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Tumori del pancreas

Tumori del pancreas

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1.0 EPIDEMIOLOGIA E FATTORI DI RISCHIO

Il carcinoma pancreatico presenta un basso tasso di incidenza in quasi tutte le popolazioni e pertanto

viene considerato un “cancro orfano”. Questa patologia sarebbe di scarso interesse se il tasso di mortalità

non fosse così elevato. Inoltre, poiché il tasso di mortalità si avvicina a quello di incidenza, il cancro

pancreatico (CP) rappresenta la quarta o quinta causa più comune di morte per tumore, nella maggior

parte dei Paesi occidentalizzati. Alla fine degli anni ’90, la stima del numero di tumori pancreatici in tutto il

mondo era di 110.000 (1). Purtroppo, la maggior parte dei pazienti affetti da questa patologia muore a

causa della malattia e, per coloro che sopravvivono più a lungo, una diagnosi errata può essere un

problema (2). Grazie alla chirurgia, circa il 20% dei pazienti sopravvive a 5 anni, ma solo il 20% dei

pazienti può essere sottoposto alla resezione del pancreas.

Fattori demografici
Nei Paesi occidentali, l’età media dei pazienti alla diagnosi è di circa 70 anni e, come per quasi tutti gli

altri tumori diagnosticati in età adulta, i tassi di incidenza e mortalità sono fortemente in relazione all’età.

Solo circa il 5-10% dei pazienti sviluppa il cancro al pancreas prima dei 50 anni. Questo gruppo potrebbe

però comprendere pazienti affetti da un disturbo genetico congenito. La probabilità cumulativa di

sviluppare un tumore del pancreas nell’arco della vita è di circa l’1% negli uomini ed un po’ più bassa nelle

donne. Sembra ci sia correlazione minima, se non nessuna, con fattori di rischio ormonali legati al sesso

(3), mentre il fumo è il principale fattore responsabile per gli elevati tassi osservati nella popolazione

maschile.
Sono state riscontrate notevoli differenze razziali nella frequenza di cancro del pancreas, con percentuali

sensibilmente superiori nei neri rispetto ai caucasici, mentre le percentuali più basse sono state registrate

in alcune popolazioni asiatiche. I motivi non sono chiari: le differenze nel numero di fumatori non spiegano

l’elevato tasso di tumore pancreatico nei neri, tuttavia ci potrebbero essere differenze genetiche in

relazione alla razza nel processo di detossificazione delle sostanze carcinogeniche prodotte dal tabacco.

Un altro fattore importante potrebbe essere l’elevata prevalenza di insufficienza di vitamina D nella

popolazione nera (4).

Distribuzione globale
La distribuzione del cancro pancreatico mostra una curiosa distribuzione geografica, con tassi più alti

osservati man mano che ci si allontana dall’equatore (5). Ciò potrebbe essere correlato ai bassi livelli di

vitamina D, fortemente legato all’esposizione alla luce del sole e ai raggi ultravioletti (6,7). I tassi di

mortalità in Italia sono intermedi rispetto agli altri Paesi europei (Tabella 1) con la presenza di variazioni tra

Nord e Sud, più elevati nell’Italia settentrionale, intermedi nell’Italia centrale e bassi nell’Italia meridionale

(Tabella 2).

Tabella 1 Tumore pancreatico: numero stimato di casi, decessi, tassi standardizzati (standard europeo)

per 100.000 abitanti. Età: 0-84. Anno 2006

Tabella 2 Mortalità per tumore al pancreas in Italia nel 2002: numero di decessi, tasso di mortalità per

100.000 abitanti. Età: 0-84

Time trend
Con l’aumentare della durata della vita, la frequenza assoluta di questa patologia è destinata ad

aumentare. Questo avviene soprattutto in Cina, India e nelle Regioni asiatiche dove le popolazioni stanno

invecchiando. Un altro fattore che porta ad un aumento del numero di casi in queste regioni è che, al

contrario dei Paesi occidentali, sempre più persone iniziano a fumare (8). In Italia, mentre i tassi

standardizzati per età sono stati relativamente stabili negli ultimi 20 anni, il numero di morti è raddoppiato

a causa dell’invecchiamento della popolazione (Figura 1).

Figura 1 Mortalità per tumore al pancreas in Italia: 1980-2002: numero di decessi, tasso standardizzato

(popolazione mondiale) di mortalità per 100.000 abitanti. Età: 0-84

Fumo
L’associazione tra fumo e cancro del pancreas è stata dimostrata da quasi tutti gli studi pubblicati a partire

dal 1966 (9). Sebbene tale associazione non sia così forte come per il cancro del polmone, in cui vi è

contatto diretto tra tessuto polmonare e prodotti del tabacco, il fumo di sigaretta è responsabile di circa il

70-100% di aumento del rischio di cancro pancreatico. Il fumo rimane un fattore di rischio modificabile:

dopo aver smesso di fumare, il rischio diminuisce gradualmente, senza però ritornare ai livelli di base

prima di almeno dieci anni (10). Anche il tabacco da pipa e sigari aumenta il rischio di tumore pancreatico

e recenti studi hanno indicato anche il tabacco da masticare come fattore di rischio (11). Sulla base della

frequenza del fumo nella popolazione, il rischio attribuibile a questo fattore di rischio (cioè la riduzione

complessiva delle percentuali di tumore pancreatico se il fumo fosse completamente eliminato) è di circa il

25%.

Alcool
L’alcool è un noto fattore di rischio per tumori insorti in diversi organi, compreso l’esofago ed il fegato, ma

può essere un fattore di rischio anche per cancro del pancreas? Poiché esiste una forte relazione tra fumo

ed alcool, ogni rischio attribuito/correlato all’alcool può essere causato da fattori di confondimento legati al

fumo. La maggior parte degli studi non hanno evidenziato una relazione tra alcool e tumore pancreatico o

solo una lieve associazione probabilmente dovuta a fattori di confondimento da parte del fumo (12,13). In

una recente analisi di 14 studi è stata riscontrata solo una bassa associazione per i soggetti appartenenti

alla categoria di consumo più elevata di alcool, e solo nelle donne (14).

Alimentazione
Esistono naturali differenze nelle abitudini alimentari a livello regionale e nazionale, per cui spesso si tende

ad attribuire all’alimentazione parte delle differenze osservate nella frequenza di questa patologia tra i

diversi Paesi. E’ comunque difficile definire un legame tra alimentazione e cancro a causa di problemi

metodologici nella raccolta e valutazione delle informazioni sulle abitudini alimentari. In studi di coorte, le

informazioni di tipo alimentare raccolte prima della comparsa dei sintomi si sono dimostrate migliori

rispetto agli studi caso-controllo. Tuttavia, negli studi di coorte, non è stato dimostrato che l’alimentazione

sia costante nell’intervallo di tempo che intercorre tra la raccolta dei dati e la diagnosi del tumore.
Diversi studi suggeriscono che monitorando il consumo calorico complessivo e/o l’obesità si può

prevedere l’insorgenza del tumore pancreatico (15-18). Il meccanismo può essere costituito

dall’insorgenza diretta o indiretta del tumore per mezzo di un legame tra obesità e risposte infiammatorie

(19). E’ stato più difficile trovare un particolare responsabile tra i tanti e diversi prodotti alimentari. Ad

esempio, un elevato contenuto glicemico causato da eccesso di carboidrati non sembra portare a questa

patologia (20-22). Una maggiore assunzione di proteine è stata considerata un fattore di rischio in alcuni

studi, ma non ha trovato conferma in altri (23).
Sembra che i flavonoidi, antiossidanti naturali ampiamente presenti nelle piante, riducano il rischio di

alcuni tumori. Non ci sono evidenze sufficienti che dimostrino che questi possono agire come fattori di

protezione alimentare nel CP (24,25).
Negli Stati Uniti, circa la metà della popolazione adulta consuma vitamine supplementari. Queste sostanze

od altri micronutrienti possono avere un ruolo nel ridurre il rischio di cancro del pancreas? Diversi studi

hanno esaminato i folati, che possono svolgere un modesto ruolo di protezione, in particolare nei fumatori

(26-29). Anche la vitamina D può proteggere contro il tumore del pancreas per il suo ruolo di supporto nel

metabolismo del calcio od attraverso altri meccanismi. E’ difficile una valutazione precisa del ruolo della

vitamina D, per la possibile interferenza con la luce del sole e con l’alimentazione; tuttavia, alcuni studi

sostengono un suo effetto protettivo (6,30).
Secondo alcuni ricercatori un altro micronutriente, la metionina, potrebbe avere un ruolo protettivo contro il

tumore pancreatico (26,31,32). La metionina, un aminoacido essenziale che contiene zolfo, è presente

nella carne, nel pesce e nei legumi. L’interazione tra metionina ed altri componenti alimentari come i folati,

può ridurre ancor più il rischio di questo tipo di tumore (32).

Obesità ed attività fisica
Tra i potenziali fattori di rischio modificabili, una particolare attenzione merita l’obesità. In due recenti studi

sistematici e meta-analisi di studi osservazionali prospettici, l’aumento dell’indice di massa corporea

(IMC) è stato correlato ad un aumento del rischio di CP (33,34). Questa correlazione, confermata in studi

recenti, sembra essere lievemente maggiore nelle donne (35,36). Pochi sono gli studi volti a confermare il

ruolo dell’obesità centrale, quali la circonferenza del giro vita e del rapporto giro vita-fianchi, l’insulina e la

resistenza all’insulina sull’insorgenza del cancro del pancreas (35,37). Infine, i risultati sull’associazione

tra attività fisica e rischio sono molto contraddittori (36-38).

Diabete
Il diabete, uno dei disturbi cronici più comuni nelle popolazioni occidentalizzate, rappresenta un fattore di

rischio e studi caso-controllo e prospettici hanno dimostrato un aumento del rischio di tumore pancreatico

in pazienti affetti da diabete di tipo II (39,40). Una meta-analisi di studi condotta su pazienti affetti da

diabete da lungo tempo (> 10 anni) ha rilevato un aumento del 50% di rischio di tumore pancreatico (41).

L’eccessiva assunzione di carboidrati od il complessivo contenuto glicemico non sembrano essere

associati a questa patologia (23).
I medici sono consapevoli del fatto che l’improvvisa ed inaspettata insorgenza del diabete possa essere

un sintomo precoce di tumore del pancreas (42). L’insorgenza del tumore pancreatico subito dopo

l’insorgenza del diabete è un esempio di inversione di causalità, ma non indebolisce il rapporto del

diabete da lunga durata e rischio di sviluppare successivamente un CP.
Recentemente, è stato analizzato l’impatto della terapia per il diabete sull’insorgere di cancro pancreatico

ed è stato riportato che la metformina, un agente antidiabetico orale, sembra associata ad una

diminuzione del rischio di tumore del pancreas (43).

Pancreatite
In molti organi, una malattia benigna si è trasformata nel tempo in patologia tumorale, quindi non è

sorprendente che molti studi abbiano dimostrato come la pancreatite cronica rappresenti un fattore di

rischio per il cancro del pancreas. In un ampio studio retrospettivo condotto su pazienti affetti da

pancreatite cronica, escludendo quelli con malattia diagnosticata entro i 4 anni precedenti l’insorgenza di

cancro pancreatico, è stato riscontrato un rischio di tumore 13.3 volte più elevato. Questo risultato è stato

confermato in molti altri studi (44-46). Tuttavia, la pancreatite cronica è una patologia rara e risulta che la

frequenza cumulativa di tumore pancreatico, a 20 anni dalla diagnosi di pancreatite cronica, sia solo di

circa il 5%. Pertanto la pancreatite rappresenta una causa relativamente minore di CP.
L’associazione tra pancreatite e CP è particolarmente elevata in pazienti affetti da una rara forma

dominante ereditaria autosomica di pancreatite, la cui insorgenza si verifica durante o subito dopo

l’infanzia. In questo caso, il rischio di insorgenza è di circa 50 volte maggiore ed il rischio nell’arco della

vita è di circa il 40-55% (47-49).

Allergie
Molti sono i tipi di allergia ed una valutazione accurata delle relazioni tra questa variabile e la comparsa del

cancro risulta problematica. Tuttavia, in numerosi studi è stato riscontrato che le allergie contribuiscono a

ridurre il rischio di tumore del pancreas (50-53). L’ipotesi avanzata in questi studi è che il sistema

immunitario iperattivo in persone allergiche porta ad una maggiore sorveglianza e protezione contro lo

sviluppo di cellule tumorali pancreatiche (54).

Patologie periodontali
In tre studi clinici, la perdita di denti o malattie periodontali sono state associate ad un aumento del rischio

di tumore pancreatico (55). L’associazione sembra essere indipendente da altri fattori noti, come il fumo,

ma non tutti gli autori sono stati in grado di aggiustare le stime per la presenza di diabete, che costituisce

un importante fattore di rischio per le malattie periodontali.

Gruppi sanguigni
In un ampio studio prospettico, su circa un milione di persone/anni di osservazione, è stata osservata una

correlazione tra gruppo sanguigno e tumore del pancreas (56). In accordo con diversi studi minori

precedenti, avere un gruppo sanguigno di tipo non-O sarebbe responsabile del 17% dei tumori

pancreatici. L’esatto meccanismo che collega il cancro del pancreas ai gruppi sanguigni non è ancora

noto.

Infezioni
Il pancreas è soggetto a malattie virali (parotite) ed infezioni batteriche (salmonella enterica e salmonella

typhi), che possono causare episodi di pancreatite acuta. Perciò, è stata avanzata l’ipotesi che un certo

numero di tumori pancreatici potrebbe essere conseguente ad infezioni virali o batteriche. In due studi è

stata rilevata un’associazione con le infezioni da epatite B o C. In particolare, il legame risulta più forte nei

casi di epatite B (57,58). Contraddittori sono invece i risultati sulla possibile associazione tra infezione da

Helicobacter pylori e tumore pancreatico (59-61).

Farmaci
Aspirina ed agenti anti-infiammatori non-steroidei sono ampiamente utilizzati nelle terapie farmacologiche.

Questi farmaci dovrebbero ridurre il rischio di alcuni tumori gastrointestinali, ma non vi sono evidenze

convincenti che diminuiscano anche il rischio di tumore pancreatico (62-68).
E’ stato ipotizzato che le statine, una classe di farmaci usati per abbassare il livello di colesterolo,

svolgano un ruolo chemopreventivo per il cancro pancreatico. Tuttavia, i risultati disponibili sono

discordanti e non supportano un ruolo protettivo (69,70).

Suscettibilità genetica
Con il completamento del progetto genoma umano, si è assistito ad una crescente attenzione per la

genetica del cancro pancreatico familiare e sporadico. L’insorgenza del CP può essere associata a varie

sindromi tumorali familiari attribuite a mutazioni ereditarie presenti in geni specifici (71), mentre la

suscettibilità al cancro pancreatico sporadico può essere parzialmente attribuita a polimorfismi di geni che

codificano per enzimi metabolizzanti tabacco ed alimenti, così come a geni coinvolti nella riparazioni del

DNA.

Malattie genetiche ereditarie
Sebbene non sia stato ancora riconosciuto il difetto genetico responsabile della maggior parte dei casi di

carcinoma pancreatico familiare, sta aumentando la lista delle malattie associate alla mutazione della linea

germinale che aumentano notevolmente il rischio di tumore pancreatico (Tabella 3). Queste sindromi sono

definite in primo luogo da un fenotipo clinico, in cui il CP non è il primo fenotipo. Queste sindromi

comprendono: la sindrome multipla atipica familiare del melanoma (Familial Atypical Multiple Mole

Melanoma, FAMMM), la sindrome di Peutz-Jeghers (PJS), la pancreatite ereditaria (HP), il cancro

colorettale ereditario non poliposico (HNPCC), la sindrome di carcinoma familiare della mammella e

dell’ovaio (FBOC), la fibrosi cistica (FC), la poliposi adenomatosa familiare (FAP), l’atassia telangiectasia

(AT) e l’anemia di Fanconi (FA). La maggior parte delle malattie sono ereditate secondo un modello di

trasmissione autosomica dominante, fatta eccezione per FC, AT e FA, che sono malattie autosomiche

recessive. Il termine carcinoma pancreatico familiare (FPC) è usato nel contesto delle famiglie con almeno

due parenti di primo grado affetti da adenocarcinoma pancreatico duttale, in assenza di un accumulo di

altri tumori o di altre malattie ereditarie. Altre patologie, come la neoplasia endocrina multipla di tipo 1

(MEN-1), la malattia di Von Hippel-Lindau (VHL) e malattie rare, quali la neurofibromatosi di tipo 1 e la

sclerosi tuberosa, sono state associate ai tumori neuroendocrini del pancreas. Secondo alcuni, molte di

queste mutazioni germinali aumentano il rischio di insorgenza precoce di cancro al pancreas, in

particolare se correlate al fumo (72).

Tabella 3 Fattori genetici per il tumore al pancreas

Polimorfismi genetici
Sono stati studiati molti polimorfismi genetici come potenziali fattori di rischio per la suscettibilità a questa

patologia. Sono state riportate correlazioni con polimorfismi di geni coinvolti in processi metabolici

(MTHFR, GSTP1, NAT1, NAT2, TS e UGT1A7) o di riparazione del DNA e polimorfismi genetici (ATM,

LIG3, XPF e XRCC3). Tali studi necessitano però di ulteriori conferme. In termini di suscettibilità ai tumori,

nella maggior parte dei polimorfismi genetici, vi è bassa penetranza ed un rischio relativo ridotto (1.5-2.0).

Tuttavia, la proporzione dei casi sporadici attribuibili a geni polimorfici può essere elevata, in quanto è

altrettanto elevata la frequenza degli alleli “a rischio” nella popolazione.

Conclusioni
Il CP è il più raro tra le neoplasie dell’apparato gastrointestinale, preceduto solo, come rarità, dai

carcinomi dell’intestino tenue.
La posizione remota del pancreas, la mancanza di uno specifico marcatore diagnostico, la difficoltà di

stabilire la diagnosi tissutale, la natura aggressiva dell’adenocarcinoma pancreatico, la scarsa risposta a

chemio e radioterapia sono tutti fattori che contribuiscono all’aumento dei tassi di mortalità. Le strategie

preventive finora note sono limitate a ridurre l’esposizione al fumo e mantenere il peso corporeo normale.

