
I tumori della porzione distale del canale anale tendono ad essere più
frequentemente delle forme cheratinizzate, al contrario dei tumori della
porzione prossimale che si presentano come forme cloacogeniche o
basaloidi da cui tuttavia non differiscono per comportamento. Esiste una
variante aggressiva della forma basaloide, cosiddetta a piccole
cellule, che ha una tendenza alla rapida diffusione.
Gli adenocarcinomi a partenza dalle ghiandole o dai dotti ghiandolari
hanno un comportamento simile agli adenocarcinomi del retto (5).
Storia naturale
Le neoplasie del canale anale presentano una lenta evoluzione loco-regionale, con invasione diretta delle strutture limitrofe.
La via di diffusione più frequente è quella linfonodale, meno frequente quella ematica.
Le metastasi a distanza sono rare (10-17%) (6,7) e sono prevalentemente a carico di fegato e polmone.
Circa il 60-70% dei pazienti all’esordio si presenta con malattia di
diametro > 4 cm a causa della genericità dei sintomi, che ne
ritardano la diagnosi. Sono comuni il sanguinamento rettale, spesso
discontinuo e nei casi di malattia di Bowen è frequente il prurito anale
che talvolta precede di vari mesi la lesione sanguinante. Sintomi come
il dolore durante la defecazione o una sostanziale alterazione dell’alvo
sono indicatori di uno stadio avanzato di malattia.
Il tumore del canale anale si presenta come una lesione ulcerata ed
infiltrante a margini rilevati e duri, talvolta accompagnata anche da
una componente vegetante di aspetto polipoide.
L’estensione alla vagina, alla prostata ed allo spazio ischiorettale è
riscontrabile nel 15-20% dei casi e talvolta si accompagna a presenza di
fistole e/o ascessi (8,9).
Adenopatie clinicamente evidenti sono presenti in circa il 20% dei casi
all’esordio (10), ma in serie sottoposte ad esplorazione chirurgica la
percentuale varia dal 30-63% dei casi (11).
9.1 Epidemiologia
Le neoplasie del canale anale rappresentano il 4% di tutti i tumori del
grosso intestino e sono più frequenti nel sesso femminile (1.5-2 volte).
L’incidenza annuale è di 1/100.000 nella popolazione eterosessuale,
circa 500 nuovi casi all’anno nel Regno Unito e 3.500 negli USA (12).
Viene riportata un’incidenza più alta (35/100.000) nei maschi
omosessuali che svolgono pratiche sessuali passive, il rischio raddoppia
se il soggetto è HIV positivo.
La promiscuità sessuale e le malattie a trasmissione sessuale
incrementano l’incidenza in entrambi i sessi. L’età mediana alla
diagnosi è di circa 60 anni, con un ampio range (30-80 anni).
Etiologia e fattori di rischio
I dati di seguito riportati, indirizzano verso l’ipotesi di una etiologia multifattoriale.
A tutt’oggi, tuttavia, non ci sono dati a favore di un programma di screening.
Infezioni
L’infezione da Papilloma virus (HPV) di tipo 13 e 16 (cosiddette forme
ad alto rischio) associata allo sviluppo di condilomi acuminati nei
genitali esterni sembra svolgere un ruolo promuovente l’insorgenza di
neoplasie spinocellulari (rischio relativo di 26.9 negli uomini e di
32.5 nelle donne), con un periodo di latenza di più di 40 anni (13)
analogamente alle neoplasie della cervice uterina (14). L’HPV-DNA (di
tipo 16) è stato riscontrato nell’80% delle biopsie di tumori
spinocellulari esaminati (15) e nelle neoplasie intraepiteliali ad alto
grado (16), in particolare nei maschi omosessuali (17). Anche le
infezioni da Herpes simplex di tipo 1, da Chlamidia tracomatis e da
Gonococco sono associate ad un incremento del rischio relativo
rispettivamente del 4.1, 2.3 e 17.2 (18).
In soggetti HIV positivi è elevata l’incidenza di neoplasie
intraepiteliali (ASIL). Il rischio relativo dopo infezione da HIV è
dell’84.1 per i maschi omosessuali e del 37.8 per gli eterosessuali. Da
recenti osservazioni, sembra che il virus HIV favorisca la replicazione
dei tipi oncogeni dell’HPV ed aumenti il rischio di ASIL e di neoplasie
in questa popolazione, anche se il Center for disease Control non
considera le neoplasie del canale anale come malattie correlate all’AIDS
(19).
Fumo
Il fumo rappresenta un fattore di rischio solo per le donne in
premenopausa ed è stato ipotizzato che agisca come antiestrogenico nel
promuovere la cancerogenesi (20).
Altri fattori
In individui immunocompromessi, ad esempio dopo trapianto d’organo, il
rischio di sviluppare una neoplasia del canale aumenta di circa 100
volte (21), così come in soggetti affetti da una pregressa neoplasia
vulvo-vaginale o della cervice uterina.
9.2 Fattori prognostici
Il più importante fattore prognostico è la sede di insorgenza.
I tumori del canale sono più aggressivi di quelli del margine (14).
Nessuna sostanziale differenza è stata segnalata, considerando i vari
sottotipi istologici della forma squamocellulare.
Il grading può essere considerato un fattore prognostico (22).
Altrettanto importante è lo stadio di T, al cui aumento è correlato un peggioramento della prognosi (22-24).
L’interessamento linfonodale è un fattore prognosticamente sfavorevole
ed è correlato ad un più elevato tasso di ricadute locali come segnalato
in letteratura da due studi di fase III (7,25). L’infezione da HIV
sembrava rappresentare un fattore sfavorevole, tuttavia la terapia con
antivirali ha permesso l’impiego di trattamenti standard con un DFS
analogo a quello di pazienti HIV negativi (19,26). A causa delle
implicazioni correlate alla presenza di infezione misconosciuta da HIV,
come infezioni opportunistiche durante il trattamento
radio-chemioterapico, è consigliabile l’esecuzione del test in tutti i
soggetti a rischio.
Una prognosi sfavorevole sembra associata all’elevata presenza di p53 nell’istotipo squamocellulare (27).