Inoltre, il consumo di sufficienti quantità di frutta e verdura sembra un obiettivo ragionevole, anche in

assenza di forti prove epidemiologiche. Attualmente, malattie genetiche ereditarie spiegano solo il 5-10%

del totale dei casi di CP. Ulteriori ricerche dovrebbero essere svolte in modo da fornire una spiegazione

per le notevoli differenze razziali nella frequenza, individuare la sorprendente correlazione con il gruppo

sanguigno e l’eventuale relazione del cancro pancreatico a virus oncogenici, validare i tanti apparenti

polimorfismi che sono stati provvisoriamente individuati come fattori di rischio.

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2.0 ANATOMIA PATOLOGICA

2.1 Carcinoma duttale
2.2 Precursori del carcinoma invasivo
2.3 Carcinoma a cellule acinose
2.4 Pancreatoblastoma
2.5 Neoplasie sierose cistiche
2.6 Tumore solido-pseudopapillare
2.7 Campionamento del pezzo operatorio e stadiazione

Le neoplasie pancreatiche si distinguono in base alle loro caratteristiche morfologiche, fenotipiche e molecolari.
Queste proprietà riflettono la tendenza alla differenziazione nella
direzione di una o più delle tre linee di differenziazione,
riscontrabili nel pancreas normale: duttale, acinare ed endocrina (1).
Le neoplasie pancreatiche endocrine sono state trattate in maniera
approfondita nel volume ad esse dedicate: NET-GEP 2009, reperibile nel
sito www.alleanzacontroilcancro.it.
La differenziazione di linea è l’elemento cruciale che determina sia le
caratteristiche biologiche sia il comportamento clinico di una
determinata neoplasia pancreatica (2). Esiste tuttavia una notevole
discrepanza tra la prevalenza del carcinoma duttale (90%) e del
carcinoma acinare (1%) e la percentuale di cellule acinari (80%) e
duttali (5-10%) presenti nel pancreas normale (3). Tale discrepanza
trova oggi spiegazione con l’ipotesi di una derivazione comune da
cellule staminali, che si localizzerebbero nel comparto “duttale” (4-7).
Nella classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Tabella
1), le neoplasie del pancreas sono distinte in tre gruppi a
comportamento biologico differente: benigno, ad incerto potenziale di
malignità ed a comportamento maligno (8).

Tabella 1 Classificazione istologica dei tumori del pancreas esocrino (WHO)

2.1 Carcinoma duttale

Il carcinoma duttale del pancreas è stato definito il “killer
silenzioso” per il suo decorso silente e per il successivo comportamento
esplosivo ed altamente letale (9).
Circa il 10% dei carcinomi pancreatici si sviluppa in pazienti
geneticamente predisposti (10-12) e può essere associato a diverse
sindromi genetiche familiari (10-13) (vedi cap. 1, Tabella 3).
Il carcinoma della testa pancreatica, che rappresenta due terzi dei
casi, presenta dimensioni medie sensibilmente inferiori (2-3 cm),
rispetto ai più rari carcinomi del corpo-coda (5-7 cm).
Macroscopicamente, è di solito caratterizzato da una massa solida, a
margini infiltrativi, di colorito biancastro e consistenza duro-lignea.
Più raramente, può presentare un aspetto disomogeneo e talora “cistico”
per l’effetto di modificazioni regressive, di tipo necrotico-emorragico.
Il carcinoma della testa pancreatica si associa di solito a stenosi del
coledoco terminale e del dotto di Wirsung e, nelle fasi avanzate, può
estendersi alla papilla di Vater ed infiltrare il duodeno. Il carcinoma
del corpo e della coda tende invece ad invadere il retroperitoneo, lo
stomaco, il colon, l’omento, la milza ed i surreni.
Microscopicamente, il carcinoma del pancreas è caratterizzato dalla
presenza di strutture simil-duttali disperse in una ricca matrice
stromale desmoplastica (1). La componente ghiandolare ricalca, in misura
variabile, i caratteri dell’epitelio colonnare dei dotti pancreatici,
ma non possiede caratteri distintivi rispetto all’epitelio del sistema
biliare o della papilla di Vater.
Il grading della neoplasia, basato su criteri citoarchitettonici, prevede tre gradi (14):

G1, presenza di strutture tubulari ben differenziate;

G2, strutture tubulari moderatamente differenziate;

G3, strutture ghiandolari scarsamente differenziate.

La reazione desmoplastica conferisce alla neoplasia una consistenza
lignea ed in casi particolari un aspetto definito a “cicatrice”. La
desmoplasia induce una considerevole riduzione del letto vascolare, che
costituisce uno dei segni utili per la diagnosi differenziale
radiologica tra tessuto normale e carcinoma. Carattere questo che, nella
pratica clinica, è reso meno evidente dalle concomitanti modificazioni
fibrose che si instaurano nel parenchima pancreatico peritumorale
(pancreatite cronica ostruttiva).
I caratteri immunoistochimici più rilevanti ricalcano il fenotipo della
cellula duttale, con la positività per CEA, CA19-9, DUPAN-2, per le
citocheratine 7,8,18,19 e, solo raramente, per la citocheratina 20. In
particolare, le cellule tumorali esprimono le apomucine MUC1 e MUC5AC
(segno di transdifferenziazione gastrica) (15,16).
Più recentemente è stata riportata la positività per diversi tipi di
proteine S100, per la mesotelina, l’antigene staminale prostatico, la
claudina 4 e 18 (17). In particolare, la perdita della proteina DPC4 è
stata correlata con una prognosi peggiore (18).
Le anomalie molecolari sono trattate in esteso nel capitolo 3; basti qui
ricordare che quelle più note e caratteristiche del carcinoma duttale
del pancreas (19) comprendono l’attivazione mutazionale dell’oncogene
K-ras, prerequisito essenziale per lo sviluppo di questo carcinoma e
presente già a partire dalle modificazioni iperplastiche (in cui è
riscontrata nel 30% dei casi) e l’inattivazione dei geni tumorali
soppressori p16INK4a in gran parte dei casi e di p53 e DPC4/SMAD4 in circa la metà dei casi.

Varianti istologiche
Sono considerate varianti istologiche quelle neoplasie che presentano
una seppur minima componente di adenocarcinoma duttale classico (1).
Sono essenzialmente rappresentate da:

carcinoma mucinoso non-cistico, caratterizzato da una
massiccia produzione di muco e da una componente papillare mucinosa
intraduttale, più o meno evidente (20);

carcinoma adenosquamoso, caratterizzato da aspetti misti
adenocarcinomatosi, di carcinoma squamoso e con frequenti aree
simil-sarcomatose e comportamento clinico estremamente aggressivo;

carcinoma indifferenziato, neoplasia costituita da una popolazione neoplastica che non mostra distinta differenziazione verso strutture riconoscibili;

carcinoma indifferenziato a cellule giganti di tipo similosteoclastico,
caratterizzato dalla presenza di una componente epiteliale neoplastica
costituita da elementi mononucleati e da una componente reattiva di
cellule giganti simil-osteoclasti (21);

carcinoma a cellule chiare, composto prevalentemente da
cellule pleomorfe a citoplasma chiaro ricco di glicogeno, talora
associato ad una componente intraduttale (22);

carcinoma a cellule mucosecernenti ad anello con castone,
costituito da una prevalenza di cellule mucosecernenti; la diagnosi
differenziale con un carcinoma gastrico o mammario deve sempre essere
considerata prima di formulare la diagnosi di primitività pancreatica;

carcinoma misto duttale-endocrino, caratterizzato dalla
presenza di una componente endocrina > 30%, strettamente commista
alla componente ghiandolare neoplastica, positività viceversa per le
mucine;

carcinoma “midollare”, caratterizzato da crescita espansiva,
da spiccato infiltrato infiammatorio peritumorale e da scarsa
differenziazione cellulare. Altre caratteristiche identificative sono
rappresentate dalla predisposizione familiare, frequenti mutazioni di
BRAF, instabilità microsatellitare (hMLH1 e hMH2), prognosi migliore e
peculiare profilo di chemosensibilità (23).

La diagnosi differenziale di adenocarcinoma duttale si pone con le forme
di maggior impatto clinico che sono rappresentate dalla pancreatite
cronica, nelle sue varie forme (24), e dai tumori della papilla di
Vater. I tumori della papilla di Vater, che rappresentano il 5% di tutte
le neoplasie gastroenteriche, ma circa il 36% delle neoplasie
pancreatico-duodenali resecate, comprendono sia tumori benigni (10%) sia
tumori maligni (90%). Si distinguono dai carcinomi duttali pancreatici
con infiltrazione della papilla perché presentano prognosi
significativamente migliore e dal punto di vista patogenetico originano
in un rilevante numero di casi da una sequenza adenoma-carcinoma simile a
quella riscontrata nel colon (25-30). Il riconoscimento della
primitività è possibile qualora la neoplasia sia ancora limitata alle
strutture anatomiche della papilla di Vater o che queste presentino
modificazioni displastiche pre-invasive.

2.2 Precursori del carcinoma invasivo

Poiché il carcinoma del pancreas indipendentemente dallo stadio di
malattia in cui viene scoperto è una malattia fatale, il poterlo
riconoscere nella sua fase pre-invasiva è estremamente importante ed
attualmente l’unico modo per poterlo curare.
Si riconoscono tre distinte lesioni non-invasive: la prima rappresenta
un reperto microscopico e comprende tutta una serie di modificazioni
comprese nella categoria delle neoplasie pancreatiche intraepiteliali
(PanIN), mentre le altre due sono lesioni macroscopicamente e
radiologicamente visibili e sono rappresentate dalle neoplasie papillari
mucinose intraduttali (IPMN) e dalle neoplasie cistiche mucinose (MCN)
(31).

1) Neoplasie pancreatiche intraepiteliali (Pancreatic Intraepithelial Neoplasms, PanIN):
neoplasie epiteliali dei dotti di piccole dimensioni, visibili solo
microscopicamente, di diametro < 0.5 cm, caratterizzate da epitelio
colonnare frequentemente mucosecernente, piatto o con proliferazioni
micropapillari che presentano un ampio ventaglio di modificazioni
morfologiche con diversi gradi di atipia citologica e di alterazioni
architetturali (32).
Le lesioni PanIN sono suddivise in:

PanIN-1A-B: costituite da epitelio colonnare piatto o
micropapillare con nucleo basale ed abbondante citoplasma producente
mucina, privo di evidente atipia. Precedentemente queste lesioni erano
considerate modificazioni iperplastiche-metaplastiche dell’epitelio;

PanIN-2: caratterizzata da una proliferazione
epiteliale piatta o micropapillare con pseudostratificazione nucleare,
atipia citologica di grado moderato;

PanIN-3: caratterizzata da proliferazione
frequentemente micropapillare, cribriforme, con necrosi intraluminale,
atipia citologica di alto grado e con frequenti mitosi.

Attualmente, solo le lesioni tipo PanIN-3 debbono essere riportate nel
referto patologico, poiché per le lesioni PanIN-1 e PanIN-2 non ci sono
prove sufficientemente consolidate per considerarle lesioni che possano
comportare un rischio significativo di ulteriore progressione. Infatti,
lesioni tipo PanIN-1 sono presenti nel 40% dei pancreas di pazienti non
portatori di carcinoma, mentre quelle di tipo PanIN-3 sono associate
alla presenza di carcinoma invasivo nel 30-50% dei casi. Si ritiene
quindi che lesioni di tipo PanIN-3 abbiano una significativa importanza
clinica nella progressione verso il carcinoma invasivo; resta tuttavia
difficile stabilirne l’esatta incidenza per l’impossibilità di
identificarle clinicamente. Le prove del loro significato neoplastico
risiedono nel fatto che la maggior parte delle anomalie, riscontrate nel
carcinoma invasivo, sono presenti in tutte le lesioni di tipo PanIN,
con una frequenza che riflette i diversi gradi di atipia: mutazioni di
K-ras, anomalie della telomerasi ed iperespressione di p21 e mutazioni
di p53, DPC4 nei gradi avanzati. Sebbene queste anomalie possano essere
riscontrate anche nelle IPMN, le anomalie di p53 e DPC4 sono meno
frequenti; per converso, la positività per MUC2, tipicamente presente in
una sottopopolazione di IPMN, è sempre assente nelle PanIN (33). Le
lesioni tipo PanIN presentano fenotipo “gastrico-foveolare”, mentre le
lesioni di tipo IPMN soprattutto di tipo intestinale. In questo processo
sono implicate anomalie d’espressione della famiglia dei geni hedgehog
(hh), che comprende tre membri: Sonic (Shh), Indian (Ihh) e Desert
(Dhh), che presiedono e regolano la differenziazione pancreatica
dall’abbozzo endodermico della giunzione tra foregut e midgut (34).

2) Neoplasie intraduttali papillari mucinose (Intraductal Papillary Mucinous Neoplasms, IPMN):
neoplasie mucinose frequentemente papillari, che si sviluppano nel
dotto principale o nei dotti di secondo ordine sempre associate ad
ectasia duttale macroscopicamente visibile e comunque > 1 cm (32).
Le neoplasie IPMN sono suddivise in 3 sottotipi:

1 “centrali” o del dotto principale, con coinvolgimento del dotto di Wirsung;

2 “periferiche” o dei dotti collaterali, con coinvolgimento esclusivo dei dotti di secondo ordine;

3 “miste”, con coinvolgimento di entrambi. Le IPMN di tipo centrale
spesso si accompagnano a protrusione nel lume duodenale sia della
papilla maggiore sia di quella minore, con secrezione di mucina (1).

Le IPMN, descritte per la prima volta nel 1980, sono state per lungo
tempo misconosciute, riportate sotto vari nomi od incluse tra i tumori
cistici mucinosi. Sono state tradizionalmente considerate lesioni rare,
ma nell’attuale pratica clinica rappresentano il 20-30% di tutte le
neoplasie pancreatiche resecate. Presentano una modesta prevalenza per
il sesso maschile; l’età media, riferita alla popolazione generale, in
cui si manifestano è di 65 anni (con una differenza di 5-8 anni tra le
neoplasie a basso grado ed il carcinoma infiltrante). Il coinvolgimento
della testa è presente nel 70-80% dei casi.
L’elemento distintivo è rappresentato dalla crescita intraduttale, con
dilatazione diffusa o segmentaria del dotto principale e/o dei dotti di
secondo ordine, in assenza di stenosi meccanica o tumorale.
Si distinguono due varianti principali:

1) variante prevalentemente papillare, nella quale la mucosa
che riveste i tratti interessati dalla neoplasia presenta vegetazioni
intraluminali di tipo villoso. Tali proliferazioni, che si presentano
all’ERCP (Colangiopancreatografia Endoscopica Retrograda) come difetti
di riempimento ed alla TC (Tomografia Computerizzata) e RM (Risonanza
Magnetica) come vegetazioni endoluminali adese alla parete,
costituiscono un prezioso elemento diagnostico differenziale nei
riguardi sia della pancreatite cronica sia della dilatazione secondaria
del sistema duttale;

2) variante prevalentemente ectasica, in cui il dotto principale ed i dotti ectasici di secondo ordine si presentano ripieni di muco, ma con mucosa “piatta”.
Microscopicamente, l’epitelio è di tipo colonnare mucosecernente, con
differenziazione polimorfa. Il grado di displasia epiteliale è
l’elemento che consente la sottoclassificazione in: adenomi (atipia di
grado lieve), borderline (atipia di grado moderato), carcinomi (atipia
severa). Il carcinoma invasivo è frequentemente di tipo “colloide”
(caratterizzato da andamento clinico indolente) e solo raramente di tipo
“tubulo-ghiandolare” (caratterizzato da comportamento aggressivo di
tipo intermedio quello di tipo intestinale, mentre quello di tipo
bilio-pancreatico è sovrapponibile a quello del carcinoma duttale
classico).

Caratteristiche immunofenotipiche e molecolari
Le papille vengono distinte in:

1 papille di tipo intestinale (30-40% dei casi): presentano
spiccata similitudine con le strutture villose degli adenomi del colon,
esprimono il marcatore intestinale CDX2 (specifico gene di
programmazione cellulare di tipo intestinale, con funzione di
soppressore tumorale) e MUC2 (glicoproteina di tipo intestinale prodotta
esclusivamente dalle cellule intestinali tipo goblet, con funzione di
soppressore tumorale). Le neoplasie con questi caratteri, anche se
possono coinvolgere estesamente il sistema duttale e raggiungere
cospicue dimensioni, vengono di solito classificate come borderline o
CIS e, anche quando si associano a trasformazione carcinomatosa,
presentano un andamento clinico indolente. Il carcinoma, infatti, è
quasi sempre di tipo colloide, con espressione dello stesso fenotipo non
aggressivo: negatività per MUC1 e positività per MUC2 e CDX2 (15,35);

2 papille di tipo bilio-pancreatico (20% dei casi): hanno
architettura più complessa e ramificata, un rivestimento epiteliale
sovrapponibile a quello osservato nel carcinoma pancreatico e delle vie
biliari, non esprimono MUC2 e CDX2, mentre esprimono il MUC1. La maggior
parte di queste neoplasie sono caratterizzate da displasia ad alto
grado e frequentemente associate a carcinoma infiltrante con
caratteristiche morfologiche ed immunofenotipiche sovrapponibili
all’adenocarcinoma duttale classico. Le mucine MUC1, considerate
marcatori di aggressività biologica, sono una famiglia di glicoproteine
di membrana con un ruolo importante in molte funzioni essenziali, tra
queste: mantenere l’integrità del lume ghiandolare, regolare
l’interazione tra cellula-cellula, cellula-stroma e conferire
immunoresistenza (36);

3 papille di tipo gastrico (30-40% dei casi): caratterizzate da
epitelio simile alle foveole gastriche, negativo per CDX2, MUC1 e MUC2 e
positivo per MUC5AC (15). Queste lesioni sono di solito piccole,
coinvolgono prevalentemente i dotti periferici, presentano atipie a
basso grado e non si associano generalmente a trasformazione
carcinomatosa;

4 papille di tipo oncocitico: caratterizzate da epitelio
rivestito da cellule con intenso citoplasma granulare eosinofilo, con
espressione immunofenotipica prevalentemente negativa per le mucine
riportate precedentemente o con espressione solo focale delle stesse
(37).