La tolleranza ai trattamenti multimodali sembra essere un fattore predittivo di successo (28).
9.3 Stadiazione
Indagini di stadiazione
Sono consigliati i seguenti accertamenti:
– biopsia con esame istologico;
– Rx torace;
– test HIV;
– esplorazione rettale ± visita ginecologica;
– ano-retto-sigmoidoscopia, possibilmente con documentazione fotografica della lesione;
– ecografia od ecoendoscopia transanale per la definizione della
estensione di T e del livello di infiltrazione neoplastica in
profondità;
– TC addome e pelvi: è consigliabile estendere sistematicamente le
scansioni almeno 5-6 cm, distalmente alle tuberosità ischiatiche;
– ecografia inguinale in casi di linfonodi clinicamente dubbi;
– agoaspirato o biopsia di linfonodi inguinali dubbi.
Altre indagini, ritenute opzionali, divengono indispensabili su
indicazione clinica: TC torace, RM pelvi, ecografia epatica,
scintigrafia ossea, TC-PET, ecc.
TNM (2007)
Tumore primitivo
TX: Tumore primitivo non definibile
T0: Tumore non evidenziabile
Tis: ca in situ
T1: <= 2 cm
T2: > 2 – 5 cm
T3: > 5 cm
T4: ogni T con invasione di organi o strutture
Linfonodi regionali
N0 linfonodi non valutabili
N1 linfonodi peri-rettali
N2 iliaci interni e/o inguinali monolaterali
N3 peri-rettali e inguinali e/o iliaci interni e/o inguinali bilaterali
9.4 Trattamento
Ruolo storico della radioterapia esclusiva
La radioterapia quale trattamento esclusivo è stata inizialmente
impiegata nelle forme molto avanzate e/o non trattabili chirurgicamente.
Fu subito evidente una chiara relazione dose-risposta, poiché un più
alto controllo locale si ottenne quando la dose di radioterapia era
superiore a 55 Gy (29-31).
Un sovradosaggio variabile tra 19-25 Gy è stato somministrato con brachiterapia interstiziale mediante impianti con 192Iridio (32).
Tuttavia, date le alte dosi di radioterapia somministrate, le sequele
tardive (stenosi anali, fistole, sanguinamento, ulcere) sono state
elevate (10-30% a seconda delle casistiche), con ricorso alla colostomia
nel 6-12% dei casi (29,33-35).
La sopravvivenza a 5 anni è risultata del 39-76%, quella libera da colostomia del 67-74% (36,37).
Con questi risultati, la radioterapia esclusiva si pose come ragionevole
alternativa alla chirurgia nei tumori di piccole dimensioni, mentre per
le forme più avanzate e profondamente infiltranti i risultati clinici
non erano soddisfacenti.
Ruolo della radiochemioterapia
Nel tentativo di migliorare le risposte e di ridurre l’incidenza di
ricadute locali, sulla scorta di dati preclinici (38) che ne sostenevano
l’effetto potenziante si associarono alcuni farmaci chemioterapici al
trattamento radiante.
Nel 1974, Nigro (39) pubblicò l’esperienza della radioterapia
pre-operatoria condotta a 30 Gy (dose ritenuta compatibile con limitate
complicanze post-operatorie) in associazione alla somministrazione di
5-Fluorouracile (5-FU) in infusione continua (1°→4° giorno) e Mitomicina
C (MMC) in bolo (solo il 1° giorno).
Tale associazione, nota con l’acronimo di FUMIR, si è mostrata in grado
di sterilizzare la neoplasia (RC patologiche) nel 74% dei pazienti,
comunque sottoposti in seguito a Miles.
Questa elevata percentuale di risposte indusse a riservare la chirurgia
demolitiva ai soli pazienti non responsivi, aprendo così la strada alla
conservazione d’organo con indubbio impatto sulla qualità della vita.
Numerosi studi di fase I-II successivi hanno confermato l’efficacia del
trattamento radiochemioterapico concomitante esclusivo secondo lo schema
FUMIR (40), segnalando percentuali di controllo locale e di
sopravvivenza analoghe a quelle ottenute con chirurgia demolitiva e con
l’indubbio vantaggio di favorire la conservazione d’organo nella
maggioranza dei pazienti.
Lo schema FUMIR rappresentò presto lo standard di comparazione per ogni altro trattamento.
Studi randomizzati
Negli anni ’80, due studi di fase II (41,42) hanno confrontato i
risultati ottenuti con un trattamento combinato radiochemioterapico con
la casistica storica trattata con sola radioterapia, segnalando un
vantaggio considerevole nel controllo locale.
Due studi randomizzati hanno confermato questo risultato.
Sia lo studio dell’EORTC (7) sia quello dell’UKCCR (43) hanno riportato
un vantaggio nel controllo locale, nella conservazione dello sfintere e
nella sopravvivenza cancro-specifica senza un significativo incremento
della tossicità tardiva nel braccio di radiochemioterapia.
Tale risultato è particolarmente significativo negli stadi più avanzati di malattia.
Lo studio americano di fase III RTOG 8704/ECOG 1289 (25) ha confrontato
lo schema FUMIR con una radiochemioterapia con solo 5-FU, riportando un
vantaggio statisticamente significativo derivato dalla combinazione dei
due farmaci: il ruolo positivo della MMC si tradusse in una maggiore
percentuale di risposte complete, in una minore incidenza di recidive
locali e di colostomie definitive, sebbene a costo di una più spiccata
tossicità acuta.
Nuovi farmaci
Il riscontro di tossicità dello schema FUMIR ha sollecitato la ricerca di nuovi farmaci da associare al 5-FU.
Il Cisplatino (CDDP) è stato studiato per il suo effetto
radiosensibilizzante come possibile sostituto della MMC, in quanto
presenta uno spettro di tossicità diverso dal 5-FU.
Sono stati condotti numerosi studi di fase I-II che ne hanno testato la tossicità e l’efficacia.
Tutte le esperienze effettuate hanno riportato una efficacia terapeutica
sovrapponibile in termini di controllo locale e conservazione dello
sfintere (31,44,45) a quella dello schema FUMIR con una tossicità minore
in alcuni studi (45).