Le neoplasie IPMN si distinguono molecolarmente dal carcinoma duttale
per una ridotta incidenza di mutazioni di K-ras, p53, p16 e
conservazione dell’espressione di DPC4 e per l’inattivazione in un terzo
dei pazienti del gene STK1/LKB1 (38). La progressione da lesioni a
basso grado fino a giungere al carcinoma infiltrante è da considerarsi
non certamente in senso lineare come per la sequenza adenoma-carcinoma
classica del colon. Considerando, infatti, l’eterogeneità sia
morfologica sia immunofenotipica il processo di trasformazione
neoplastica deve passare attraverso specifici programmi di
transdifferenziazione intestinale (IPMN di tipo indolente) o
pancreato-biliare (IPMN di tipo aggressivo). Anche il carcinoma
associato alle IPMN è immunofenotipicamente eterogeneo anche per quanto
riguarda l’espressione di DPC4/SMAD4, gene soppressore tumorale
localizzato sul cromosoma 18q. Mentre DPC4 è costantemente espresso nei
carcinomi colloidi MUC2 e CDX2 positivi, la delezione del cromosoma 18q e
la perdita di funzione del gene DPC4 caratterizza invece in eguale
proporzione (50%) sia gli adenocarcinomi classici, sia i carcinomi
tubulo-ghiandolari MUC1 positivi, insorti nelle IPMN. Poiché
l’espressione di DPC4 nei carcinomi duttali correla con una prognosi
migliore è possibile ipotizzare che anche la buona prognosi di queste
neoplasie sia, almeno in parte, riconducibile alla mantenuta espressione
di DPC4. Da studi di profilo di espressione genica, la variante
infiltrante delle IPMN si caratterizza per la selettiva espressione di
quattro geni: claudina 4, CXCR4, S100A4 e mesotelina. In particolare,
l’S100A4 e la mesotelina sono presenti nel 73% delle neoplasie invasive
ed in nessuna delle IPMN non invasive.
Per la variante oncocitica dell’IPMN, in considerazione dell’eccessivo
accumulo di mitocondri, si ipotizza una carcinogenesi distinta e
verosimilmente riconducibile a stress ossidativi. Il carcinoma invasivo
non presenta anomalie dei geni soppressori tumorali p53, p16 e
SMAD4/DPC4 (36).

Diagnosi differenziale
La diagnosi differenziale delle neoplasie IPMN-centrali si pone in prima
istanza con la pancreatite cronica e con l’adenocarcinoma duttale,
mentre per le neoplasie IPMN-periferiche si pone principalmente con le
neoplasie mucinose cistiche e le cisti da ritenzione, le pseudocisti
infiammatorie e la distrofia cistica della parete duodenale.

3) Neoplasie mucinose cistiche (Mucinous Cystic Neoplasms, MCN):
neoplasie con spiccatissima prevalenza nel sesso femminile, capsulate,
senza rapporto con il sistema duttale, prevalentemente localizzate nella
coda del pancreas e caratterizzate dalla presenza di stroma di tipo
ovarico (1,36,39).
Le MCN rappresentano circa il 30% delle neoplasie cistiche del pancreas.
Macroscopicamente, sono neoformazioni uni o multiconcamerate,
rotondeggianti, dotate di pseudocapsula e prive di connessioni con il
dotto principale di Wirsung o con i dotti di secondo ordine. Le
dimensioni possono variare da 2 fino a 35 cm (diametro medio 12 cm). La
superficie interna delle cisti appare liscia nelle forme benigne,
mentre la presenza di escrescenze papillari e di aree solide
contraddistingue, di solito, i cistoadenocarcinomi.
Microscopicamente, sono presenti due distinte componenti: 1) epitelio
colonnare di rivestimento, muco-secernente; 2) stroma sottoepiteliale di
“tipo ovarico”. L’epitelio colonnare presenta spesso metaplasia di tipo
foveolare gastrico, pilorico od intestinale. All’interno delle cisti si
possono costituire delle vere e proprie formazioni papillari. Le
neoplasie vengono suddivise in base al grado di displasia dell’epitelio
in adenomi (atipia di grado lieve), forme borderline (atipia di grado
moderato) ed adenocarcinomi non-invasivi (atipia severa). I
MCN-invasivi, di solito, presentano caratteri analoghi a quelli
dell’adenocarcinoma duttale del pancreas, anche se sono state riportate
forme speciali di carcinoma adenosquamoso, carcinoma anaplastico,
carcinoma a cellule simil-osteoclastiche e chorioncarcinoma. Tutte
queste forme speciali possono assumere aspetto di noduli stromali.
L’estensione dell’infiltrazione carcinomatosa rappresenta un elemento
prognostico importante; focolai invasivi circoscritti nel contesto della
neoplasia, senza infiltrazione della capsula tumorale, presentano buona
prognosi (40).
Le MCN devono essere resecate radicalmente e quindi la loro diagnosi
differenziale pre-operatoria deve prendere in considerazione formazioni
cistiche di origine infiammatoria, cisti da ritenzione e la variante
macrocistica del cistoadenoma sieroso, per le quali non è prevista
generalmente indicazione chirurgica.
Immunoistochimicamente, la componente epiteliale presenta positività per
le citocheratine 7,8,18 e 19, EMA, CA19-9, DUPAN-2 e CEA.
Parallelamente alla differenziazione morfologica possono presentare
positività per le mucine di tipo gastrico M1, PGII ed intestinale
CAR-5 e M3SI. Le neoplasie non invasive sono positive per le mucine
MUC5AC, per DPC4 e negative per le mucine MUC1, mentre la componente
carcinomatosa infiltrante è negativa per DPC4 e positiva per MUC1. Le
cellule dello stroma di tipo ovarico presentano positività per la
vimentina, l’actina muscolo specifica, per i recettori degli estrogeni,
del progesterone e per l’alfa-inibina (36,40).
Le modificazioni molecolari (41) comprendono mutazioni del gene K-ras,
presenti fin dalle fasi iniziali di sviluppo della neoplasia e
progressivamente aumentate di pari passo con l’incremento del grado di
displasia. Anomalie dei geni oncosoppressori, p53, p16, DPC4
caratterizzano invece le fasi avanzate di malattia, con maggior
espressività nei focolai carcinomatosi invasivi. Studi di gene
expression profiling hanno consentito di documentare una
sovraespressione genica in 114 geni conosciuti nella componente
epiteliale neoplastica rispetto all’epitelio normale (inclusi i geni
S100P, PSCA, c-myc, STK6/STK15, catepsina E e pepsinogeno C) e la
sovraespressione di geni implicati nel metabolismo degli estrogeni (STAR
e ESR1) nello stroma di tipo ovarico (42).

2.3 Carcinoma a cellule acinose

Il carcinoma a cellule acinose è una neoplasia rara (1% delle neoplasie
del pancreas esocrino), che prevale nel sesso maschile e nell’età
avanzata, anche se sono stati descritti sporadici casi infantili (43).
Sebbene siano descritte varianti cistiche, la maggior parte delle lesioni sono prevalentemente solide.
Microscopicamente, la neoplasia presenta sia aspetti solidi, sia
trabecolari e simil-acinosi ed è caratterizzata da cellule con
abbondante citoplasma eosinofilo, granulare, Pas-positivo e nucleo
rotondeggiante con evidente nucleolo.
La presenza di atipie e necrosi consente di differenziare le varianti
cistiche, classificate come cistoadenocarcinomi acinari, dalle forme
cistiche benigne o cistoadenoadenomi a cellule acinose (44).
La differenziazione di tipo acinare è dimostrabile con la
immunoreattività per la tripsina, mentre possono risultare negative le
indagini per l’amilasi e la lipasi. Raramente può essere presente una
componente cellulare neoplastica con differenziazione endocrina. Quando
tale componente supera il 30%, il tumore si classifica come carcinoma
misto acinoso-endocrino; le caratteristiche anatomo-cliniche tuttavia
non differiscono in maniera significativa dalla forma classica (45,46).
Il carcinoma a cellule acinose presenta caratteristiche molecolari
distinte rispetto sia al carcinoma duttale, assenza di mutazioni di
K-ras, sovraespressione e mutazioni di p53, perdita di DPC4 e p16, sia
alle neoplasie endocrine. Le anomalie più caratteristiche sono
rappresentate dalla perdita di 4q e 16q e da anomalie a carico di
APC/β-catenina nel 25% dei casi (47).

2.4 Pancreatoblastoma

E’ un tumore raro, ma rappresenta il tumore pancreatico più frequente
dell’età infantile. Presenta una distribuzione bimodale, con un gruppo
di età media intorno ai 3-5 anni ed uno di età media intorno ai
25-30 anni (1,48).
Macroscopicamente, la lesione si può presentare sia come una formazione
ben circoscritta, frequentemente di dimensioni considerevoli (fino a 20
cm), sia a margini sfumati ed infiltrativi.
Istologicamente, le due componenti diagnosticamente rilevanti sono
rappresentate dalla componente prevalentemente di tipo acinare e dai
caratteristici corpuscoli squamoidi composti da cellule a nucleo chiaro
ricco di biotina. Più raramente, possono essere presenti componenti
epiteliali meno differenziate (tipo adenocarcinomatose), associate ad
elementi mesenchimali con differenziazione condroide od ossea.
Le caratteristiche molecolari di questa neoplasia sono rappresentate
dalle anomalie dei geni APC/β-catenina, presenti nel 67% dei casi, dalla
delezione 11p, mentre sono assenti mutazioni di K-ras, p53 e raramente
si osserva perdita di espressività di DPC4 (49-51).

2.5 Neoplasie sierose cistiche

Sono forme quasi esclusivamente benigne, che rappresentano l’1-2% dei
tumori esocrini del pancreas ed il 30-40% di quelli cistici del
pancreas. Di solito sono lesioni di grandi dimensioni, ben circoscritte,
che si riscontrano in entrambi i sessi, con prevalenza nelle donne di
età compresa tra i 60 e 70 anni (1). Clinicamente possono essere
sporadici oppure rappresentare una delle lesioni della sindrome di Von
Hippel-Lindau (VHL) (52,53).
Si distinguono cinque varianti clinico-patologiche (1):

1 cistoadenoma sieroso (CAS) microcistico o forma classica: è
la variante più rappresentata (60-70%), con prevalenza nella coda del
pancreas. Il tumore si presenta a margini bozzuti, ma ben circoscritto e
frequentemente con cicatrice centrale che, assieme alla presenza di
innumerevoli piccole cisti, del diametro variabile da 1 mm a 1-2 cm,
conferisce alla lesione il tipico aspetto a spugna, ben riconoscibile
anche alle indagini radiologiche.

2 CAS macrocistico o oligocistico (circa 30% dei casi), con
prevalenza nella testa del pancreas e presenza di poche, comunque in
numero definito, cisti del diametro > 2 cm, che possono raggiungere
anche 15-20 cm, ed assenza di cicatrice stellata centrale. La diagnosi
differenziale pre-operatoria con le neoplasie mucinose cistiche non è
quasi mai possibile; tale difficoltà spiega l’elevata incidenza di
resezioni chirurgiche biologicamente non necessarie vista la natura
relativamente indolente del CAS.

3 CAS solido: la conoscenza delle sue caratteristiche è tuttora
scarsa per il numero limitato di casi riportati in letteratura. E’ di
solito una lesione di piccole dimensioni, 2-4 cm di diametro, costituita
da innumerevoli piccolissime cisti che conferiscono un aspetto solido.
La diagnosi differenziale pre-operatoria con una neoplasia endocrina è
estremamente difficoltosa.

4 Cistoadenocarcinoma sieroso: presenta caratteristiche
morfologiche indistinguibili dalle forme benigne o solo con minime
anomalie citologiche. L’aspetto discriminante è rappresentato dalla
crescita infiltrativa e dall’interessamento degli organi contigui come
stomaco, fegato, milza e talora la presenza di invasioni vascolari e di
metastasi linfonodali ed epatiche.

5 Neoplasie cistiche sierose associate a sindrome di Von Hippel Lindau-VHL:
presenti nel 60-80% dei pazienti, non presentano predilezione di sesso,
sono frequentemente multifocali e non raramente possono coinvolgere
l’intero organo. Alle lesioni pancreatiche si associano frequentemente
cisti multiple al fegato, polmone, rene, milza e epididimo.

Microscopicamente, ed a prescindere dalla presentazione macroscopica o
dall’associazione con VHL, tutte le lesioni sono caratterizzate dal
tipico epitelio cubico con citoplasma chiaro ricco di glicogeno
(PAS-positivo, diastasi sensibile), privo di atipia e di evidente
attività replicativa.

Caratteri immunofenotipici e molecolari
Sebbene le neoplasie sierose siano per molti aspetti eterogenee, oltre
ad essere caratterizzate da un solo tipo cellulare, presentano un
identico immunofenotipo. Le cellule presentano positività
immunoistochimica per le citocheratine 7,8,18 e 19, diffusa positività
per EMA e negatività per CEA, vimentina e tutti i marcatori di
differenziazione endocrina ed acinare. Recentemente, è stata segnalata
positività per l’enolasi neurone specifica (NSE), l’alfa inibina, il
MUC6 e focale positività per MUC1 (54). Le mucine MUC2 e MUC5AC sono
invece sempre negative.
Il 40% dei pazienti con lesione sporadica presenta perdita di
eterozigosità al cromosoma 3p (dove è localizzato il gene VHL, in
posizione 3p25.5), con mutazioni nel 22% dei casi e delezione del
cromosoma 10q nel 50% dei casi (53). Le caratteristiche peculiari di
questa neoplasia, le cellule chiare ricche di glicogeno e la ricca
vascolarizzazione, potrebbero trovare una patogenesi nella cascata di
eventi molecolari associati alla Von Hippel-Lindau pathway.
Le tappe principali sono rappresentate dall’induzione del fattore di
ipossia HIF-1, con accumulo di glicogeno cellulare e l’iperespressione
del VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor) e conseguente
neoangiogenesi (55). Le neoplasie sierose non presentano mutazioni del
K-ras ed alterazioni dei geni soppressori tumorali p16, p53, DPC4.

2.6 Tumore solido-pseudopapillare

E’ una neoplasia rara (1-2% dei tumori esocrini), a bassa malignità, con
spiccata predilezione per le donne di giovane età. Seppure non sia
stata ancora identificata l’ipotetica cellula di origine, è una delle
neoplasie pancreatiche meglio caratterizzate dal punto vista molecolare
(1).
Macroscopicamente é una neoformazione solida, rotondo-ovalare, di
dimensioni variabili da 2 a 20 cm, ben circoscritta che può presentare,
in proporzione variabile da caso a caso, una trasformazione cistica, per
effetto di fenomeni emorragici e necrotico-regressivi.
Microscopicamente, il tumore è composto da una commistione di aree
solide, cistiche e pseudopapillari. Le cellule neoplastiche sono
monomorfe con nuclei rotondeggianti e citoplasma granulare, con globuli
ialini, PAS-positivi. Le mitosi sono virtualmente assenti e l’attività
proliferativa estremamente bassa (Ki-67 < 2%).
Immunofenotipicamente, il marcatore diagnostico è rappresentato dalla
positività nucleare per la β-catenina. La neoplasia presenta positività
costante per la vimentina, NSE, CD56, CD10, alfa-1-antichimotripsina,
a-1-antitripsina e negatività per le citocheratine (in rari casi, è
possibile una focale, debole positività), cromogranina e per gli ormoni
pancreatici. La positività per i recettori per il progesterone nella
maggioranza delle cellule neoplastiche e la spiccata predilezione per il
sesso femminile suggeriscono l’ipotesi di un possibile ruolo
patogenetico di questo ormone (56,57).
L’analisi molecolare mostra mutazione del gene della β-catenina sul
cromosoma 3p in più del 90% dei casi. La proteina mutata si concentra
nel citoplasma e nel nucleo delle cellule neoplastiche, attivando una
cascata di geni che promuovono la progressione tumorale. La mancata
interazione con la concomitante aberrazione della E-caderina sulla
membrana cellulare, fondamentale per la regolazione dell’interazione
cellula-cellula, giustifica la scarsa coesione delle cellule
neoplastiche e la trasformazione cistica (49,58). La neoplasia non
presenta le classiche mutazioni di K-ras, né anomalie di p53, DPC4 e p16
che caratterizzano il carcinoma duttale.

2.7 Campionamento del pezzo operatorio e stadiazione

Una delle maggiori difficoltà che si incontra nel confrontare i
risultati delle diverse casistiche dipende sia dai diversi sistemi di
stadiazione applicati sia dalle metodiche di campionamento del pezzo
operatorio. Per quanto riguarda la stadiazione, in Occidente è
abitualmente utilizzata quella proposta dalla American Joint Committee
on Cancer (AJCC).

Tabella 2 Classificazione AJCC (59)

Per quanto riguarda il campionamento del pezzo operatorio e la
valutazione dei margini di resezione, non esiste ancora un metodo
univoco e standardizzato. Il mancato riconoscimento di neoplasia residua
in corrispondenza dei margini di resezione chirurgica dipende in
maniera diretta dalla modalità di campionamento del pezzo operatorio e
potrebbe spiegare l’alta percentuale di recidive riportata in
letteratura. La precisa definizione e valutazione dei margini di
resezione chirurgica rappresenta un punto cruciale per la corretta
stadiazione della neoplasia. I margini di resezione comprendono:

1 trancia di resezione della via biliare principale;

2 trancia di resezione del pancreas;

3 trancia di resezione duodenale prossimale in caso di duodenocefalopancreasectomia (DCP) con conservazione del piloro;

4 margine di resezione retro-peritoneale.

La trancia di resezione chirurgica della via biliare principale e del
pancreas dovrebbero essere esaminate in sede intra-operatoria su sezioni
al criostato; l’eventuale positività deve, infatti, suggerire
l’ampliamento del margine di exeresi. Il margine di resezione
retroperitoneale, che rappresenta il vero “punto caldo” nella
stadiazione patologica, viene definito come il tessuto adiposo
peripancreatico localizzato posteriormente e lateralmente all’arteria
mesenterica superiore e macroscopicamente identificato sul pezzo
operatorio in corrispondenza di una ristretta area, a maggior asse
longitudinale, in corrispondenza della quale la superficie posteriore
della testa pancreatica appare cruentata chirurgicamente (60). A causa
della difficoltà di identificarlo su sezioni istologiche, la sua
superficie dovrebbe essere colorata con inchiostro di china prima della
fissazione del pezzo operatorio in formalina e successivamente
campionato in toto mediante prelievi seriati e condotti
perpendicolarmente all’asse principale del margine stesso.
L’infiltrazione carcinomatosa nello spazio retro-peritoneale rappresenta
la sede elettiva di diffusione del carcinoma duttale.

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3.0 GENETICA E BIOLOGIA MOLECOLARE

Sindromi ereditarie e predisposizione genetica
Il carcinoma duttale pancreatico è una malattia sporadica, sebbene possa
avere origine nel contesto di sindromi ereditarie (vedi cap. 2).
Le sindromi ereditarie associate ad un elevato rischio di sviluppo del
carcinoma pancreatico (CP) sono elencate nella Tabella 3 del capitolo 1.
Degno di nota il fatto che tali sindromi sono associate sia a difetti
dello sviluppo e del differenziamento cellulare sia ad una ridotta
funzionalità dei meccanismi di riparazione del DNA. Il primo gruppo
include le sindromi FAMM (Familial Atypical Multiple Melanoma) e
Peutz-Jeghers (1,2), mentre il secondo comprende la HNPCC (Hereditary
Non Polyposis Colorectal Cancer, cancro ereditario colorettale
non-poliposico), la hereditary breast-ovarian cancer (cancro ereditario
mammella-ovaio) e lo young onset pancreatic cancer (cancro pancreatico
ad insorgenza giovanile) (3-5). La sindrome che si associa al più alto
rischio di CP è la pancreatite familiare (Familial Pancreatitis)
associata a mutazioni del gene PRSS1 che codifica per il tripsinogeno
cationico (2).
Sebbene la presenza di storia familiare di cancro del pancreas sia
considerata come uno dei fattori di rischio di maggior rilevanza (6),
il CP non rappresenta comunque il tipo di neoplasia che più
frequentemente si associa a ciascuna di queste sindromi. Questo
ovviamente rende difficile l’identificazione di soggetti da sottoporre
ad analisi genetiche per neoplasia pancreatica in aggiunta a quelli
caratterizzati dalla sindrome (7-9).
La conoscenza di mutazioni specifiche potrebbe essere importante anche
in relazione alle scelte terapeutiche. Per esempio, il CP caratterizzato
da mutazioni di BRCA2 è più sensibile all’azione di Mitomicina C e
radiazioni, mentre casi con mutazioni di geni coinvolti nei sistemi di
riparazione del DNA del gruppo dell’Anemia di Fanconi presentano
ipersensibilità al Melfalan e all’Oxaliplatino, ma non alla Gemcitabina
(10,11).
Alcuni studi hanno inoltre esaminato l’associazione tra polimorfismi in
geni coinvolti nel metabolismo dei carcinogeni e l’insorgenza del cancro
del pancreas (12). Sebbene nella popolazione generale nessun
polimorfismo dei geni del citocromo P450 1A1 (CYP1A1) e della glutatione
S-transferasi (GST) possano essere associati direttamente al rischio di
insorgenza di CP, la combinazione di un elevato consumo di sigarette ed
un polimorfismo di delezione del gene GSTT1 sono stati associati
all’aumentato rischio di carcinoma nella popolazione caucasica (13). I
polimorfismi della glutatione S-transferasi M1 (GSTM1) e
dell’acetiltransferasi (NAT1 e NAT2) sono stati inoltre associati ad un
modesto incremento della suscettibilità a CP oltre che allo sviluppo di
pancreatite (14).
Un altro gene particolarmente interessante è quello che codifica per
l’UDP glucuronosiltransferasi (UGT1A7), gene espresso in maniera
predominante nel pancreas umano. La bassa attività di detossificazione
dell’allele UGT1A7*3 è stata identificata come nuovo fattore di rischio
di malattie pancreatiche, suggerendo quindi l’esistenza di
un’interazione tra la predisposizione genetica e lo stress ossidativo di
origine ambientale (15). Un recente studio multicentrico ha analizzato
la potenziale associazione tra più di 500.000 polimorfismi ed il rischio
di sviluppo di cancro pancreatico suggerendo un’associazione tra un
locus sull’area cromosomica 9q34 identificato da un polimorfismo
intronico del gene del gruppo sanguigno AB0 (16). Per quanto detto fin
ora, l’esistenza di pazienti ad alto rischio suggerirebbe l’attuazione
di test di screening genetico, ma, ad oggi, programmi di questo tipo non
sono stati ancora definiti in maniera adeguata e quelli che vengono
comunemente denominati “screening secondari” dovrebbero esser presi in
considerazione solo come parte di studi di investigazione (Tabella 1).

Tabella 1

Carcinomi sporadici
Le aberrazioni genetiche associate a CP includono anomalie nella
struttura e funzione del DNA. Le lesioni anatomiche consistono in
anomalie cromosomiche (numeriche e strutturali) ed in cambiamenti
epigenetici coinvolti nella regolazione della trascrizione genica.
Il terzo tipo di lesione anatomica a carico del DNA è rappresentata
da mutazioni in singoli geni. Le alterazioni funzionali sono invece
quelle identificate a livello dell’espressione genica ed interessano due
tipi principali di RNA: mRNA (RNA messaggero) codificanti per proteine e
piccoli RNA regolatori conosciuti anche come RNA non codificanti
(microRNA, e piccoli RNA non codificanti o sncRNA) (17).

Anomalie cromosomiche
Il carcinoma pancreatico sporadico è caratterizzato dall’aneuploidia del
DNA come conseguenza di un gran numero di complesse anomalie
cromosomiche (18). Queste sono responsabili del cambiamento del numero
di copie di un certo numero di geni, alcuni dei quali giocano un ruolo
importante nello sviluppo del cancro e nella progressione di malattia.
Le delezioni cromosomiche determinano perdita di geni, mentre l’aumento
del numero di copie di parti di cromosoma o di interi cromosomi (gains) è
associato all’incremento del numero di copie di geni con conseguente
sovraespressione dei loro prodotti. L’incremento di copie di geni legato
alla loro riproduzione in piccoli frammenti di DNA extracromosomico
(double minutes) è stata riportata nel cancro del pancreas (19-21).
Questi geni rappresentano importanti candidati quali potenziali bersagli
per terapie mirate. Nel 20-30% dei carcinomi duttali del pancreas si
osserva amplificazione del fattore trascrizionale c-Myc sul cromosoma
8q. Altri oncogeni la cui amplificazione è stata osservata, anche se
infrequentemente, comprendono MYB (cromosoma 6q), AIB1/INCOA3 (cromosoma
20q) e l’EGFR (cromosoma 7p). Inoltre, attraverso analisi ad elevata
risoluzione del numero di copie cromosomiali è stato possibile
identificare un certo numero di amplificazioni ricorrenti, ad esempio
ampliconi localizzati sui cromosomi 18q e 7q. Per alcuni di questi
ampliconi sono in corso di valutazione geni candidati, per altri invece
non si è ancora riusciti ad individuare potenziali candidati.

Alterazioni epigenetiche
Le alterazioni epigenetiche non interessano la sequenza di DNA, ma la
sua struttura e conformazione come conseguenza della modificazione
chimica dei suoi componenti. Tali cambiamenti consistono nella
metilazione delle isole CpG del DNA e/o nell’acetilazione delle proteine
istoniche associate al DNA.
Le modificazioni epigenetiche determinano l’attivazione o il
silenziamento di geni coinvolti nei processi di proliferazione,
sopravvivenza e differenziamento cellulare. Il cambiamento epigenetico
che più frequentemente si riscontra nel CP è la metilazione a livello
del promotore del gene oncosoppressore P16/CDKN2A. In questo caso,
l’evento epigenetico determina il silenziamento del gene negli stadi
precoci dello sviluppo neoplastico. Tuttavia, numerosi altri geni
sembrano essere affetti da questo fenomeno (Tabella 2).

Tabella 2

Mutazioni in singoli geni
Le alterazioni genetiche riscontrabili nella maggior parte dei casi e
quindi caratteristiche del CP sono rappresentate dall’attivazione
mutazionale dell’oncogene K-ras e dall’inattivazione di tre soppressori
tumorali (P16, P53, SMAD4) generalmente mediante mutazione di un allele e
la perdita del secondo allele.

Alterazioni oncogeniche
Mutazioni attivanti dell’oncogene K-ras si riscontrano nel 95% dei casi
(23). L’attivazione della RAS pathway è un requisito indispensabile per
lo sviluppo del carcinoma duttale del pancreas, come dimostrato da
modelli murini geneticamente modificati (24). Nel 5% dei casi in cui il
gene K-ras non è mutato, si rileva l’attivazione della pathway dovuta a
mutazioni di BRAF, EGFR e più raramente altri, che hanno comunque lo
stesso effetto (25,26).
Il K-ras codifica per una proteina di membrana che fa parte della
famiglia delle proteine leganti il GTP ed è coinvolta nelle vie di
trasduzione del segnale (signaling pathway) attivate da fattori di
crescita. Le mutazioni in questo gene risultano in una forma
costituzionalmente attiva della proteina capace di stimolare una serie
di pathway a valle. Le modificazioni post-traduzionali di K-ras
comprendono la farnesilazione, ad opera di una farnesil transferasi,
della porzione C-terminale che è necessaria per l’ancoraggio della
proteina alla membrana cellulare. Questo processo di farnesilazione è
ancora considerato uno dei bersagli più interessanti a fini terapeutici
(27,28), sebbene gli inibitori delle farnesil transferasi non abbiano
dimostrato efficacia negli studi clinici di fase III (29). Approcci
terapeutici alternativi che hanno sempre come bersaglio il K-ras sono
costituiti da molecole di RNA interference, che hanno mostrato risultati
promettenti sia da sole sia in combinazione con radiazioni (30,31).
Anche le pathway a valle di K-ras si offrono come potenziali bersagli
terapeutici. L’attivazione costitutiva di K-ras può determinare,
infatti, anche l’attivazione di un’altra importante pathway coinvolta
nella regolazione della sopravvivenza e della proliferazione cellulare,
la pathway di PI3K/Akt. L’inibizione di questa pathway mediante
l’utilizzo di piccole molecole inibitorie o RNA-silenzianti (siRNA)
determinano una riduzione della crescita cellulare sia in vitro sia
in vivo (32). Sebbene K-ras contribuisca sicuramente all’attivazione
di questa pathway nel cancro del pancreas, eventi genomici indipendenti
possono determinarne l’attivazione, come ad esempio l’amplificazione del
gene AKT2 sul cromosoma 19q (nel 10-15% dei casi di cancro del
pancreas) (33) oppure mutazioni attivanti del gene PIK3CA, che si
osservano in alcune lesioni che precedono l’insorgenza del cancro (34).

Alterazioni in oncosoppressori
L’oncosoppressore che più frequentemente risulta inattivato nel cancro
del pancreas è il gene P16/CDKN2A, conosciuto anche come INK4A (35). La
proteina codificata dal gene INK4A appartiene alla famiglia degli
inibitori delle chinasi dipendenti da ciclina ed in quanto tale inibisce
la progressione lungo il ciclo cellulare a livello della transizione
G1-S. L’inattivazione di questo gene si osserva in circa l’80% dei casi
di cancro del pancreas e si verifica come conseguenza di differenti
meccanismi che comprendono la delezione omozigote, la mutazione genica
con perdita contemporanea del secondo allele oppure per silenziamento
genico dovuto alla metilazione del promotore. L’inattivazione del gene
P53 si verifica in circa il 60% dei casi e generalmente come conseguenza
di mutazione intragenica combinata con la perdita del secondo allele
(36). La proteina p53 svolge una serie di importanti funzioni
all’interno della cellula, tra cui la regolazione della transizione G1-S
del ciclo cellulare, il mantenimento del punto di arresto G2-M e
l’induzione dell’apoptosi.
Meno frequente (50% dei casi) è invece l’inattivazione di DPC4/SMAD4
(deleted in pancreatic carcinoma 4) (37). In questo caso,
l’inattivazione si osserva in conseguenza di delezione omozigote oppure
per mutazione intragenica combinata con la perdita del secondo allele.
Con rare eccezioni, l’espressione della proteina SMAD4 valutata mediante
immunoistochimica è paradigmatica dello status del gene (38).
L’inattivazione di questo gene è inoltre poco frequente in neoplasie non
duttali e rarissima in malattie extrapancreatiche (39). Questo fa sì
che l’analisi dell’espressione immunoistochimica della proteina sia una
tecnica diagnostica molto efficace in clinica, soprattutto nel caso di
metastasi sospette da un tumore pancreatico primario occulto.

Complessità genetica del cancro del pancreas
Uno studio recente basato sull’utilizzo di tecnologie di sequenziamento
di nuova generazione ha suggerito che ciascun CP presenti in media 63
alterazioni genetiche (40). Tali alterazioni riguardano membri di 12
diverse vie di trasduzione del segnale (signaling pathway) e processi.
In particolare, sei diverse pathway risultano alterate nel 100% dei casi
a causa di mutazioni a carico di almeno uno dei suoi diversi
componenti; queste pathway sono: KRAS-MAPK, Apoptosi, transizione G1-S,
Hedgehog, TGF, Wnt/Notch (Figura 1).

Figura 1

Una descrizione visiva delle differenti pathway e processi coinvolti nel
signaling cellulare, e le cui alterazioni possono determinare la
trasformazione maligna e lo sviluppo del cancro, è rappresentata in
Figura 2 (41).

Figura 2

Le pathways coinvolte nell’embriogenesi hanno un ruolo nello sviluppo del cancro
Le signaling pathways di Hedgehog e Wnt/Notch sono vie di trasduzione
del segnale caratteristiche delle cellule staminali che risultano
coinvolte nell’embriogenesi, nell’omeostasi dei tessuti adulti e nei
processi di riparazione tissutale durante eventi di infiammazione
cronica. Queste pathways sono attivate anche nelle cellule staminali
tumorali e risultano coinvolte in quasi tutti i casi di CP (40).
La teoria relativa alle cellule staminali tumorali, infatti, presuppone
l’esistenza di un sottogruppo di cellule neoplastiche, con proprietà
tipiche delle cellule staminali, coinvolte nella carcinogenesi e nella
resistenza alla maggior parte degli agenti chemoterapici (42).
E’ stata dimostrata un’attivazione aberrante delle pathways di Hedgehog e
Wnt/Notch nel CP. Esse danno inizio al processo neoplastico attraverso
l’attivazione trascrizionale di un certo numero di molecole a valle. In
maniera interessante, la presenza di un’attivazione aberrante di queste
vie di trasduzione del segnale è stata descritta anche nei precursori
intraduttali del carcinoma duttale pancreatico, rafforzando in tal modo
l’idea di una loro precoce attivazione nel processo di carcinogenesi
(43).
Infine, queste due pathways possono avere un ruolo molto importante
nello sviluppo di nuovi agenti terapeutici per diversi tipi tumorali ed
in particolare per il CP (44) (Tabella 3).

Tabella 3

Alterazioni genomiche funzionali
Studi di espressione genica hanno generato lunghe liste di geni
codificanti per proteine e microRNA che mostrano un’espressione
differenziale nel carcinoma duttale pancreatico rispetto al tessuto
normale e alle pancreatiti (www.moldiagpaca.eu).
Queste molecole differenzialmente espresse sono ora pezzi di un
affascinante puzzle della patogenesi del carcinoma duttale pancreatico,
che aspetta la scoperta di chiavi di volta per essere costruito.
Diversi tipi di approcci sono stati utilizzati nel tempo non solo per
individuare le molecole differenzialmente espresse tra tessuti tumorali e
quelli non-neoplastici, ma anche per definire importanti differenze di
espressione nelle diverse componenti del bulk tumorale (e cioè
l’epitelio neoplastico, lo stroma peritumorale, lo stroma extratumorale e
la vascolatura tumorale).
In particolare, l’analisi globale dei profili di espressione genica ha
consentito l’identificazione di molecole potenzialmente rilevanti da un
punto di vista diagnostico e terapeutico. Un esempio importante è
rappresentato dalla mesotelina, una proteina di membrana sovraespressa
negli adenocarcinomi pancreatici (45), che viene utilizzata come
marcatore diagnostico (46) e che mostra una certa potenzialità anche dal
punto di vista terapeutico (47).
I microRNA (miRNAs), invece, sono una famiglia altamente conservata di
molecole di RNA di piccole dimensioni (18-24 nucleotidi), che regolano
la stabilità e l’efficienza di traduzione di mRNA con sequenza
complementare (48). Diversi studi hanno dimostrato che i miRNAs sono
coinvolti nella regolazione di diversi processi cellulari come la
proliferazione e l’apoptosi e che la loro espressione è alterata nei
tumori (49). Particolarmente interessante è il fatto che le sequenze
codificanti per questi RNA di piccole dimensioni sono presenti
soprattutto nei siti del genoma umano che sono, ad esempio, oggetto di
fenomeni di amplificazione e perdita di eterozigosi.
A confermare il loro potenziale ruolo tumorigenico ci sono poi diversi
studi funzionali che si sono avvalsi dell’utilizzo di modelli murini di
malattia. Studi recenti poi hanno disegnato un caratteristico profilo di
espressione di queste molecole nel cancro del pancreas che include la
sovraespressione dei miR-21, -155, -221, e -222 (50-52). Non è chiaro al
momento quale sia il significato patogenetico di queste alterazioni, ma
è chiaro invece che questi miRNA possano rappresentare potenziali
bersagli terapeutici soprattutto alla luce dell’odierna disponibilità di
strategie di knockdown in vivo (antagomirs) (53).

Proteomica e marcatori tumorali
Il marcatore tumorale più comunemente utilizzato è il CA19-9 che ha
una sensibilità del 70-90% ed una specificità del 90%. Questo marcatore
risulta essere molto migliore di altri quali il CA50, il DUPAN-2 ed il
CEA. CA19-9 è utilizzato in particolare nel determinare la risposta al
trattamento nei casi avanzati, poiché identifica riprese precoci nei
casi resecati ed è di aiuto nella stadiazione pre-operatoria (54,55).
Nonostante ciò, la sensibilità di questo marcatore si riduce nel caso di
tumori piccoli e resecabili. E’ anche impossibile pensare di utilizzare
questo marcatore per fare screening di cancro del pancreas, visto che i
suoi livelli sierici nei pazienti asintomatici ad alto rischio e che
presentano lesioni intraduttali pre-invasive sono spesso normali
(56,57). E’ quindi una priorità l’identificazione di altri marcatori
molecolari soprattutto per la diagnosi di pazienti con neoplasia
asintomatica (Tabella 4).

Tabella 4

Nuovi marcatori quali βHCG, CA72-4, osteopontina, REG4, RCAs1 e NIC-1 sono in corso di valutazione (62-65).
Le nuove tecniche di proteomica rappresentano una possibile rivoluzione
in quest’ambito poiché sono in grado di identificare dei pannelli di
proteine unici associati al carcinoma duttale pancreatico, oltre a
profili proteici che forniscono una firma molecolare distintiva per
questo tipo di tumore (66-68).
Una cosa importante che emerge da questi studi è la considerazione
dell’improbabilità di trovare un unico marcatore (ad esempio nel siero)
che possa avere sensibilità e specificità tali da poter essere
utilizzato per effettuare lo screening di pazienti asintomatici. E’ per
questo motivo che è sempre più preponderante l’idea di uno screening per
carcinoma duttale pancreatico, che incorpori due o più marcatori.
Un aiuto significativo ad indirizzare i risultati di questi studi di
proteomica viene dai profili di espressione genica, che potranno essere
utili ad esempio alla categorizzazione dei gruppi prognostici così come è
accaduto nel caso del cancro della mammella.