Pur non essendo ancora disponibili i risultati di studi di fase III
ancora in corso (46) che validino la combinazione, lo schema di
chemioterapia contenente il CDDP è entrato nella pratica clinica di
molte Istituzioni di riferimento.
Sono stati recentemente pubblicati i risultati dello studio cooperativo
di fase III RTOG 98-118 (47) dove il braccio di controllo è stato
trattato con lo schema con FUMIR e quello sperimentale con 2 cicli di
PLAFUR (Platino e 5-FU) neodiuvante e successiva radiochemioterapia con
PLAFUR.
Nessun incremento della DFS e delle colostomie è stato evidenziato con lo schema contenente il Cisplatino.
Ruolo della chirurgia
Attualmente, la strategia terapeutica generale si avvale prevalentemente di trattamenti conservativi radiochemioterapici.
La chirurgia mantiene un ruolo soltanto in alcuni casi, ad esempio
piccoli tumori T1-2 N0 del margine anale possono essere resecati con
adeguato margine (24,43,48), cosi come le forme in situ possono
avvalersi di un escissione locale o mediante laser (49).
Una temporanea colostomia può essere necessaria in pazienti con malattia
avanzata, per consentire loro di eseguire i trattamenti integrati
radiochemioterapici oppure in pazienti con fistola retto-vaginale.
La chirurgia demolitiva può essere considerata una opzione come
trattamento di salvataggio in caso di recidiva/residuo dopo
radiochemioterapia (50).
E’ ancora in fase di validazione la tecnica della biopsia del linfonodo sentinella (51).
Radioterapia
La radioterapia a fasci esterni impiega radiazioni di energia superiore a 6 MV.
Quando l’irradiazione è concomitante alla chemioterapia può essere presa
in considerazione una modulazione di dose e volumi, guidata dallo
stadio iniziale di malattia e dalla riduzione delle dimensioni della
stessa neoplasia durante il corso della radioterapia.
Se il trattamento radiante non prevede l’associazione con la
chemioterapia, la dose consigliata al tumore primitivo ed ai linfonodi
metastatici é di 65-70 Gy.
La dose da prescrivere ai linfonodi regionali clinicamente negativi è di
45-50 Gy. Il frazionamento consigliato è quello convenzionale di 180-200 cGy al giorno.
Controindicazioni al trattamento radiante
1) Assolute
– pregressa radioterapia pelvica
– paziente non collaborante
– gravidanza in atto
2) Relative
– malattie autoimmuni
– malattie croniche intestinali
– diabete insulino-dipendente
SPLIT (pausa programmata)
Nonostante la quasi totalità di pazienti sottoposti a radioterapia
continuativa necessiti di una interruzione durante il trattamento per
tossicità G3 (specie cutanea), la maggior parte dei radioterapisti
continua ad essere perplessa nell’introdurre una pausa “programmata” per
il timore di favorire la ricrescita tumorale durante lo split.
Nella successione di schemi FUMIR proposti dal Princess Margareth
Hospital, la modalità di trattamento che prevedeva 2 cicli di 24 Gy
intervallati da una pausa di 3-4 settimane si era dimostrata in grado di
favorire i migliori risultati sul controllo di malattia e la minore
tossicità. Cummings giustificava lo split, sottolineando che la
neoplasia anale può presentare un tempo di clearance lento
(2-36 settimane) e che dopo l’interruzione può essere ridefinito un
volume radioterapico ridotto conformato sul residuo neoplastico, con
ovvia riduzione degli effetti collaterali ed infine, che la pausa è
comunque compensata dalla intensificazione della chemioterapia.
L’uso dello split non trova ancora un accordo unanime; il suo utilizzo
va messo sicuramente in relazione sia alla dimensione iniziale della
neoplasia e quindi alle dosi ed ai volumi scelti per il trattamento, sia
allo schema di chemioterapia concomitante impiegato. Nessuna
interruzione programmata è stata, per esempio, prevista nei trattamenti
effettuati con PLAFUR ed i Centri che hanno adottato questo schema hanno
comunque riportato una discreta tolleranza.
Pertanto, si ritiene consigliabile l’introduzione di una pausa
“programmata” (ridotta a 2 settimane) dopo 45 Gy, soprattutto se si
impiega lo schema FUMIR.
Schemi di chemioterapia concomitante
FUMIR
Il 1° ciclo viene effettuato in concomitanza con l’inizio della
radioterapia, il 2° ciclo in concomitanza della seconda fase di
radioterapia dopo opportuna pausa programmata, secondo lo schema
seguente:
– Mitomicina-C mg 10/m2 e.v. in bolo (die 1)
– 5-Fluorouracile mg 1.000/m2/die in infusione venosa protratta di 4 giorni (die 1-4)
PLAFUR
Il 1° ciclo viene effettuato in concomitanza con l’inizio della
radioterapia, il 2° ciclo dopo quattro settimane dal primo, secondo lo
schema seguente:
– Cisplatino mg 100/m2 e.v. (die 1)
– 5-Fluorouracile mg 1.000/m2/die in infusione venosa protratta di 4 giorni (die 1-4)
Durante il trattamento, è raccomandato un controllo settimanale del
paziente al fine di rilevare la presenza di tossicità locali, enteriche,
vescicali, rettali ed ematologiche.
Si raccomanda la registrazione in cartella mediante l’impiego di
opportune scale di valutazione delle tossicità (RTOG, WHO ecc.)
Valutazione della risposta
Allo scopo di monitorare la tossicità locale, si consiglia una prima
valutazione clinica a tre-quattro settimane dalla fine della
radiochemioterapia.
Vi sono molte controversie in merito al momento migliore di valutazione della risposta ai trattamenti primari.
Questa viene generalmente valutata in sesta-ottava settimana dal termine
del trattamento radiochemioterapico, anche se alcuni autori ritengono
ancora possibile una regressione entro la dodicesima settimana (52),
data la lenta clearance di questa neoplasia.
Una malattia residua che tende progressivamente a ridursi può essere
ancora definita in risposta e non va sottoposta ad accertamento
bioptico, per il potenziale rischio di complicanze locali dovute alla
manovra. In quest’ambito, appare di buon ausilio il recente impiego
dell’imaging biologico mediante PET che, insieme alla tradizionale
anoscopia, può meglio evidenziare i veri casi di fallimento.
Brachiterapia (BRT)
La brachiterapia nel trattamento del canale anale viene impiegata con lo
scopo di somministrare una dose supplementare sul letto tumorale al
termine del tempo radiochemioterapico, per incrementare il controllo
locale, preservando la funzionalità sfinterica.
Sono consigliate tecniche che impiegano 192Ir:
– after-loading (LDR)
– tecnica remote after-loading (PDR)
La dose consigliata è di 15-25 Gy (a seconda della dose precedentemente somministrata e delle dimensioni dell’impianto).
Controindicazioni alla BRT
– infiltrazione anulare all’esordio > 2/3 della circonferenza del canale anale;
– infiltrazione longitudinale residua > 5 cm;
– spessore dell’infiltrazione residua > 1.5 cm;
– diffusione alla cute perianale all’esordio, che non permette una adeguata copertura da parte dell’impianto.
9.5 Principali indicazioni di trattamento
Stadio 0
Lo stadio 0 è rappresentato dalla forma in situ, che non oltrepassa la membrana basale. Per questo stadio è indicata:
• escissione chirurgica limitatamente all’area interessata per via tradizionale o mediante laser.
Stadio I e II
Per questi stadi sono indicati:
• radiochemioterapia concomitante con finalità curativa.
Esistono due opzioni chemioterapiche:
– associazione di 5-Fluorouracile + Mitomicina C (FUMIR)
– associazione di 5-Fluorouracile + Cis-platino (PLAFUR).
• brachiterapia esclusiva, in casi selezionati
Stadio III A
Per questo stadio è indicato:
• radiochemioterapia concomitante con finalità curativa come descritto per lo stadio I e II.
Stadio III B
Per questo stadio è indicato:
• radiochemioterapia come descritto per lo stadio II seguito da
resezione chirurgica dell’eventuale residuo del tumore primitivo
(escissione locale o resezione addominoperineale) e/o dell’eventuale
residuo linfonodale mono o bilaterale.
Stadio IV
Per questo stadio non può essere indicato un trattamento standard.
È consigliata la palliazione dei sintomi mediante varie opzioni terapeutiche:
• chirurgia palliativa
• radioterapia palliativa
• radiochemioterapia palliativa
Residuo di malattia
In caso di risposta non completa al primo trattamento curativo, lo standard è rappresentato dalla chirurgia demolitiva.
Qualora le dimensioni del residuo di malattia lo consentano, può essere effettuato un tentativo con sovradose di brachiterapia.
Recidiva locale
In caso di recidiva locale è indicata una chirurgia radicale demolitiva.
In alternativa, una chemioterapia con schema differente da quello
effettuato concomitante ad un ritrattamento radiante (anche con
brachiterapia se indicata) può essere effettuata in casi selezionati, al
fine di evitare una colostomia definitiva.
9.6 Esami di follow-up
Sono raccomandati i seguenti esami di follow-up (53)
Qualità della vita
La valutazione della qualità di vita riveste un importante ruolo nelle
misurazione del risultato terapeutico, soprattutto in considerazione
dell’impiego di trattamenti conservativi dell’organo e della sua
funzione.
Pertanto, è consigliabile l’impiego di questionari pertinenti (funzione sfinterica, funzione sessuale).
Direzioni future
Il trattamento radiochemioterapico concomitante rappresenta una ottima
applicazione di una strategia multimodale, volta alla preservazione
dell’organo e della sua funzione. Tuttavia, è ancora da definire quale
sia lo schema terapeutico migliore e restano aperti ancora diversi
problemi che, per quanto riguarda la radioterapia, sono fondamentalmente
volti all’ottimizzazione della tecnica di trattamento.
Un ulteriore miglioramento dei risultati potrà essere ottenuto grazie a:
– recenti progressi tecnologici che permetteranno l’individuazione dei
volumi con massimo rispetto degli organi critici in considerazione della
maggiore tossicità attesa dal trattamento concomitante;
– definizione del livello di dose adeguato;
– scelta della tecnica per l’effettuazione della sovradose sul volume
tumorale (con tutto lo spettro di controversie relative all’impiego
della brachiterapia);
– trattamento a dosi adeguate delle aree linfonodali clinicamente positive.
La migliore tollerabilità attesa dal perfezionamento della tecnica potrà
consentire, inoltre, di ridefinire il ruolo della pausa programmata,
correlato con il potenziale rischio di ripopolamento neoplastico.
Rimane ancora da valutare il ruolo della chemioterapia di mantenimento
sul controllo locale, incidenza di metastasi e sopravvivenza.
A questo proposito, due studi in corso (54,55) potrebbero dare in futuro nuovi orientamenti.
Studi volti a definire una migliore caratterizzazione biologica della
neoplasia potranno consentire di modulare le varie opzioni terapeutiche
per ciascun paziente, limitando così l’esposizione al rischio di
tossicità dei trattamenti multimodali.
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[/column][/box][box][column collapse_spacing=”yes” vertical_align=”top” auto_height=”yes” css=”border-top-width: medium; border-top-style: none; border-top-color: initial; border-right-width: medium; border-right-style: none; border-right-color: initial; border-bottom-width: medium; border-bottom-style: none; border-bottom-color: initial; border-left-width: medium; border-left-style: none; border-left-color: initial; padding-top: 0; padding-right: 0; padding-bottom: 0; padding-left: 0; ” width=”24″ last]
10.0 RUOLO DEL MEDICO DI MEDICINA GENERALE
10.1 Ruolo del Medico di Medicina Generale
10.2 Prevenzione, screening e diagnosi precoce
10.3 Diagnosi e stadiazione
10.4 Terapia
10.5 Follow-up
10.6 La dieta nel post-intervento e la gestione delle stomie
Direzioni future
Le linee guida sono un insieme di “raccomandazioni sviluppate in modo
sistematico per assistere operatori sanitari e pazienti nelle decisioni
sulla gestione appropriata di specifiche condizioni cliniche” (1). Vale a
dire: “raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un
processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni di
esperti, con lo scopo di aiutare medici e pazienti a decidere le
modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni
cliniche” (2,3). L’obiettivo di una linea guida è quindi quello di
migliorare l’intervento e la qualità dell’assistenza rispetto al
problema di cui si occupa. L’efficacia, invece, è connessa alla capacità
di applicazione della stessa ad un progetto “locale”, regionale o
nazionale condiviso. Per valutarne la realizzazione è necessario
individuare criteri di valutazione del percorso assistenziale e gli
indicatori di performance che permettano di stabilire se, come e quanto
dette linee guida siano state applicate alla pratica professionale
quotidiana nel territorio dove sono state poste in atto.