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4.0 QUADRO CLINICO

4.1 Principali manifestazioni cliniche (adenocarcinoma duttale)
4.2 Manifestazioni cliniche meno comuni (adenocarcinoma duttale)
4.3 Manifestazioni cliniche dei tumori esocrini meno frequenti
4.4 Quadri clinici di allarme per un tentativo di diagnosi “precoce”

I tumori del pancreas esocrino (TPE) rappresentano le forme più
frequenti di neoplasia pancreatica. Nel gruppo dei TPE l’adenocarcinoma
duttale, a sua volta, costituisce nettamente la forma prevalente (~ il
90%) (1). Nonostante i numerosi protocolli clinici condotti nell’arco di
più di 30 anni, la prognosi globale della malattia rimane assai
sconfortante e, di fatto, il tasso di incidenza annuale dei TPE
corrisponde, virtualmente, a quello di mortalità (2,3). La resezione
chirurgica resta al momento attuale ancora l’unica potenziale
possibilità curativa, ma è noto che, purtroppo, solo circa un paziente
su cinque riesce ad arrivare ad un intervento resettivo con intento
radicale (1-3). Nella maggioranza dei casi la diagnosi è tardiva, in
genere quando è già presente invasione loco-regionale o malattia
metastatica. L’aspecificità dei sintomi e segni clinici nelle prime fasi
di malattia e la mancanza di programmi di screening su popolazioni
realmente ad alto rischio rendono ardua la diagnosi precoce nella
pratica clinica. Il ritardo diagnostico è in gran parte legato al fatto
che il dolore addominale e l’ittero, sintomi principali dei TPE, fanno
la loro comparsa, quasi sempre, in una fase in cui il tumore è già in
uno stadio avanzato.
Particolarmente, i TPE del corpo-coda ghiandolare sono
oligo/pauci-sintomatici negli stadi iniziali di malattia e solo in stadi
più avanzati, quando tuttavia l’intervento chirurgico ad intento
radicale è praticamente impossibile, si manifesta una sindrome clinica
caratterizzata prevalentemente da dolore, anoressia e calo ponderale.
Solo i rari carcinomi dell’area papillare costituiscono un’eccezione a
quanto sopra, poiché essi possono esercitare precocemente effetto massa e
quindi ittero clinicamente manifesto.

4.1 Principali manifestazioni cliniche (adenocarcinoma duttale)

Abitualmente, i pazienti giungono all’osservazione per la comparsa di ittero.
Una parte di questi pazienti, se interrogati con attenzione,
riferiscono sintomi vaghi per diverse settimane o mesi precedenti
l’ittero. Si tratta di sintomi, quali “fastidio” addominale
difficilmente localizzabile e capriccioso, sazietà precoce, anoressia,
facile affaticamento e, più di rado, disgusto per caffè, fumo di
sigaretta, vino (4). Sfortunatamente, quasi sempre questi sintomi del
tutto aspecifici sono sottostimati sia da parte del clinico sia del
paziente o attribuiti ad altri più comuni disordini gastrointestinali
che, di fatto, possono coesistere. E’ necessario quindi avere in mente
un alto indice di sospetto verso la diagnosi di carcinoma del pancreas
(CP) in pazienti con questi sintomi “indeterminati”, prima dello
sviluppo dell’ittero. Questo sospetto, basato essenzialmente su dati
clinici, andrebbe particolarmente esercitato da quei sanitari (medici di
famiglia), cui i pazienti si rivolgono in prima istanza, spesso mesi
prima che si giunga all’osservazione specialistica ospedaliera (5).
L’ittero a carattere ingravescente è presente in più dell’ottanta
percento dei TPE della testa ed è complicato nelle sue fasi iniziali,
solo raramente, da colangite e prurito (Tabella 1). L’ittero va indagato
con la massima celerità, poiché nelle fasi iniziali della sua comparsa,
circa il 50% dei pazienti ha ancora una lesione pancreatica resecabile
(1,3). Nei TPE del corpo-coda, esso è presente in meno del 10% dei
pazienti ed è di regola espressione di malattia metastatica epatica.
L’ittero si associa in genere a dolore addominale, ma vi possono essere
condizioni, almeno nelle prime fasi di malattia, di ittero senza dolore
con colecisti palpabile (segno di Courvoisier-Terrier). Questa
presentazione “classica” fa riferimento all’assenza di dolore nei
quadranti addominali alti di destra (in contrasto all’ittero con dolore
da calcolosi) e all’ingrandimento della colecisti per l’ostruzione del
flusso di bile. Con il progredire della stasi biliare aumenta
l’incidenza sia della colangite sia, soprattutto, del prurito.
Il dolore addominale è un altro sintomo
cardine dell’adenocarcinoma del pancreas ed è generato sia dalla
diretta invasione sia dalla compressione del plesso celiaco e/o
dall’ostruzione dei dotti pancreatici. Il dolore è, in genere, già
presente da 2-3 mesi prima che il paziente ricorra alla consultazione
medica. Si tratta di un dolore profondo, più frequentemente notturno,
epi-mesogastrico e/o dorsale, a sbarra, esacerbato dalla posizione
supina e lenito da quella seduta, non responsivo ai comuni analgesici,
progressivamente ingravescente. Non ha rapporti in genere con le
evacuazioni intestinali né con l’assunzione del cibo, anche se in
qualche caso può essere esacerbato dal pasto.
Il calo ponderale è presente in quasi
la totalità dei pazienti al momento della diagnosi. In media, viene
segnalata una perdita di 5-7 Kg di peso corporeo in 6-10 settimane, con
le massime perdite nei TPE del corpo-coda ghiandolare (6). Rispetto ad
altre entità tumorali, i TPE hanno la più alta incidenza di cachessia. I
meccanismi patogenetici sono legati alla perdita di appetito,
secondaria al dolore addominale, ad una restrizione dell’apporto
alimentare per stenosi duodenale o ritardo di svuotamento gastrico e a
fenomeni di maldigestione da insufficienza pancreatica esocrina. La
liberazione in circolo dalla massa tumorale di una serie di citochine ad
attività cachettizzante porta ad un’aumentata proteolisi e lipolisi, ad
una ridotta sintesi di proteine muscolari e ad un aumento della spesa
energetica a riposo (7).

Figura 1 Patogenesi della cachessia nell’adenocarcinoma del pancreas (CP)

In circa la metà dei pazienti, al momento della diagnosi sono presenti nausea e/o vomito. Questi sintomi sono più comunemente associati alla presenza di metastasi epatiche.
Sono segnalate, infine, turbe dell’alvo,
più frequentemente diarrea che stipsi. Meno del 5% dei pazienti può
presentare una steatorrea transitoria dovuta ad occlusione maligna dei
dotti pancreatici.

Tabella 1 Principali manifestazioni cliniche in pazienti nel
carcinoma del pancreas con localizzazioni a carico della testa e del
corpo-coda

4.2 Manifestazioni cliniche meno comuni (adenocarcinoma duttale)

Complessivamente, il diabete è presente
in circa il 33% dei pazienti con TPE avanzati e circa il 10% di questi
può presentare un diabete insorto, o peggiorato, in stretta vicinanza
temporale con la diagnosi di neoplasia. Una depressione maggiore del tono dell’umore
è una delle principali manifestazioni del cancro in fase avanzata e può
essere il sintomo iniziale in pochi pazienti con TPE. La depressione
può essere specificamente attribuita alla malattia o può essere dovuta
al contemporaneo interessamento metastatico di altri organi e apparati.
Manifestazioni di tromboembolismo venoso
(sindrome di Trousseau) possono essere presenti in circa il 2-4% dei
pazienti anche come sintomatologia di esordio, ma non sono specifiche
dei TPE in quanto possono verificarsi anche in adenocarcinomi di altri
organi. Sono relativamente più frequenti nei TPE del corpo-coda.
Altri sintomi “minori” sono costituiti da edema periferico, febbre, distensione addominale, sensazione di massa addominale, episodi di pancreatite acuta a genesi indeterminata.

4.3 Manifestazioni cliniche dei tumori esocrini meno frequenti

I tumori cistici del pancreas sono le forme più comuni
di TPE dopo l’adenocarcinoma duttale (circa il 10% di tutti i tumori del
pancreas), suddivisi, in base alle caratteristiche anatomo-patologiche,
in mucinosi e sierosi (8). Il comportamento biologico di queste forme
tumorali è variabile in quanto pur essendo neoplasie benigne nelle fasi
iniziali di malattia, tendono nel tempo a degenerare, con elevata
frequenza quelli mucinosi, molto raramente i sierosi.
La sintomatologia clinica è altrettanto subdola ed aspecifica come
quella dell’adenocarcinoma duttale e non di rado queste neoplasie
vengono diagnosticate del tutto accidentalmente durante esami ecografici
effettuati per i più svariati motivi (9). In fase iniziale, nella
maggior parte dei casi prevalgono i sintomi dispeptici, laddove la
comparsa di sintomi che possano più specificamente indirizzare verso una
patologia pancreatica (dolore, calo ponderale, anoressia, ittero) è
tipica delle forme già degenerate ed avanzate di malattia (10). Va
ricordato tuttavia che, mentre il ritardo diagnostico nel caso di
adenocarcinoma pancreatico è determinante nel condizionare una prognosi
assolutamente sfavorevole, nei tumori cistico-mucinosi la finestra
diagnostico-terapeutica è molto più ampia, potendosi registrare anche
intervalli lunghi di tempo (anni) tra l’insorgenza della neoplasia e la
sua degenerazione maligna (11).

I tumori intraduttali papillari mucinosi costituiscono
un ulteriore (raro) gruppo di neoplasie, il cui comportamento biologico è
simile a quello dei tumori cistico-mucinosi (12,13). Il loro quadro
clinico è variabile e dipende strettamente dalla localizzazione (dotto
pancreatico principale o dotti secondari) e dall’estensione della
neoplasia (lesione segmentaria o totale). La sintomatologia può essere
del tutto sovrapponibile a quella dei tumori cistici o
dell’adenocarcinoma. L’iperproduzione di mucina può determinare
ostruzione repentina del sistema duttale con episodi di pancreatite
acuta oppure un’ostruzione graduale e progressiva con comparsa di una
condizione di pancreatite cronica ostruttiva (14).

4.4 Quadri clinici di allarme per un tentativo di diagnosi “precoce”

Un primo quadro clinico di allarme è rappresentato dall’improvvisa
comparsa di diabete in un paziente di 60-70 anni, in assenza di
familiarità e di altre condizioni di frequente associate al diabete
(obesità, dislipidemie, sedentarietà, ecc.). Infatti, il 60-80% dei
pazienti con adenocarcinoma del pancreas sviluppa diabete nei primi due
anni di malattia e raramente il diabete può rappresentare il primo segno
clinico della malattia (3). La possibilità dello sviluppo di neoplasia
deve poi essere presa in considerazione nei diabetici in cui
inspiegabilmente si rilevi difficoltà nel controllo metabolico associata
o meno a riduzione dell’appetito e calo ponderale.
Un secondo quadro clinico che deve essere preso attentamente in
considerazione è la comparsa di dolore addominale di tipo pancreatico,
associato ad incremento dei livelli sierici di amilasi e/o lipasi in un
paziente in età avanzata, soprattutto in assenza di fattori eziologici
di pancreatite acuta quali la litiasi biliare, alcolismo, dislipidemie.
Un terzo scenario clinico da sorvegliare attentamente è rappresentato
dalla ricomparsa di dolore addominale in un paziente affetto da
pancreatite cronica da tempo asintomatica. Di regola, la sintomatologia
dolorosa caratterizza i primi anni del decorso di una pancreatite
cronica e tende poi a ridursi nel tempo fino a scomparire, per cui la
ricomparsa del dolore deve far balenare la possibilità della presenza di
un TPE, responsabile della modificazione del quadro clinico. Fra
l’altro, studi epidemiologici hanno dimostrato come la pancreatite
cronica predisponga all’insorgenza dell’adenocarcinoma del pancreas con
un rapporto diretto con la durata della pancreatite (4).
A riprova di ciò, i pazienti affetti da pancreatite ereditaria,
evenienza clinica molto rara, che sviluppano precocemente una condizione
di pancreatite cronica presentano intorno alla sesta-settima decade di
vita un rischio nettamente aumentato di sviluppare un TPE nei confronti
della popolazione generale (15-17).
Un ultimo gruppo di soggetti da valutare con attenzione è costituito dai
parenti di primo grado di pazienti affetti da TPE, che giungono
all’osservazione in seguito a sintomi dispeptici od altra fenomenologia
clinica aspecifica. Un recente studio italiano di ampio profilo
casistico (18) ha infatti dimostrato che questi soggetti presentano un
rischio relativo di sviluppare un TPE quasi triplicato rispetto alla
popolazione generale, rischio che aumenta con il crescere dell’età dei
probandi.

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5.0 DIAGNOSTICA DI LABORATORIO

5.1 Diagnosi sierologica dell’adenocarcinoma pancreatico
5.2 Screening dei soggetti a rischio
5.3 Classificazione e diagnostica molecolare
5.4 Risposta immunologica alla neoplasia
5.5 Diagnosi differenziale dei tumori del pancreas

L’adenocarcinoma duttale rappresenta circa il 90-95% delle neoplasie pancreatiche e la sua incidenza è

pari a circa 11 casi per 100.000 abitanti per anno in Europa (1) e si stima che negli USA si verificheranno

42.470 nuovi casi nel 2009 (2) (vedi cap. 1). I tumori benigni del pancreas rappresentano meno del 10%

delle masse pancreatiche, che, quando individuate, devono essere considerate maligne fino a prova

contraria. Le masse pancreatiche benigne sono schematizzate nella Tabella 1 e la loro incidenza,

confrontata con quella dell’adenocarcinoma pancreatico, viene riportata nella Tabella 2.

Tabella 1 Masse pancreatiche benigne

Tabella 2 Incidenza dei tumori pancreatici (3)

La prognosi estremamente infausta del carcinoma pancreatico (CP) dipende dall’elevata capacità

proliferativa ed invasiva, ma anche dal frequente ritardo diagnostico legato alla paucità della

sintomatologia dei tumori in stadio iniziale ed alla mancanza di biomarcatori sensibili e specifici per

questa neoplasia. Complessivamente, la sopravvivenza a 5 anni dei pazienti resecati è pari al 10-20%, ma

sale al 30-60% per i tumori di diametro < 2 cm od addirittura al 70% per i tumori di diametro < 1 cm (4,5).

Questi risultati sottolineano l’importanza di avere a disposizione biomarcatori per la diagnosi precoce di

adenocarcinoma pancreatico, in quanto potenzialmente utili per migliorare la sopravvivenza a lungo

termine dopo trattamento chirurgico associato a radiochemioterapia (6).

5.1 Diagnosi sierologica dell’adenocarcinoma pancreatico

Tra i numerosi biomarcatori sierologici studiati negli ultimi 30 anni, il CA19-9 rappresenta l’unica

determinazione sierica utilizzata ed approvata per la diagnosi dell’adenocarcinoma pancreatico (7).
Il CA19-9 è un antigene glicoproteico identificato da Koprowski nel 1979 mediante l’utilizzo di anticorpi

monoclonali ottenuti da topi immunizzati con la linea cellulare umana di carcinoma colorettale SW-1116

(8). L’epitopo riconosciuto dagli anticorpi anti CA19-9 è la forma sialilata dell’antigene Lewisa

(sialil Lea) del sistema gruppo ematico di Lewis. L’espressione dell’antigene sialil

Lea dipende, quindi, dal fenotipo Lewis. I soggetti Lewis negativi (Lea-b-), che

rappresentano l’8% ed il 25% della popolazione caucasica e nera rispettivamente, non possiedono

geneticamente l’enzima Lewis fucosiltransferasi e non sono quindi in grado di sintetizzare ed esprimere il

CA19-9. Questo rende conto dei risultati falsamente negativi riscontrabili nei soggetti Lewis negativi.

L’epitopo sialil Lea funge da ligando per le selectine E e P presenti sulle cellule endoteliali e

questo è uno dei meccanismi alla base del processo di extravasazione delle cellule neoplastiche e della

successiva disseminazione metastatica (8). Il CA19-9, sintetizzato dalle cellule duttali pancreatiche e biliari

e dagli epiteli gastrico, colico, endometriale e salivare, è normalmente presente nel sangue in quantità

minime. In corso di patologia neoplastica, le alterazioni di alcuni processi che regolano la produzione ed il

passaggio in circolo delle mucine determinano un aumento dei suoi livelli sierici: diventa così marcatore di

presenza e gravità del tumore.
Il CA19-9 è al momento il marcatore tumorale sierico di riferimento per il CP (7), anche se il suo utilizzo

non viene raccomandato per lo screening, ma solo per la diagnosi e per il follow-up post-chirurgico, inteso

a valutare la ricorrenza di malattia e la risposta alla terapia (7,9). In tutti questi ambiti, le raccomandazioni

non prevedono l’uso del solo CA19-9, ma del marcatore combinato con le indagini strumentali.

CA19-9 e diagnosi
Complessivamente, la sensibilità diagnostica del CA19-9 è pari al 79% (70-90%), la specificità all’82%

(68-91%), il valore predittivo positivo al 72% (41-95%) ed il valore predittivo negativo all’81% (65-98%)

(10). I livelli sierici di questa sialomucina possono aumentare in caso di altre neoplasie del tratto

gastroenterico, ma anche in presenza di ittero benigno (10), condizione che causa un significativo

decremento della sua specificità, tenendo conto che l’ittero è uno dei sintomi principali

dell’adenocarcinoma pancreatico e spesso di manifestazione di esordio della malattia. I dati sopra

riportati sono riferiti al cut-off maggiormente utilizzato per il CA19-9, pari a 37 U/mL. Aumentando il cut-off

aumenta la specificità: con valori di cut-off di 100 U/mL è stata riportata una specificità del 97%, mentre

con livelli > 1.000 U/mL la specificità può arrivare anche al 100%. È importante sottolineare che le

performances della determinazione del CA19-9 migliorano quando vengono considerati pazienti affetti da

neoplasia pancreatica in stadio avanzato, mentre la sensibilità diminuisce significativamente (55%) nei

tumori di diametro < 3 cm (9). La bassa sensibilità di questo marcatore nei confronti di tumori in stadio

iniziale, in associazione con la bassa prevalenza dell’adenocarcinoma pancreatico, rende conto della

mancata applicabilità dello stesso per lo screening di popolazione (11) (Figura 1).