10.1 Ruolo del Medico di Medicina Generale
L’impegno del Medico di Medicina Generale (MMG) nella gestione delle
neoplasie spazia dalla prevenzione al farsi carico dei pazienti con
sintomi sospetti per neoplasia, con paure inerenti a queste patologie o
con rischio aumentato per familiarità o stile di vita personale. Il suo
intervento copre l’intero spettro della malattia dalla prevenzione alla
palliazione, compreso il supporto per gli aspetti psicologici e sociali
al malato ed ai suoi familiari (4,5). Il ruolo del MMG nella gestione
del cancro del colon-retto è fondamentale. Il suo coinvolgimento è
indispensabile in progetti volti a prevenire e trattare le patologie
neoplasiche dell’intestino. E’ essenziale che egli conosca i risultati
previsti per uno screening di popolazione per il tumore del colon-retto,
per una fattiva collaborazione al progetto. È utile poi che conosca i
tassi di incidenza e di mortalità di queste neoplasie nella popolazione
italiana e quale possa essere la frequenza di esse tra i suoi assistiti
durante l’arco della sua pratica professionale (Tabelle 1 e 2).
Tabella 1
Tabella 2
In attesa che siano definiti progetti nazionali di screening sulla
neoplasia del colon-retto da parte del SSN ed in tutte le realtà dove
non sia già stato coinvolto in progetti “locali”, al medico di famiglia
spetta sempre il duplice compito di vagliare per i suoi assistiti
interventi sia di “medicina di iniziativa” sia di “medicina di attesa
vigile” per la prevenzione ed il trattamento delle neoplasie
dell’intestino.
E’ compito del medico di famiglia individuare tra i suoi assistiti
quelli a rischio per l’insorgenza del tumore del colon-retto da avviare
alle opportune procedure di screening (“medicina di iniziativa”). Allo
stesso modo, spetta al MMG individuare i pazienti che presentano sintomi
compatibili con il sospetto di neoplasia del colon-retto ed avviarli
tempestivamente ad eseguire le indagini più appropriate
all’individuazione dell’eventuale neoplasia, per provvedere a mettere in
atto gli interventi più adeguati per controllare la progressione della
malattia (“medicina di attesa vigile”). Per la corretta messa in pratica
delle linee guida è fondamentale la stretta collaborazione tra MMG e
specialisti di riferimento nel territorio in cui il MMG opera, al fine
di ridurre il più possibile le inutili attese in fase di accertamento.
10.2 Prevenzione, screening e diagnosi precoce
I fattori ambientali che si associano ad un rischio aumentato di cancro
colorettale sono prevalentemente di tipo alimentare (soprappeso e
obesità, dieta ipercalorica, consumo di carni animali e di carni rosse).
La particolarità e la specificità del modello assistenziale svolto dal
MMG, che conosce profondamente l’ambiente, il tessuto sociale e il
contesto familiare in cui opera, lo rendono il più adatto a svolgere
un’opera capillare di counselling alimentare nei confronti dei propri
assistiti e delle loro famiglie. Infatti, spetta al medico di famiglia
il compito di informare sui regimi dietetici che possono favorire una
più bassa incidenza di tumori colorettali quale, in particolare, una
dieta ricca di verdura e frutta (preferibilmente consumate fresche),
cereali e legumi, carni bianche e pesce. Il suo ruolo è essenziale per
promuovere un regime dietetico di “tipo mediterraneo”, in
contrapposizione a quello “tipo fast-food” (con abbondante uso di cibi
poco raffinati e poveri di fibre insieme a grandi quantità di proteine e
grassi animali) che, spesso per esigenze lavorative, si sta sempre più
diffondendo anche nel nostro Paese.
Parimenti, possono risultare efficaci le sue raccomandazioni nel
controllo e nella riduzione del peso, non solo attraverso una dieta
adeguata, ma anche con la promozione di un’attività fisica costante.
Pertanto, risulta fondamentale l’impegno del MMG nella divulgazione del
“Codice Europeo contro il cancro” (9), con particolare attenzione alle
norme alimentari.
Detta azione, se eseguita in modo metodico, capillare e continuativo,
potrebbe contribuire nel medio-lungo periodo a modificare l’incidenza di
questa patologia.
Per raggiungere questo obiettivo, è fondamentale che la Medicina
Generale abbia una formazione specifica su questi temi e che collabori
in ciascun ambito territoriale con le Aziende Sanitarie, le associazioni
di malati e cittadini a contrastare il “rumore di fondo” fuorviante
prodotto da altre fonti di “pseudo-informazione sanitaria” in tema di
alimentazione (media, pubblicità, moda, ecc).
Un punto chiave dell’impegno del medico di famiglia nello screening del
tumore del colon-retto è quello di valutare il livello di rischio
individuale di ciascun dei suoi assistiti per questo tipo neoplasia.
Mentre è evidente, invece, che qualsiasi paziente che si presenti in
ambulatorio con sintomi o segni suggestivi per il sospetto di una
neoplasia del colon-retto deve sempre essere avviato con celerità ad
effettuare gli accertamenti diagnostici necessari a confermare o ad
escludere la neoplasia (10-13). Si può stimare che ad un MMG con 1.500
assistiti si presenti in media un caso all’anno di neoplasia colorettale
e 15 casi sospetti per patologia neoplastica del colon-retto (14). Si
noti che il valore predittivo positivo per tumore del colon-retto di un
sanguinamento rettale è meno di 1/1.000 nella popolazione generale, ma
diventa 1/50 in medicina generale e 1/3 per i pazienti inviati in
ospedale dal MMG (13,15).
Tre sono i fattori che influiscono in modo significativo sul rischio
individuale di neoplasia del colon-retto: età, storia clinica personale e
familiare. Ad essi il medico di famiglia deve porre attenzione per
definire una stratificazione del rischio tra i suoi assistiti,
selezionando quelli che necessitano di un intervento volto ad
evidenziare la presenza di una neoplasia silente, anche in assenza
dell’avvio di uno screening di popolazione nel territorio in cui opera.
Proprio l’esistenza di fattori di rischio individuali e familiari
consentono al MMG di fare un’azione attiva di prevenzione attraverso una
medicina di iniziativa nelle situazioni ritenute a rischio potenziale.
Un’azione di prevenzione ancora più aggressiva, ed in termini di
risultati più efficace, può essere fatta dal medico di famiglia nei
confronti di quei nuclei familiari a rischio, in caso si manifesti in un
soggetto una neoplasia colorettale di tipo genetico. In questo caso,
l’azione di informazione e promozione dello screening nel nucleo
familiare colpito è uno dei compiti più importanti dell’azione
preventiva che può svolgere efficacemente il MMG.
Inoltre, spetta al medico di famiglia la capacità di cogliere
all’interno di alcuni nuclei familiari l’insorgenza di situazioni di
allarme per una patologia neoplastica colorettale ad andamento
ereditario (cancro colorettale in più di una generazione senza salti,
insorgenza di tumore in uno o più familiari prima dei 50 anni,
prevalenza di localizzazione destra con più tumori sincroni o metacroni
come l’associazione di questa neoplasia a carcinomi dello stomaco,
endometrio, ovaio e dell’apparato urogenitale) monitorando attentamente
segni e sintomi indicativi di una possibile insorgenza di nuovi casi nei
familiari (vedi cap. 3).
In un’epoca in cui poi, la grande pressione dei media, (non sempre
giustificata dalle informazioni scientifiche disponibili) ed iniziative
locali su piccola scala suggeriscono o promuovono screening sul cancro
colorettale di dubbia utilità ed efficacia, è compito del medico di
famiglia informare correttamente i suoi pazienti sull’utilità ed
efficacia delle singole metodiche di screening.
In caso di progetti di screening qualificati, è compito del medico di
famiglia partecipare in modo attivo all’arruolamento dei soggetti
affinché, qualora venga avviato un progetto secondo criteri e metodiche
accreditate, si possa eseguire il test sulla maggior parte dei soggetti a
rischio. Inoltre, spetta al medico di famiglia contribuire a fornire
informazione oneste ed equilibrate relativamente a benefici e rischi di
ciascuna delle indagini proposte.
Alla luce delle attuali evidenze, non è né scientificamente né
eticamente giustificato che il MMG sottoponga indiscriminatamente a
screening per neoplasia colorettale, sulla base di una iniziativa
personale, tutti i suoi pazienti.
Invece, è altamente raccomandabile che lo faccia, qualora nella sua
attività si manifesti in un suo paziente una neoplasia che preconizzi un
rischio di ulteriori possibili casi di malattia nel nucleo familiare.
In questi casi, il MMG è l’unico professionista che, per il ruolo che
ricopre, può garantire un’azione mirata di screening che raggiunga tutti
i componenti della famiglia di quel paziente.
In questi casi, il suo ruolo è insostituibile sia nello spiegare
all’intero nucleo familiare la necessità dell’indagine (fornendo a
coloro che sono contrari o scettici le evidenze scientifiche che
supportano l’utilità di questo tipo di prevenzione in funzione di un
possibile rischio attuale o futuro), sia nel seguire che essa venga
eseguita da tutti i familiari a rischio potenziale.
Infine, di fronte ad un incremento di uso improprio delle risorse
sanitarie che porta spesso all’uso di marcatori tumorali già in fase di
screening, al di fuori di qualsiasi indicazione di letteratura
accreditata, è compito del medico di famiglia chiarire con i
prescrittori, con il paziente ed i suoi familiari, che i marcatori
neoplastici (CEA, Ca 19-9) non hanno alcuna utilità in questa fase (17)
(vedi Tabella 3).
Tabella 3
10.3 Diagnosi e stadiazione
E’ fondamentale che il MMG ponga attenzione al manifestarsi tra i suoi
pazienti di sintomi suggestivi per neoplasia colorettale e che scelga,
sulla base dei sintomi manifestati dal paziente, la procedura
diagnostica più adeguata.
In presenza di un sospetto di cancro colorettale, sulla base anche della
conoscenza della storia familiare del paziente, il medico di famiglia
prescrive le indagini diagnostiche di prima istanza, scegliendo tra le
metodiche disponibili quella più adeguata e realizzabile, tenendo conto
nella scelta di eventuali problematiche connesse all’esecuzione
dell’esame e, quando possibile, anche delle preferenze del paziente.
Poiché i 2/3 dei tumori colorettali si sviluppano nel tratto sigma-retto
è consigliabile che, in aggiunta alle metodiche di indagine sopra
indicate, il medico di famiglia sottoponga sempre il paziente, in caso
di sospetto, ad una esplorazione rettale (16) (vedi Tabella 3). Essa,
pur limitandosi al tratto distale dell’intestino, può essere in grado di
far diagnosi nel 10-15% dei casi. Detta indagine, vista la facilità di
esecuzione, l’assenza di controindicazioni e di effetti collaterali,
dovrebbe essere eseguita routinariamente una volta all’anno, durante la
visita ambulatoriale di medicina generale, in tutti i pazienti sopra i
50 anni.
E’ compito del medico di famiglia attivare le consulenze necessarie alla
definizione del caso sospetto e collaborare con lo specialista durante
tutta la fase di diagnostica e di stadiazione del caso (5,11). Definiti
il percorso più appropriato di indagine nei casi sospetti e quello
diagnostico da intraprendere in quelli positivi, è compito del MMG
informare e supportare il paziente ed i suoi familiari durante tutta la
fase di definizione diagnostica e stadiazione della malattia e
predisporre gli esami più opportuni propedeutici all’indagine che si
vuole intraprendere, quali ad esempio il controllo della coagulazione
preventivamente all’esecuzione della colonscopia, al fine di evitare una
seconda ripetizione dell’esame qualora si riscontrino polipi da
rimuovere.