Figura 1

CA19-9 e valutazione della resecabilità
Vi sono evidenze in letteratura che indicano i livelli sierici di CA19-9 come variabile predittiva indipendente

per la determinazione della resecabilità del tumore. Elevati livelli sierici pre-operatori possono essere

correlati con malattia in stadio avanzato, non resecabile. Analogamente, la persistenza di livelli elevati di

CA19-9 post-intervento sono considerati indicativi di persistenza di malattia e di elevato rischio di

ricorrenza. Tuttavia, non vi sono ancora dati sufficienti per utilizzare il CA19-9 da solo nella valutazione

della resecabilità dell’adenocarcinoma pancreatico (7).

CA19-9, prognosi e monitoraggio post-chirurgico
Vi sono evidenze in letteratura che indicano i livelli sierici di CA19-9 come variabile predittiva indipendente

per la sopravvivenza del paziente affetto da neoplasia pancreatica (12). I livelli di CA19-9 determinati al

momento della diagnosi in 104 pazienti sottoposti a trattamento radioterapico si sono dimostrati indicatori

prognostici significativi con un tasso medio di sopravvivenza di 8 mesi e 20 mesi rispettivamente nei

pazienti con livelli superiori o inferiori al valore medio di 680 U/mL (13). Analogamente, il CA19-9 è

risultato essere parametro predittivo di sopravvivenza nei pazienti con tumore pancreatico resecabile

considerando un cut-off di 150 U/mL (14) o 200 U/mL (15). Altrettanto significativa, in termini prognostici,

risulta essere la valutazione della CA19-9 velocity, che indica il grado della variazione delle concentrazioni

sieriche del marcatore in un determinato intervallo temporale. Già nei primi studi in cui veniva valutato

questo parametro, risultava evidente che il ritorno entro i limiti di norma dei livelli sierici di CA19-9 dopo

intervento si associava a sopravvivenza più lunga (stadio I: 33 vs 11.3 mesi; stadio II: 41 vs 8.6 mesi e

stadio III: 28 vs 10.8 mesi) (16). Studi più recenti hanno confermato come questo indice sia una variabile in

grado di predire non solo la sopravvivenza (17), ma anche la risposta al trattamento chemioterapico (18). I

risultati di un recente studio randomizzato controllato dimostrano come i livelli circolanti di CA19-9

basali (cut-off = 59 volte il limite superiore di normalità) siano il più importante fattore indipendente in grado

di predire la risposta al trattamento chemioterapico, mentre, nello stesso studio, non veniva riconfermato il

ruolo prognostico della CA19-9 velocity (19). Non vi è peraltro consenso su quale sia il livello discriminante

ottimale né su quale sia l’intervallo di tempo ottimale per effettuare le determinazioni seriate di CA19-9

post-trattamento. Riduzioni superiori al 20%, 25%, 50% o al 75% (12,19,20) rispetto al basale sono

proposte da diversi autori come discriminanti per la valutazione prognostica; analogamente vengono

proposte determinazioni dopo 4 (17) o 5-6 settimane (14) dal trattamento chirurgico, o dopo 4 o 8

settimane dal trattamento chemioterapico (18,20). La Tabella 3 riassume la metodologia ed i risultati dei

principali studi nei quali viene valutato il significato prognostico della determinazione del CA19-9

post-trattamento e/o del grado di variazione di questo parametro riferito al valore basale pre-trattamento.

Al momento attuale, possiamo considerare il calo percentuale del CA19-9 come valido endpoint nella

valutazione della sopravvivenza, anche se sono necessari ulteriori studi clinici controllati al fine di stabilire i

cut-off e l’intervallo di tempo che deve intercorrere fra le determinazioni successive.

Tabella 3 CA19-9 post-operatorio e CA19-9 velocity per la prognosi dell’adenocarcinoma

pancreatico

5.2 Screening dei soggetti a rischio

I fattori di rischio per l’adenocarcinoma pancreatico sono demografici, ambientali e genetici. Il più

importante fattore demografico di rischio è l’età: più dell’80% degli adenocarcinomi colpiscono soggetti di

età compresa fra 60 ed 80 anni. Altri deboli fattori di rischio demografico sono il sesso maschile e l’etnia,

avendo gli ebrei ed i soggetti di colore un rischio di sviluppare questa neoplasia circa doppio rispetto ai

soggetti di razza caucasica. Il fumo di sigaretta è l’unico fattore ambientale sicuramente correlato con il

rischio di adenocarcinoma pancreatico (22). Il fattore di rischio maggiore è rappresentato dalla

predisposizione genetica (vedi cap. 3).
Lo screening dei soggetti a rischio avrebbe lo scopo d’individuare precocemente le lesioni precancerose

in modo da poter intervenire prima che vi sia lo sviluppo dell’adenocarcinoma. Lo screening andrebbe

effettuato con metodiche strumentali. Tra queste quella più idonea, non solo per sensibilità ma anche per

efficacia costo-beneficio, è l’ecoendoscopia (23,24). Si tratta tuttavia di una procedura ancora in fase di

validazione da parte di Centri con esperienza su un elevato numero di pazienti.
Non vi sono attualmente biomarcatori sierici utili ed il CA19-9 non può essere impiegato in questa

categoria di soggetti come supporto per la decisione clinica. Questo biomarcatore non consente, infatti,

l’identificazione delle lesioni pre-neoplastiche (11,23).
La ricerca delle mutazioni di K-ras, la determinazione della catepsina E, lo studio della metilazione di geni

come la ciclina D2 o p16, nel succo pancreatico raccolto durante ERCP, sembrano di limitata utilità

pratica in termini di sensibilità e specificità. In futuro, potrebbero rivelarsi utili nuovi biomarcatori, misurabili

in fluidi biologici facilmente ottenibili come il siero e con elevata sensibilità nei confronti delle lesioni

pre-neoplastiche. In questo contesto appaiono fondamentali gli studi di proteomica (25,26).
Prima di effettuare l’analisi genetica intesa ad identificare mutazioni germinali di BRCA1, BRCA2,

STK11/LKB1, PRS1 e p16/CDKN2A il paziente e/o i familiari di soggetti affetti devono essere riferiti al

genetista. Solo dopo la raccolta di un’accurata anamnesi familiare sarà possibile decidere quale o quali

mutazioni germinali predisponenti l’adenocarcinoma pancreatico debbano essere ricercate (22,23).

 

Diabete mellito e rischio di adenocarcinoma pancreatico
L’approfondimento dello studio del diabete associato all’adenocarcinoma pancreatico potrebbe

rappresentare un’importante opportunità per lo screening non solo dei soggetti a rischio, ma anche per

l’identificazione del carcinoma sporadico. Il diabete mellito sia di tipo I sia di tipo II rappresenta un

modesto fattore di rischio per l’adenocarcinoma pancreatico (27,28). Viceversa, l’adenocarcinoma

pancreatico è causa di diabete in almeno il 70-80% dei casi (29). L’eziologia del diabete secondario

all’adenocarcinoma pancreatico è stata attribuita negli anni ’90 all’islet amyloid polipeptide, ma non

confermata in studi successivi (29). Presso il Dipartimento di Medicina di Laboratorio dell’Università degli

Studi di Padova, è stato dimostrato in vitro che il diabete secondario ad adenocarcinoma pancreatico è

dovuto a peptidi di basso peso molecolare e di recente abbiamo identificato uno di questi potenziali

diabetogeni, il peptide N terminale della proteina S100A8 (30). Questo peptide, isolato da tumori umani di

pazienti con diabete tumore associato, è in grado di modificare il metabolismo glucidico dei mioblasti e di

interferire con la secrezione di insulina da parte delle β cellule. L’alterato metabolismo glucidico

risulta essere una manifestazione precoce di CP ed è stato stimato che precede le manifestazioni

clinicamente evidenti della neoplasia di circa 36 mesi (29), un intervallo di tempo sufficientemente lungo

perché la diagnosi possa essere considerata precoce. Sebbene sia rilevabile nello stesso soggetto

rispetto ai livelli basali un aumento della glicemia a digiuno fino a tre anni prima della diagnosi di tumore,

questi aumenti rimangono confinati all’interno del limite di riferimento, 5.6 mmol/L. Diabete franco con

iperglicemia a digiuno è solitamente rilevabile in un intervallo di tempo variabile da due anni prima fino al

momento della diagnosi di neoplasia (29). Il fatto che il diabete associato ad adenocarcinoma pancreatico

sia molto frequente e che solitamente preceda anche di anni la diagnosi di neoplasia, supporta l’ipotesi di

considerare i pazienti con diabete di recente insorgenza potenziali soggetti a rischio di neoplasia

pancreatica. L’identificazione del diabete di recente insorgenza dovrebbe essere effettuata mediante

screening annuale della popolazione asintomatica soprattutto nella fascia di età maggiormente a rischio (>

50 anni). L’identificazione di diabete franco o di ridotta tolleranza glucidica consente peraltro solo di

restringere, all’interno della popolazione generale, il numero dei soggetti potenzialmente a rischio di

adenocarcinoma pancreatico. Sono attualmente oggetto di discussione le indagini cui dovrebbe essere

sottoposto il paziente così identificato. La decisione di sottoporre tutti i pazienti con diabete di recente

insorgenza ad indagini strumentali mirate ad identificare la presenza di eventuale neoplasia pancreatica

sembra essere di scarsa utilità oltreché svantaggiosa in termini di costo beneficio (29). Viceversa, la

disponibilità di un biomarcatore altamente sensibile e specifico potrebbe rappresentare un secondo filtro

per lo screening dei soggetti da sottoporre ad indagini invasive. In questo contesto il CA19-9 non può

essere considerato il biomarcatore discriminante: due studi prospettici che condividevano l’obiettivo di

identificare precocemente l’adenocarcinoma pancreatico basandosi sull’identificazione di soggetti con

diabete di recente insorgenza ed aumento dei livelli di CA19-9, pur identificando un elevato numero di casi

(6/115 e 5/36), non raggiungevano l’obiettivo principale in quanto la maggior parte dei casi identificati

erano già in stadio avanzato e non resecabile (29). In uno studio recente sono stati individuati mediante

tecniche di analisi proteomica biomarcatori di basso peso molecolare potenzialmente in grado di

consentire la differenziazione fra soggetti affetti da diabete di tipo II e soggetti affetti da diabete

secondario ad adenocarcinoma pancreatico (26). Sono necessari studi prospettici su larghe serie per

confermare la validità di questi od altri biomarcatori, prima della loro applicazione clinica routinaria.

 

5.3 Classificazione e diagnostica molecolare

L’adenocarcinoma pancreatico è fondamentalmente una malattia genetica, causata da mutazioni

germinali e somatiche di geni che causano neoplasia. Le alterazioni genetiche, che più di frequente si

riscontrano nei tumori del pancreas, sono a carico degli oncogeni HER2/neu e K-ras ed a carico dei geni

oncosoppressori p16, p53, Smad4 e BRCA2. Le mutazioni puntiformi di K-ras sono rilevabili nella quasi

totalità degli adenocarcinomi, ma anche nelle lesioni considerate pre-neoplastiche, come le PanIN o gli

IPMN, al punto che le mutazioni di K-ras sono considerate uno dei primissimi eventi molecolari che

sottendono la trasformazione neoplastica dell’epitelio duttale. Altrettanto precoce è l’iperespressione di

HER2/neu. La progressione della neoplasia si accompagna all’accumulo di mutazioni a carico dei geni

oncosoppressori p53 (mutazioni nell’80% dei casi), p16 (inattivazione nel 75-80% dei casi più

silenziamento per ipermetilazione nel 15% dei casi) e Smad4 (60% dei casi) (31). La ricerca su tessuto

oppure su succo pancreatico delle mutazioni genetiche associate all’adenocarcinoma pancreatico è stata

oggetto di numerosi studi, che hanno avuto quali obiettivi non solo la diagnosi differenziale delle masse

pancreatiche, ma anche la prognosi e la predittività della risposta alle terapie biologiche (32). Lo studio

delle mutazioni degli oncogeni e dei geni oncosoppressori, pur consentendo di chiarire i meccanismi

molecolari che sottendono lo sviluppo dell’adenocarcinoma pancreatico, sono di scarsa utilità nella pratica

clinica per la diagnosi e/o la prognosi. In futuro, potrebbero essere di utilità per discriminare i tumori

responsivi da quelli non responsivi alle terapie biologiche.

5.4 Risposta immunologica alla neoplasia

Lo studio della risposta immunologica alla neoplasia pancreatica è un settore emergente della ricerca

clinica e di laboratorio. Vi sono evidenze sperimentali che dimostrano come la neoplasia pancreatica

inibisca precocemente la risposta immune verso gli antigeni tumorali favorendo l’espansione di

popolazioni cellulari del sistema immunologico ad azione immunosoppressiva. La caratterizzazione della

risposta immunologica alla neoplasia non ha un’immediata applicazione nella pratica clinica, ma potrebbe

rappresentare in futuro un importante bersaglio terapeutico.

5.5 Diagnosi differenziale dei tumori del pancreas

Ci sono tumori benigni del pancreas esocrino e tumori benigni, borderline e maligni del pancreas

endocrino che possono occasionalmente porre problemi di diagnosi differenziale con l’adenocarcinoma

pancreatico. Con l’eccezione dei tumori neuroendocrini, non vi sono attualmente marcatori biochimici e/o

molecolari specifici per i tumori benigni del pancreas. Le neoplasie pancreatiche endocrine sono state

trattate in maniera approfondita nel volume ad esse dedicate: NET-GEP 2009, reperibile nel sito

www.alleanzacontroilcancro.it.

Biomarcatori nei tumori neuroendocrini (NETs) del pancreas
Il dosaggio di peptidi ed amine circolanti nei pazienti affetti da NETs è di utilità per:

1. la diagnosi iniziale;

2. il monitoraggio della progressione della malattia e della risposta al trattamento;

3. la prognosi;

4. il follow-up.

I marcatori biochimici che possono essere misurati nei liquidi biologici possono suggerire la presenza di

specifici tumori (biomarcatori specifici) o possono essere comuni a molte neoplasie neuroendocrine

(biomarcatori generali). Biomarcatori specifici sono: Insulina, i suoi precursori e i prodotti di degradazione

nell’insulinoma; Gastrina nel gastrinoma; Glucagone nel glucagonoma; Peptide vasointestinale (VIP) nel

VIPoma; Polipeptide pancreatico nel PPoma; Somatostatina nel somatostatinoma.

Biomarcatori generali
Con tale definizione si intendono biomarcatori comuni a molti tipi di neoplasie neuroendocrine del tratto

gastroenterico. Tra essi si annoverano le cromogranine, il polipeptide pancreatico, la subunità alfa

dell’HCG e l’enolasi neurone specifica (NSE).

Cromogranine
Le granine sono ubiquitariamente distribuite nelle cellule neuroendocrine dalle quali vengono co-secrete

assieme agli ormoni o ai peptidi o ai neurotrasmettitori da esse prodotti. Il livello sierico delle granine è un

indice non solo di attività neuroendocrina, ma anche della estensione corporea del tessuto

neuroendocrino, comprendente sia le cellule normali sia quelle neoplastiche. La famiglia delle granine

comprende: Cromogranina A (CgA), Cromogranina B (CgB), Secretogranina II (CgC), Secretogranina III

(IBI075), Secretogranina IV (HISL-19), Secretogranina V (7B2) e Secretogranina VI (NESP55). Il

biomarcatore più utile clinicamente in questo gruppo di glicoproteine è la cromogranina A.

Cromogranina A (CgA)
La CgA è una glicoproteina acida di 439 aminoacidi e con PM di 48 KDa che viene codificata da un

gene, composto da 8 esoni, localizzato sul cromosoma 14. Il nome deriva dal fatto che inizialmente la CgA

è stata isolata dai granuli secretori, contenenti catecolamine, delle cellule della midollare del surrene. Al

momento attuale, il dosaggio plasmatico dell’intera molecola raggiunge, nei tumori neuroendocrini, una

sensibilità ed una specificità diagnostica superiore all’85%. I livelli di CgA vengono utilizzati anche per

monitorare la progressione o la regressione dei tumori neuroendocrini durante il trattamento. Infatti,

l’aumento plasmatico della CgA generalmente precede l’evidenza radiologica di progressione.
Rispetto alla determinazione della CgA, meno sensibili e specifiche sono la subunità alfa della

gonadotropina corionica umana (HCG), l’Enolasi Neurone Specifica (NSE) o il polipeptide pancreatico

(33,34).

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[/column][/box][box][column collapse_spacing=”yes” vertical_align=”top” auto_height=”yes” css=”border-top-width: medium; border-top-style: none; border-top-color: initial; border-right-width: medium; border-right-style: none; border-right-color: initial; border-bottom-width: medium; border-bottom-style: none; border-bottom-color: initial; border-left-width: medium; border-left-style: none; border-left-color: initial; padding-top: 0; padding-right: 0; padding-bottom: 0; padding-left: 0; ” width=”24″ last]

6.0 IMAGING (prima parte)

6.1 Ultrasuoni
6.2 Tomografia Computerizzata (TC) e Risonanza Magnetica (RM)
6.3 Tomografia ad emissione positronica (PET)
6.4 Ecoendoscopia (EUS)
6.5 Colangiopancreatografia Retrograda Endoscopica (ERCP)

6.1 Ultrasuoni

Oggi, la metodica è utilizzata per via transaddominale molto
frequentemente e spesso come studio iniziale, nelle sindromi addominali
dolorose e dispeptiche od in presenza di ittero (1,2).
Le strumentazioni più moderne si avvalgono di software sofisticati,
quali il color-doppler, il power-doppler, l’harmonic imaging e quelli
per l’uso del mezzo di contrasto ecografico.
I risultati della metodica dipendono dall’esperienza dell’operatore e
dalla conformazione del paziente. Possono risultare problematici nei
pazienti con abbondante meteorismo o di corporatura robusta (1,2).
Il color-doppler individua, anche senza mezzo di contrasto e.v., le
strutture vascolari arteriose e venose quali il tripode celiaco,
l’arteria mesenterica superiore e la vena porta, anche con valutazioni
di flusso.
Nei pazienti corpulenti, sono difficili da ottenere informazioni sulla
patologia della coda pancreatica. La metodica è comunque utilizzata per
eseguire biopsie pancreatiche anche in questi pazienti quando la
neoplasia risulti inoperabile o per altre manovre interventistiche (2).
Il mezzo di contrasto sonografico di seconda generazione rileva
esclusivamente le strutture vascolari ed appare molto utile per
caratterizzare la neoangiogenesi (1,2).

Adenocarcinoma Duttale
Nell’indagine di base, si presenta generalmente come massa solida,
sempre ipoecogena, a contorni piuttosto irregolari se di elevate
dimensioni, infiltrante il restante parenchima (2).
La vascolarizzazione della neoplasia è generalmente ridotta rispetto a
quella del parenchima normale, per la marcata desmoplasia e per le
componenti fibrosa e necrotiche intratumorali, che riducono la densità
vascolare (3) (Figura 1A, B).

Figura 1 (A, B, C, D, E, F)

Nelle indagini con mezzo di contrasto ecografico, l’adenocarcinoma
appare meno vascolarizzato rispetto al parenchima circostante.
Il grado di differenziazione dell’adenocarcinoma stesso influenza la sua
densità microvascolare, che è generalmente meno elevata nelle lesioni
con più alta malignità (3).
L’infiltrazione delle strutture vascolari, quali tripode celiaco,
arteria mesenterica superiore, arteria epatica e vena porta, risulta
poco apprezzabile sia con il color-doppler sia con lo stesso mezzo di
contrasto e.v., per minore evidenza del versante somato-caudale e per
poca definizione della parete vasale (4).
Il mezzo di contrasto permette, invece, un’esplorazione molto precisa
del fegato, per evidenziare eventuali metastasi ed alta sensibilità e
specificità nel riconoscere l’ostruzione delle vie biliari e la
dilatazione di quelle intraparenchimali epatiche.
La sensibilità per riconoscere l’adenocarcinoma pancreatico è tuttavia
molto variabile (48-89%) con specificità ed accuratezza ridotte (5).
Le informazioni sui linfonodi sono insufficienti per una corretta
stadiazione, mentre eventuali falde di versamento addominale sono invece
ben riconoscibili, anche se di modesta entità.

Neoplasie Cistiche
Gli ultrasuoni riconoscono lesioni cistiche anche < 2 cm se localizzate nella testa o nel corpo del parenchima.
I cistoadenomi sierosi, generalmente benigni, non comunicano con la via
pancreatica principale, possono presentare varietà microcistica nel 70%
dei casi oppure, più raramente, oligocistica e macrocistica; se
prevalgono le microcisti, le masse risultano iperecogene per i numerosi
setti intralesionali che determinano interfacce multiple; nei casi di
lesione macrocistica ed oligocistica, la diagnosi differenziale è più
problematica, anche se il contrasto ecografico può esaltare l’eventuale
neoangiogenesi della parete (6,7,8) (Figura 1 C, D).
I cistoadenomi mucinosi, quasi esclusivi del sesso femminile, per la
loro elevata propensione all’evoluzione maligna necessitano di una
diagnosi precisa e di terapia chirurgica.
Se le dimensioni sono > 2 cm, si presentano generalmente, come masse
anecogene, a contorni netti, sferoidali, a volte multiloculari per la
presenza di setti o di cisti di dimensioni variabili.
Nella variante multiloculare, il quadro risulta ecograficamente più
tipico, mentre in quella uniloculare i problemi di diagnosi
differenziale sono maggiori nei confronti di altre lesioni cistiche e
soprattutto le pseudocisti, che dovrebbero tuttavia essere sospettate in
base all’anamnesi o individuando materiale necrotico nel versante
declive delle lesioni; il cistoadenoma mucinoso dimostra talora
calcificazioni delle pareti, i setti, i noduli parietali e le
vegetazioni papillari possono essere meglio evidenziate con
color-doppler ed iniezione di mezzo di contrasto (8,10).
Le neoplasie mucinose pancreatiche intraduttali (IPMN), se di piccole
dimensioni e di tipo periferico, sono riconoscibili con difficoltà.
Sono più facilmente dimostrabili invece le forme del dotto principale,
quando questo presenta dilatazione notevole, eventuali nodulazioni
parietali e segni di ipervascolarizzazione durante l’iniezione del mezzo
di contrasto (9,10).

Neoplasie Endocrine (già trattate nel volume ad hoc: NET-GEP 2009, www.alleanzacontroilcancro.it)
Sono piuttosto rare ed insorgono dalle cellule endocrine del pancreas,
costituendo l’1-5% di tutte le neoplasie di questo parenchima; le
lesioni si sviluppano dalle isole di Langerhans, originando dalle
cellule α (glucagone), dalle cellule β (insulinomi), dalle cellule δ
(somatostatinomi), dalle cellule D (gastrinomi) e dalle cellule A/D
(vipomi) (3,9,14).
Le neoplasie endocrine funzionanti secernono sostanze ormonali che le
caratterizzano (insulinomi, gastrinomi, glucagonomi, vipomi,
somatostatinomi), perché determinano quadri sintomatologici piuttosto
precisi, che portano precocemente alla loro ricerca; forse anche per
questo motivo dimostrano diametro < 2 cm (Figura 1E, F).
I non-sindromici, al momento della diagnosi, presentano invece diametri variabili da 3 a 25 cm (11).
La maggior parte delle lesioni endocrine risulta ipoecogena rispetto al
parenchima circostante, a contorni netti e raramente possono
manifestarsi come lesioni con componente cistica; sono presenti aree
iperecogene quando la neoplasia non funzionante raggiunge dimensioni
cospicue e le calcificazioni, se evidenti, sono prevalentemente presenti
nelle lesioni di maggiori dimensioni (12).
La vascolarizzazione delle lesioni più piccole è poco evidente nelle
immagini color-doppler e power-doppler per l’esiguità della
neoangiogenesi intratumorale, mentre le masse più cospicue presentano
vascolarizzazione più grossolana che si evidenzia con contrasto
ecografico (13).
Le lesioni endocrine, se ipovascolarizzate, si caratterizzano per stroma
fibroso piuttosto marcato, mentre le metastasi epatiche che spesso
rivelano la lesione pancreatica, presentano lo stesso quadro vascolare
della lesione primitiva.
Recenti esperienze hanno inoltre dimostrato che le neoplasie non
funzionanti presentano un quadro tanto più ipovascolare quanto più
maligne e con elevato Ki67 (14).

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6.2 Tomografia Computerizzata (TC) e Risonanza Magnetica (RM)

TC
Per la sua elevata risoluzione spaziale, la TC è oggi considerata la
metodica fondamentale per definire rispetto al parenchima normale le
lesioni neoplastiche permettendone anche la stadiazione.
La tecnica necessita d’iniezione endovenosa di mezzo di contrasto iodato
in quantità variabili da 100 a 130 ml, con velocità d’iniezione di 4-6
ml/sec e con concentrazione variabile da 300 a 400 mg/I/ml; i parametri
saranno definiti in base al tipo di patologia sospettata ed al peso
corporeo del paziente.
Per adattare l’indagine alle variazioni emodinamiche determinate dal
ciclo cardiaco di ciascun individuo, è necessario utilizzare tecniche di
monitoraggio del bolo.
Le lesioni sono meglio riconosciute nella cosiddetta “fase pancreatica”,
che si verifica dopo 30-50 secondi dall’inizio dell’iniezione del mezzo
di contrasto endovena o a circa 20-23 secondi dopo il raggiungimento di
una “soglia aortica” di 100-120 U.H. (1).
La cospicuità delle masse sarà tanto maggiore quanto più elevati saranno
la concentrazione di iodio e la velocità del flusso del mezzo di
contrasto (2).
Le attrezzature più moderne, dotate di detettori da 64 a 128 strati,
permettono immagini volumetriche con collimazioni sottili (0.625-1.25
mm), dimostrando non solo le lesioni pancreatiche, ma visualizzando
anche le strutture vascolari, gli organi circostanti e la loro eventuale
infiltrazione.
L’acquisizione volumetrica con voxel isotropico consente inoltre
ricostruzioni MPR (Multiplanar Reconstruction) anche CPR (Curved Planar
Reconstruction) ed altre riformattazioni con tecnica VR (Volume
Rendering), MIP (Maximum Intensity Projection) o Min IP (Minimum
Intensity Projection) indispensabili per la stadiazione (3,4,5).

Adenocarcinoma Duttale
L’adenocarcinoma pancreatico si manifesta principalmente come deformità
massiva del profilo pancreatico, non ben delineata prima dell’iniezione
del mezzo di contrasto endovena.
E’ utile far bere al paziente 500-750 ml d’acqua, come mezzo di
contrasto negativo, per migliorare la definizione dell’anatomia
pancreatica e peripancreatica.
Circa il 60% delle lesioni si localizza nella testa del parenchima, il
15% nel corpo ed il 5% a livello della coda; il 20% può presentare
invasione estesa del parenchima pancreatico (6).
La stadiazione loco-regionale dell’adenocarcinoma pancreatico è correlata soprattutto al sito d’origine.
Le lesioni del versante anteriore della testa pancreatica possono
infiltrare le strutture gastroduodenali e l’arteria epatica comune.
Le lesioni del versante posteriore della testa coinvolgono soprattutto
la vena porta, le vene mesenteriche e l’arteria mesenterica superiore.
I tumori del processo uncinato aggrediscono le arterie
pancreatico-duodenali inferiori, l’arteria e la vena mesenterica
superiore, con estensione al mesentere.
Le neoplasie del corpo tendono ad infiltrare il tripode celiaco e la
vena porta, mentre quelle della coda determinano encansement dei vasi
splenici, aggredendo gli organi contigui (stomaco, surrene e milza).
Prima dell’iniezione di mezzo di contrasto endovena, la lesione è poco
definita, mentre in “fase pancreatica” l’adenocarcinoma appare
prevalentemente ipodenso, a contorni sfumati e con minore cospicuità in
“fase portale”; non presenta quasi mai calcificazioni (7).
La TC multistrato permette oggi anche studi perfusionali, che hanno
dimostrato come la neoangiogenesi risulta tanto più ridotta, quanto più
elevata è la malignità della lesione.
Se di ridotte dimensioni, è circondato da parenchima normale e comunque
determina, in molti casi, dilatazione del dotto di Wirsung, con atrofia
del parenchima a monte della lesione; quando coinvolge la testa
pancreatica si manifesta spesso ittero per ostruzione della via biliare
principale e le ricostruzioni in fase portale, con MIP, dimostrano con
precisione il livello di ostruzione (8).
In rari casi, se < 2 cm, può essere intuibile solo nelle
riformattazioni curvilinee dell’ostruzione del dotto di Wirsung (Figura
1A); in questi pazienti serve valorizzare i segni secondari, quali la
presenza di atrofia parenchimale o l’ingrossamento della struttura
pancreatica (9).
Nelle lesioni più voluminose, il tessuto adiposo peripancreatico risulta
spesso sfumato e striato per infiltrazione anche precoce del versante
retro peritoneale con caratteristica desmoplasia.

Figura 1 (A, B, C, D, E, F)

La TC in fase portale riconosce le lesioni metastatiche epatiche abitualmente come aree ipodense a contorni sfumati.
L’eventuale invasione mesenterica, con carcinosi peritoneale, è talora
apprezzabile per la presenza di falde ascitiche che possono essere di
minime dimensioni. E’ considerata T4 l’infiltrazione dello stomaco,
della milza e del colon contigui, del tripode celiaco, dell’arteria
epatica e/o mesenterica superiore (10).
Sono definite non resecabili le neoplasie con metastasi epatiche e/o
polmonari, o con infiltrazione del retro peritoneo e/o dei linfonodi
lombo aortici (M1) (8).
Riconoscere l’eventuale infiltrazione della vena porta e della vena
mesenterica superiore è cruciale per le possibilità di un intervento
chirurgico; infatti, è prevista la possibilità di resezione della vena
porta e/o della vena mesenterica, qualora infiltrate.
Esiste un ampio consenso sul fatto che la duodenocefalo-pancreasectomia
(DCP) con resezione e ricostruzione della vena è la procedura standard
per il CP che interessa il tronco mesenterico portale, a patto che siano
disponibili per la ricostruzione il tronco venoso a monte ed a valle,
che il tumore non coinvolga l’arteria mesenterica superiore o l’arteria
epatica e che la procedura sia mirata ad ottenere una resezione R0 o R1
(11).
Lo studio del coinvolgimento delle strutture venose utilizza, come
variante, il criterio del riconoscimento, prevalentemente sul piano
assiale, dell’infiltrazione delle pareti della struttura venosa rispetto
alla neoplasia, infatti, la probabilità di resecare la lesione è
compresa tra il 97% ed il 100%, qualora i piani adiposi siano
conservati, si riduce al 60% nei casi in cui l’infiltrazione sia
compresa tra i 90° ed i 180°, scende al 20% qualora l’infiltrazione
superi i 180°. Quando l’infiltrazione supera i 270°, il tumore non è
abitualmente resecabile (12) (Figure 2 e 3).
Sono stati descritti due segni molto utili per valutare l’infiltrazione
venosa quali il teardrop sign o deformazione “a goccia” della struttura
venosa (Figura 3A) o, nei casi d’infiltrazione della vena mesenterica,
la presenza di vene pancreaticoduodenali dilatate.
E’ infine possibile diagnosticare, sulla base dei circoli venosi
collaterali, un’ipertensione portale distrettuale da ostruzione della
vena splenica.

Figura 2 (A, B, C, D, E, F)

Figura 3 (A, B, C, D, E, F)

Si definisce resecabile un CP quando non ci sono metastasi a distanza,
non c’è evidenza di coinvolgimento (contatto, distorsione, trombosi
neoplastica, deformazione) del tronco mesenterico portale, è rilevabile
un piano grassoso attorno all’asse celiaco, all’arteria epatica ed
all’arteria mesenterica superiore.
Si definisce borderline resecabile un CP quando non ci sono metastasi a
distanza, c’è un coinvolgimento del tronco mesenterico portale (ma è
presente un sufficiente tratto venoso libero a monte ed a valle per la
ricostruzione) e/o un coinvolgimento dell’arteria gastroduodenale fino a
stretto contatto con l’arteria epatica, e/o un contatto del tumore con
l’arteria mesenterica superiore per non più di 180°.
Si definisce localmente avanzato un CP quando non ci sono metastasi a
distanza, ma c’è un coinvolgimento del tripode celiaco e/o dell’arteria
mesenterica superiore > 180°, e/o del tronco mesenterico portale
senza possibilità di ricostruzione (13).

Neoplasie Cistiche
Le neoplasie cistiche comprendono il cistoadenoma sieroso microcistico,
il tumore cistico mucinoso, il tumore intraduttale papillare mucinoso ed
il cosiddetto tumore solido pseudopapillare; rare sono le neoplasie
endocrine cistiche, le metastasi cistiche, i teratomi cistici ed i
linfangiomi (14,15).
Gli adenomi sierosi microcistici prevalgono nel sesso femminile (80-90%)
intorno ai 60-70 anni d’età e dimostrano alla TC aspetto lobulato,
densità ridotta, anche nelle immagini prima dell’iniezione di mezzo di
contrasto endovena, per lo più < 6 cm ma con dimensioni che possono
superare i 12 cm; nel 20% dei casi sono presenti calcificazioni che si
situano al centro della massa, con aspetto stellato da cicatrice
centrale (16). L’iniezione di mezzo di contrasto endovena determina
iperdensità delle sepimentazioni fibrose e pertanto l’adenoma sieroso
microcistico in fase arteriosa risulta iperdenso.
E’ tipico quando dimostra il cosiddetto aspetto “ad alveare” per setti
fibrosi molto densi che lo intersecano, mentre la diagnosi differenziale
è molto più difficile, talora impossibile, quando si presenta con
densità fluida ed una morfologia oligocistica e macrocistica prevalente
nel sesso maschile (17).
I tumori cistici mucinosi del pancreas, che sono pressoché esclusivi del
sesso femminile, prevalgono nella coda e nel corpo del parenchima,
comunicano eccezionalmente con il dotto principale, sono discretamente
rari e richiedono una diagnosi precisa, dal momento che possono evolvere
in cistoadenocarcinomi mucinosi.
La resezione guarisce i pazienti con cistoadenoma mucinoso benigno o
borderline, mentre in caso di trasformazione maligna la sopravvivenza a
lungo termine diminuisce drasticamente: 50-75% dei casi (18). Le lesioni
cistiche sono poco definite prima dell’iniezione di mezzo di contrasto
endovena, risultano ipodense in “fase pancreatica” e circondate da
parenchima pancreatico normale con orletto capsulare più denso.
Generalmente ben circoscritti, possono presentare calcificazioni
curvilinee periferiche, le quali, anche se piuttosto rare (20% dei
casi), sono sospette per malignità (6). In fase contrastografica
presentano sepimenti, o piccole cisti intramurali, piuttosto
caratteristici. Si possono associare, a monte delle lesioni, segni da
pancreatite cronica con atrofia parenchimale, dilatazione del dotto di
Wirsung ed aree di ridotta densità.
La lesione denominata IPMN, o tumore intraduttale papillare mucinoso,
origina dall’epitelio del dotto pancreatico principale (lesione del
dotto principale), dalle sue ramificazioni (lesione di tipo periferico) o
da entrambe (forme miste); la neoplasia è stata riconosciuta nel 1982 e
definitivamente classificata dal WHO nel 1996 (19) (vedi cap. 2,
Tabella 1). Predilige il sesso maschile e si può manifestare con dolore
addominale nel 30-80% dei pazienti. Presenta aggressività variabile,
potendo variare dall’adenoma al carcinoma e la produzione di muco
determina la dilatazione del sistema duttale con pattern papillare delle
localizzazioni neoplastiche intraluminali. La localizzazione periferica
più tipica della neoplasia è nel processo uncinato ed in questi casi il
dotto pancreatico principale può risultare poco dilatato.
Nelle ricostruzioni multiplanari e soprattutto in quelle curvilinee è
possibile dimostrare la comunicazione tra le lesioni ed il dotto
principale, che risulta segno fondamentale per la diagnosi; abitualmente
non sono presenti calcificazioni e non sono riconoscibili stenosi, che
sono più tipiche della flogosi cronica (20).
Le forme della via principale dimostrano dilatazione diffusa del dotto,
nel quale possono essere presenti difetti parietali determinati sia da
muco, sia da lesioni papillari (Figura 1B). La TC in fase portale
dimostra dilatazione del dotto principale, rilevando iperdensità nei
noduli parietali quando non costituiti da muco e dimostrando il segno
della protrusione della papilla nel lume duodenale, considerato
patognomonico (21).