Spetta al medico di medicina generale informare il paziente sulla
modalità di esecuzione degli esami proposti, suggerendo, quando
necessario, le procedure di preparazione e pulizia intestinale più
adeguate a rendere efficace l’esame ed assicurandosi che il paziente le
comprenda e le attui correttamente.
Le informazioni sulla diagnosi e sulla prognosi vanno modulate per ogni
singolo paziente tenendo conto della diversa sensibilità di ciascuno,
del desiderio o meno di sapere in tutto o in parte la diagnosi e della
capacità di comprendere. Le informazioni devono essere esposte in modo
semplice e chiaro ed in caso di prognosi severa devono essere fornite al
paziente, con i modi e nei tempi appropriati, le notizie che gli
consentano di comprendere la natura della sua malattia, gli obiettivi
del trattamento, i rischi e gli eventuali effetti collaterali, al fine
di consentirgli di fare le scelte lavorative ed esistenziali per lui più
utili, sollecitando al contempo la sua partecipazione alla gestione
della malattia. Esistono tecniche specifiche per comunicare le “cattive
notizie” (breaking bad news) e MMG, come gli specialisti, devono
conoscerle e saperle applicare in questa fase della malattia.
10.4 Terapia
Definita la diagnosi, spetta al MMG il compito di collaborare con gli
specialisti per informare il paziente sulla malattia riscontrata e
fornire tutte le informazioni sulle procedure terapeutiche che vengono
prospettate in base al tipo e alla fase di malattia (5). Particolarmente
per le neoplasie rettali, è importante che il riferimento del paziente
avvenga in strutture in cui è presente un Gruppo di Valutazione
Multidisciplinare.
E’ compito del medico di famiglia:
– spiegare la o le opzioni di trattamento proposte dallo specialista al
termine degli accertamenti e le relative modalità di esecuzione;
– fornire in modo semplice e completo tutte le informazioni relative
alle possibili sequele dovute ad ogni singolo trattamento, sia in
termini di probabilità di evento sia di possibilità di recupero;
– chiarire i dubbi, le perplessità ed i problemi avanzati dal paziente
al fine di renderlo consapevole della scelta terapeutica proposta e di
favorirne l’adesione una volta che si sia raggiunta una decisione
condivisa.
In caso di chirurgia “demolitiva” con confezionamento di ano
preternaturale, temporaneo o definitivo è compito del MMG assistere il
paziente dopo la dimissione ospedaliera, collaborando con lo specialista
a fornire tutte le informazioni necessarie per una corretta gestione
della stomia. Allo stesso modo, il MMG dovrà supportare il paziente
nella gestione psicologica della stomia stessa e dei problemi ad essa
connessi.
In caso di trattamento farmacologico, il medico di famiglia collaborerà
con lo specialista al fine di garantire un’ottimale aderenza del
paziente al protocollo di cura proposto e vigilerà sulla possibile
insorgenza di effetti collaterali previsti nel protocollo stesso,
gestendo, in collaborazione con il centro di riferimento, i possibili
effetti tossici iatrogeni. E’ quindi importante un’integrazione tra
specialisti e MMG per migliorare le reciproche conoscenze sui vari
aspetti della gestione del malato.
10.5 Follow-up
La fase di follow-up di una malattia neoplastica è un momento essenziale
del controllo della patologia stessa, che ancora oggi non sempre viene
eseguita al meglio delle sue possibilità. Un attento follow-up può
contribuire a cogliere eventuali recidive nella loro fase più precoce.
E’ quindi importante che i pazienti si sottopongano con puntualità agli
esami che le evidenze disponibili e la buona pratica clinica prevedono
per la loro condizione clinica. In questa fase, così come già in quella
diagnostica, la collaborazione tra specialista e MMG è fondamentale (5).
Un attento coordinamento tra la medicina primaria e quella di secondo
livello, che produca una sostanziale collaborazione nella gestione del
paziente, è essenziale per una buona riuscita dei protocolli di
follow-up. E’ importante infatti che tra i vari soggetti che
contribuiscono al controllo del paziente nel tempo, esista un buon
livello di coordinamento e di integrazione, al fine di evitare inutili e
ansiogeni duplicati di visite o di controlli ematochimici o
strumentali.
Il MMG deve quindi:
– conoscere i diversi protocolli di follow-up proposti sulla base del
tipo e della stadiazione iniziale della malattia e collaborare con gli
specialisti nella loro gestione;
– promuovere l’adesione del paziente ai controlli seriati previsti dal
protocollo di follow-up in cui è inserito, motivando l’importanza di
rispettare le scadenze predefinite, al fine di cogliere, in modo
precoce, eventuali recidive;
– mantenere un atteggiamento di sorveglianza vigile,nei confronti di
segni o sintomi “sospetti” (per recidiva locale o a distanza) che si
possono manifestare nel periodo intercorrente tra un controllo di
follow-up e quello successivo e mettere in atto gli accertamenti e le
consulenze opportuni a diagnosticare precocemente un’eventuale recidiva;
– informare il paziente sull’inutilità, in assenza di nuovi eventi
clinici, di ulteriori controlli ematochimici o strumentali (richiesti
per paura di una possibile ripresa della malattia) non previsti nel
protocollo di follow-up;
– gestire le ansie connesse alla possibilità di una nuova manifestazione di malattia.
Infine, esiste un altro aspetto in cui la collaborazione tra MMG e
specialista risulta essenziale. Molti pazienti con neoplasia colorettale
diventano, dopo trattamento chirurgico curativo o palliativo, portatori
di stomia. La gestione della stomia non è un problema di secondaria
importanza, in un paziente operato per neoplasia colorettale.
E’ quindi fondamentale che il MMG acquisisca le competenze di base nella
gestione delle stomie, al fine di consigliare al meglio i propri
pazienti. E’ altresì importante che si crei, e venga mantenuto nel
tempo, un buon livello di coordinamento e di cogestione del paziente
stomizzato tra il MMG, il chirurgo che lo ha operato ed i Centri
specialistici per stomizzati.
10.6 La dieta nel post-intervento e la gestione delle stomie
Ci sono due aspetti che sono importanti nella riabilitazione dopo una chirurgia dell’intestino:
1 dieta da seguire dopo la dimissione ed al rientro a domicilio.
Un’informazione attenta, precisa e dettagliata sul regime dietetico da
seguire sia nelle prime fasi successive all’intervento, ma anche dopo la
dimissione dall’ospedale nella vita di tutti i giorni è giudicato un
elemento centrale per ridurre l’ansia del paziente dopo il trattamento
chirurgico e per favorire la ripresa di una vita normale (18);
2 gestione delle stomie. Per quei pazienti che abbiano subito una
chirurgia più demolitiva con il confezionamento di una stomia temporanea
o definitiva, i problemi connessi alla presenza e alla gestione di
quest’ultima rivestono una notevole importanza nell’evitare che si
manifestino situazioni di ansia, disagi e danni, o che l’accettazione
della stomia stessa diventi più difficile e problematica nonostante il
necessario supporto psicologico. È quindi importante che il paziente
venga aiutato fin dall’inizio da personale esperto che possa insegnargli
la gestione di questo “corpo estraneo”, promuovendo, con un opportuno
tirocinio pratico, nel più breve tempo la sua gestione autonoma. Il
paziente va informato e addestrato a prendersene cura correttamente e
devono essergli fornite tutte le informazione per affrontare senza
affanno la gestione dei possibili inconvenienti connessi alla sua
manutenzione. Personale infermieristico con competenze gestionali
specifiche insegnerà al paziente le corrette procedure per la pulizia
della stomia, ne verificherà di tanto in tanto la corretta applicazione e
si renderà disponibile per aiutare a risolvere i problemi che potranno
comparire (19).
Anche per quanto riguarda la gestione della dieta nel paziente operato
per neoplasia del colon-retto come per l’accettazione e la gestione
delle stomie, l’aiuto del medico di famiglia opportunamente formato è
importante come supporto al lavoro degli infermieri e degli psicologi. È
auspicabile che, in un futuro prossimo, la realizzazione di unità di
cure primarie territoriali preveda la presenza per un congruo numero di
ore di infermieri dedicati all’ambulatorio di medicina generale con
competenze specifiche che affianchino e collaborino con il medico di
medicina generale a fornire un adeguato supporto a pazienti per questo
tipo di problemi. La presenza di materiale informativo a riguardo,
redatto dal medico di famiglia e consegnato direttamente al paziente
durante la visita in ambulatorio, può essere utile ed efficace.
Altrettanto utile sarebbe, come avviene all’estero (20-22), la
produzione di materiale, da parte di Società Scientifiche accreditate o
di Enti Pubblici, sia audiovisivi sia di divulgazione scientifica su
questi temi, realizzato anche con la partecipazione di MMG ed
infermieri.
Direzioni future
Con l’aumentare della consapevolezza e del riconoscimento del ruolo del
MMG nel controllo delle neoplasie, in molti Paesi si sta cominciando ad
inserire in modo sempre più frequente la figura del MMG nei progetti di
politica sanitaria, nei gruppi di ricerca e tra i gruppi di lavoro per
la produzione di linee guida (16). Questo nuovo atteggiamento coglie
finalmente un punto fondamentale che riguarda la gestione di percorsi
complessi relativamente alla salute sia a livello preventivo sia
diagnostico e curativo. È ormai sempre più evidente che esiste la
necessità di una progettualità condivisa tra tutti gli attori che
affrontano a diverso titolo il percorso sia della prevenzione, sia dello
screening finalizzato sia del trattamento della patologia neoplastica.
Questo proprio per le specifiche peculiarità del MMG e per il suo ruolo
in ambito territoriale e familiare come riferimento cardine per il
paziente ed i suoi cari, quando si trovano a fronteggiare crocevia
esistenziali (problematiche acute, malattie cronico-degenerative,
cancro). È la sua presenza costante per lunga parte del corso della vita
di un paziente e del suo nucleo familiare che lo rende attore presente e
vigile del decorso della malattia, ed osservatore unico e privilegiato
della sua evoluzione. Il MMG viene quasi sempre coinvolto nel processo
informativo e decisionale dalla diagnosi e cura fino alle fasi terminali
della malattia, in presenza di malattia inguaribile. È evidente che
dispone quindi di atout unici per la gestione delle cure. È infatti
essenziale, al fine di un’efficace realizzazione di un progetto,
prevedere percorsi condivisi ed interfacce di dialogo e collaborazione
tra tutti i professionisti della sanità a vario titolo coinvolti nei
progetti di screening e nella successiva fase diagnostica per i soggetti
con sospetta patologia neoplastica. Molti progetti hanno finora fallito
nella loro realizzazione pratica nonostante le ambizioni e la qualità
delle premesse e della programmazione proprio per la carenza di una
programmazione di progetto adeguata. La realizzazione infine di Unità di
Cure Primarie Territoriali con la presenza di infermieri per un congruo
numero di ore e con formazione specifica per operare negli ambulatori
di medicina generale, così come la presenza di personale di segreteria
come già avviene da molti anni all’estero negli ambulatori dei medici di
famiglia sono altri due elementi essenziali. Essi rendono realistica e
fattibile da una parte la partecipazione e la concreta collaborazione ad
eventuali progetti di screening e dall’altra permettono una gestione
più efficace dei casi sospetti e del follow-up di pazienti con neoplasia
riconosciuta e sottoposta a trattamento. Il personale di segreteria e
gli infermieri che operano nello studio di medicina generale rendono
infatti possibile informare i pazienti sulle scadenze da rispettare,
collaborano a calendarizzarle e possono contattare gli assistiti per
ricordare loro l’appuntamento programmato e sollecitarlo in caso di
dimenticanza. Investire in progetti specifici sia a livello formativo
sia gestionale con opportuni finanziamenti finalizzati e vincolati è un
passo fondamentale per passare dalla teoria alla pratica, favorendo
magari anche screening opportunistici da parte del MMG verso pazienti
che si recano in ambulatorio per altri motivi (23).
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