Neoplasia Solida Pseudopapillare
E’ considerata variante rara di neoplasia pancreatica e si manifesta
quasi esclusivamente in giovani donne, intorno a 20-30 anni; spesso
asintomatica e riconosciuta occasionalmente, cresce lentamente,
dimostrando in rari casi malignità di medio grado, con metastasi
epatiche (22,23).
Alla TC, le lesioni sono piuttosto voluminose, talora cistiche o parzialmente solide e bene capsulate.
Nella neoplasia cistica solida, il versante solido è prevalentemente
periferico, con aree centrali anche emorragiche e di aspetto iperdenso,
dopo mezzo di contrasto endovena, anche della capsula periferica.
Calcificazioni periferiche curvilinee o centrali amorfe, considerate in
passato molto rare per questa neoplasia, sono state oggi descritte più
frequentemente.

Tumori Pancreatici Endocrini (già trattati nel volume ad hoc: NET-GEP 2009, www.alleanzacontroilcancro.it)
Sono classificati come sindromici (40-50%) e non sindromici (50-60%). I
sindromici si caratterizzano per l’elevata produzione di ormoni in grado
di provocare una sindrome clinicamente riconoscibile (insulinoma,
gastrinoma, glucagonoma, vipoma, somatostinoma). Al momento della
diagnosi, gli insulinomi presentano spesso un diametro < 2 cm, mentre
gli altri tumori sindromici ed i non sindromici sono generalmente di
dimensioni maggiori.
Per i sindromici è nota l’associazione con alcune sindromi note, come ad
esempio MEN I, Von Hippel-Lindau e neurofibromatosi tipo I (6).
L’insulinoma è la lesione più comune e rappresenta circa il 60%
dei tumori endocrini funzionanti; viene sospettato sulla base della
triade di Whipple che include ipoglicemia, sintomi da ipoglicemia e
risoluzione dei sintomi con la somministrazione di glucosio.
Solo il 5-10% di questi tumori è maligno, raramente cistici, possono
localizzarsi in qualsiasi segmento del parenchima pancreatico ed essere
multipli nella sindrome MEN I (18).
Risultano isodensi rispetto al parenchima nelle immagini prima
dell’iniezione di mezzo di contrasto endovena e molto iperdensi nelle
immagini in fase arteriosa per neoangiogenesi piuttosto marcata; talora
possono determinare involuzione adiposa del parenchima circostante
(Figura 1C).
Il gastrinoma rappresenta per frequenza la seconda neoplasia funzionante e comprende circa il 20% di tutti i tumori endocrini sindromici.
Il gastrinoma come l’insulinoma può essere associato alla sindrome MEN I
nella quale risulta spesso multifocale; generalmente piccolo è
localizzabile nel cosiddetto “triangolo del gastrinoma” soprattutto
nella parete duodenale.
Nelle immagini pre-contrasto la lesione è poco riconoscibile, mentre
durante l’iniezione di mezzo di contrasto, sia in fase arteriosa sia in
fase portale, il comportamento densitometrico può risultare variabile:
ipervascolare o ipovascolare, ma con orletto iperdenso in fase tardiva,
considerato più tipico.
Il glucagonoma, che presenta la cosiddetta sindrome 4D
(dermatosi, diarrea, depressione e trombosi venosa profonda), risulta di
dimensioni un po’ più elevate, intorno ai 4-6 cm e con prevalente
ipervascolarizzazione in fase arteriosa (18).
Il vipoma, responsabile della sindrome di Werner-Morrison,
caratterizzata da diarrea acquosa, ipokaliemia e acloridria, rivela
imaging molto variabile come il somatostatinoma, che rappresenta
meno dell’1% dei tumori endocrini funzionanti; produce una quantità
elevata di Somatostatina, che inibisce molti altri ormoni provocando
diabete mellito, colelitiasi, perdita di peso e ipocloridria.
I tumori non sindromici generalmente secernono una ridotta
quantità di ormoni e per questo sono clinicamente silenti, a meno che
non determinino effetto massa o metastasi (18).
La TC può evidenziare quadri ipovascolari o ipervascolarizzati e
comunque tutte le lesioni endocrine pancreatiche sono meglio
riconosciute nell’acquisizione bifasica, tipo pancreatico, utilizzando
collimazione sottile, isotropica (Figura 1D, E).
La sensibilità della metodica per questa patologia è variabile ed è
compresa tra 71% e 82% se le indagini sono eseguite con macchine dotate
di multidetettore.

Neoplasie Rare
Tra tutti i tumori rari, il più comune è il carcinoma acinare, di natura
epiteliale, responsabile della sindrome di Weber-Christian da
iperproduzione di lipasi.
Può presentare dimensioni ridotte, apparendo esofitico, a contorni
relativamente netti e discretamente vascolarizzato in fase pancreatica,
oppure più voluminoso, di cospicue dimensioni, anche per alterazioni
necrotiche (6).
Molto più raro è il pancreatoblastoma, che predilige l’età
infantile ed il sesso maschile, dimostrando dimensioni cospicue e
morfologia circoscritta e capsulata, con quadro ipervascolare.
Le metastasi pancreatiche singole o multiple originano
principalmente da neoplasie del rene, del polmone, della mammella, del
colon e da forme linfomatose; la maggior parte risulta ipodensa in fase
pancreatica, talora cistiche e con cercine denso periferico, mentre
quelle da melanoma o da carcinoma renale sono ipervascolarizzate in fase
pancreatica, indistinguibili dai tumori endocrini (Figura 1F) (6).
Infine, può essere localizzato al pancreas il linfoma, che
risulta in forme rare extranodali; può interessare un’area limitata del
pancreas, ma per lo più è evidente in tutto il parenchima, potendo
confondersi in fase contrastografica con la pancreatite cronica
autoimmune diffusa.

RM
L’indagine RM con l’avvento di nuovi hardware (1.5-3 Tesla) e di bobine
phased-array e del parallel imaging dimostra maggiore utilità nello
studio della patologia pancreatica.
La multiparametricità e la multiplanarietà della metodica consentono
l’uso di numerose sequenze d’impulsi e permette, soprattutto con i
gradienti di elevata intensità, l’acquisizione in apnea delle immagini
sia senza sia con mezzo di contrasto.
Sono considerate particolarmente utili le sequenze 3D T1 pesate dopo
iniezione di mezzo di contrasto paramagnetico e con saturazione del
segnale del tessuto adiposo come pure le sequenze SPGR (Spoiled Gradient
Recalled), fondamentali per l’acquisizione angiografica sia arteriosa
sia venosa da ricostruire come post-processing nelle workstation dotate
di programmi dedicati (MIP, VR e MPR) (18).
Inoltre, sono possibili valutazioni precise delle strutture duttali
biliari e pancreatiche (MRCP) (Magnetic Resonance
Cholangio-Pancreatography), con sequenze dedicate denominate SSFSE
(Single Shot Fast Spin Echo) e HASTE (Half Fourier Acquisition
Single-Shot Turbo Spin-Echo); il mezzo di contrasto super-paramagnetico
per via orale, favorisce la visualizzazione della funzionalità
pancreatica durante le indagini con gli stimoli con secretina, perché
sottrae il segnale elevato del lume duodenale.
Sono disponibili numerosi mezzi di contrasto paramagnetici, per via
endovenosa, in parte anche epatospecifici e quindi utili in fase tardiva
per dimostrare eventuali metastasi epatiche e direttamente le vie
biliari, dal momento che sono escreti nell’albero biliare in percentuale
variabile dal 5% al 20%. Alcuni mezzi di contrasto a base di manganese e
ferro, per il loro tropismo epatocellulare e per le cellule di Kupfer,
contribuiscono a rendere cospicue eventuali lesioni epatiche (24).
Recenti acquisizioni utilizzano anche in ambito addominale il fenomeno
della DWI (Diffusion-Weighted Imaging): queste esperienze costituiscono
la frontiera più avanzata dell’imaging per individuare o caratterizzare
le lesioni solide e cistiche del pancreas (25).
Sono possibili valutazioni sia quantitative sia qualitative.
L’uso di valori di b-value fra 500 e 1.000 aiuta a riconoscere con
precisione le lesioni che presentano restrizione della diffusione.
Più complesse sono le valutazioni quantitative, che dovrebbero
utilizzare l’ADC-map (Apparent Diffusion Coefficent), ma per questo tipo
di valutazione vi sono moltissime varianti che rendono complesse le
valutazioni (26,27).

Adenocarcinoma Duttale
L’adenocarcinoma pancreatico per la sua caratteristica desmoplasia e per
la necrosi risulta tipicamente ipointenso rispetto al parenchima
normale nelle immagini T1 pesate sia con saturazione del segnale del
tessuto adiposo, sia nelle immagini dopo iniezione di mezzo di contrasto
endovena, con maggiore cospicuità in fase pancreatica (28). Alcune
neoplasie di piccole dimensioni possono dimostrare enhancement
periferico ed il parenchima pancreatico a monte della lesione
neoplastica è ipointenso nelle immagini T1 pesate se si associa a
pancreatite cronica.
La tecnica MRCP mostra le vie biliari ed il dotto pancreatico ed è
considerato patognomonico dell’adenocarcinoma il segno del cosiddetto
“doppio dotto”, mentre il cosiddetto “dotto penetrante” è considerato
più tipico della pancreatite cronica (6).
Le immagini dopo iniezione di mezzo di contrasto paramagnetico possono
essere acquisite in apnea con sequenze 3D T1 pesate e con saturazione
del segnale del tessuto adiposo, evidenziando le strutture arteriose e
venose, con valutazione molto precisa dell’estensione e della
resecabilità della neoplasia; risulta pertanto molto utile ricostruire
dalle acquisizioni volumetriche immagini delle strutture parenchimali e
vasali, utilizzando gli algoritmi MIP, MPR e VR.
Anche per l’indagine RM, le valutazioni dell’infiltrazione vasale sono quelle già descritte con la tecnica TC.
I linfonodi metastatici sono evidenziati come iperintensi dalle sequenze
T2 pesate con sottrazione del segnale del tessuto adiposo; il criterio
discriminante per le dimensioni rimane quello del cm, come in altri
distretti anatomici (6).
La RM è inoltre in grado di evidenziare le metastasi epatiche, che
risulteranno ipointense nelle sequenze T1 pesate e lievemente
iperintense in quelle T2 pesate; nelle immagini con acquisizione
angiografica possono dimostrare un lieve enhancement peritumorale in
fase arteriosa, apparendo successivamente ipointense in fase portale;
particolarmente utile risulta la diffusione (Figura 4A, B).
Risultati soddisfacenti si ottengono con i mezzi di contrasto
epatospecifici, che sono captati dalle cellule epatiche normali,
determinando maggiore cospicuità delle alterazioni neoplastiche rispetto
al parenchima normale.
Per lo studio delle lesioni epatiche secondarie può essere impiegato
anche il mezzo di contrasto superparamagnetico a base di ferro (USPIO)
metabolizzato dalle cellule di Kupfer; nelle sequenze T2 pesate in
queste immagini le lesioni si dimostrano iperintense rispetto al
parenchima normale, ipointenso (6).
Una buona differenziazione tra parenchima epatico e pancreatico normale e
lesioni metastatiche si può ottenere anche utilizzando il manganese,
che non viene metabolizzato dalle cellule neoplastiche.
Il grado di vascolarizzazione della neoplasia rispetto al parenchima
normale appare esaminabile con tecniche in perfusione che tendono a
dimostrare minore vascolarizzazione nelle forme neoplastiche più
indifferenziate.

Figura 4 (A, B, C, D, E, F)

Lesioni Cistiche
I cistoadenomi sierosi nella variante microcistica appaiono ipointensi nelle immagini T1 pesate, con iperintensità se presenti segni di emorragia.
La componente fibrosa della lesione è anch’essa ipointensa in tutte le sequenze, come pure le calcificazioni (24).
Le neoplasie risultano invece iperintense nelle sequenze T2 pesate, con
aspetto “ad alveare” molto evidente nelle immagini MRCP (29).
L’iniezione di mezzo di contrasto paramagnetico accentua l’intensità di
segnale dei setti fibrosi, come pure quella della cicatrice centrale.
La RM può definire la lesione sierosa microcistica borderline, dal
momento che questa può essere diagnosticata quando il numero di cisti
presenti è > 6 e con diametro variabile da pochi mm a 2 cm (Figura
4C) (30).
Nelle forme macrocistiche ed oligocistiche le cisti sono più voluminose,
raggiungendo anche diametri da 2 a 8 cm, ma in questi casi l’assenza
della cicatrice centrale e dei setti fibrosi rende problematica la
diagnosi differenziale, soprattutto nei casi caratterizzati da cisti
unica (6).
I cistoadenomi mucinosi presentano all’indagine RM contenuto
fluido, quindi iperintenso nelle sequenze T2 pesate, con intensità
variabile nelle sequenze T1 pesate ed in quelle con sottrazione del
segnale del tessuto adiposo in relazione al contenuto proteico della
mucina (Figura 4D; Figura 5E, F).
L’iniezione di mezzo di contrasto paramagnetico delinea con più
precisione le lesioni, che dimostrano orletto iperintenso, come pure
eventuali sepimentazioni.
Le calcificazioni sono riconosciute come ipointense sia nelle immagini
T1 sia T2 pesate, mentre la componente cistica è dimostrata dalle
sequenze MRCP, che permettono di riconoscere i rapporti delle lesioni
rispetto al dotto pancreatico principale.
Gli IPMN (neoplasie mucinose pancreatiche intraduttali)
determinano dilatazione del dotto principale o delle sue ramificazioni;
le forme del dotto principale presentano maggiore possibilità di
degenerazione maligna (70%) (Figure 1B e 4E) (6).
I fattori maggiormente correlati con l’eventuale malignità risultano
l’età avanzata, il coinvolgimento del dotto principale, la presenza di
diabete, le dimensioni > 3 cm, la presenza di lesioni multiple o di
nodulazioni parietali (Figura 1B e 4F).
Gli IPMN presentano soprattutto alla MRCP dilatazione del dotto
pancreatico principale o delle sue ramificazioni senza aspetti di
stenosi ed è considerata particolarmente importante la dimostrazione
della comunicazione delle lesioni dei dotti secondari con il dotto
principale; la semeiotica è meglio analizzabile nelle immagini MRCP
ottenute con trigger respiratorio e ricostruzioni tridimensionali.

Figura 5 (A, B, C, D, E, F)

Il segno della “papilla protrudente”, nel lume duodenale, è evidente
come nella TC ed è possibile dimostrare la presenza di materiale
mucinoso e di eventuali noduli murali neoplastici intraduttali che, se
intensificati dal mezzo di contrasto paramagnetico, presentano prognosi
sfavorevole (Figure 1B e 4E) (6,31,32).
Le sequenze MRCP dimostrano con precisione le lesioni dei dotti
periferici sia nei rapporti con il dotto principale, sia anche con il
duodeno e la papilla.
L’uso della secretina può migliorare l’evidenza delle lesioni,
dimostrando normalità della funzione esocrina pancreatica che, nelle
alterazioni determinate dalla pancreatite cronica, risulta invece
ridotta.
La maggior parte delle lesioni dei dotti secondari è considerata benigna
se di diametro < 3 cm, mentre elevata potenzialità maligna è
prevedibile per le forme del dotto principale e quelle miste.
Le neoplasie solide pseudopapillari presentano imaging molto
variabile, ma la RM è in grado di dimostrare sia la componente cistica,
sia quella solida ed i rapporti con le strutture vascolari circostanti
(Figura 5A).

Neoplasie Endocrine
L’indagine RM è considerata la più sensibile nel riconoscere piccoli
tumori endocrini, soprattutto di diametro < 2 cm (Figura 5B, C, D).
Le neoplasie presentano aspetto ipointenso nelle immagini T1 pesate e lievemente iperintenso nelle T2 pesate (6,33).
L’iniezione di mezzo di contrasto paramagnetico dimostra la
neoangiogenesi delle lesioni; risulteranno quindi iperintense nelle
immagini T1 pesate dopo iniezione di gadolinio e con sottrazione del
segnale del tessuto adiposo; l’iperintensità in fase arteriosa è tipica
degli insulinomi, di alcuni gastrinomi e dei glucagonomi (Figura 4).
I gastrinomi sono riconoscibili con difficoltà non solo se sono presenti
nel parenchima pancreatico, ma soprattutto se situati nelle pareti del
duodeno e in corrispondenza dei dotti biliari.
Le lesioni multiple sono per lo più dei gastrinomi tipici nella sindrome MEN I.
Le lesioni endocrine non funzionanti dimostrano imaging molto variabile
potendo, dopo iniezione di mezzo di contrasto paramagnetico, presentare
aspetto iperintenso o ipointenso in relazione alla neoangiogenesi;
talora le lesioni assumono dimensioni particolarmente voluminose e
vengono rivelate dalle metastasi epatiche che presentano caratteristiche
di segnale simili a quelle della lesione primitiva.

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6.0 IMAGING (seconda parte)

6.3 Tomografia ad emissione positronica (PET)

Nel paziente con sospetta/accertata lesione pancreatica, la medicina
nucleare, che studia il comportamento funzionale dei tumori mediante la
PET con 18F-FDG (fluorodesossiglucosio), viene utilizzata
dopo la diagnostica convenzionale ed è stata applicata, fin dall’inizio
(prima metà degli anni ’90), anche nelle neoplasie pancreatiche, seppure
con risultati non sempre univoci. Allo stato attuale, la letteratura in
materia è molto limitata, rispetto a quanto viene riportato per altri
tumori.
FDG è un analogo del glucosio in grado di evidenziare, in molti tumori
solidi in vivo, la glicolisi anaerobica, che aumenta nelle cellule
neoplastiche rispetto ai tessuti sani. Tale incremento è principalmente
dovuto ad un aumento dei trasportatori intracellulari del glucosio e
dell’attività esochinasica e questo si verifica anche
nell’adenocarcinoma pancreatico (1). Allo stato attuale è anche noto, in
vitro ma non in vivo, che esiste una correlazione tra entità di
accumulo di FDG e proliferazione cellulare espressa come Ki-67 in questa
neoplasia (2). Inoltre, un aspetto importante delle patologie in
generale del pancreas è la situazione glicemica del paziente e, tra le
condizioni ottimali per effettuare la PET, vi sono i valori di glicemia
compresi tra 60 mg/dl e 130 mg/dl. Un lavoro non recente (3) condotto su
334 pazienti con lesioni pancreatiche ha dimostrato che valori di
glicemia > 130 mg/dl riducono significativamente la sensibilità
dell’esame.
Successivi lavori hanno evidenziato che l’adenocarcinoma pancreatico può
presentare un accumulo di FDG più lento rispetto a quello di altre
neoplasie, per le quali il timing per iniziare la scansione PET è a
circa 45-60 min dalla somministrazione del radiofarmaco. Un lavoro
preliminare su 21 pazienti (4) dimostrava l’utilità di un’acquisizione
più tardiva (2 ore) delle immagini per l’evidenza di un progressivo
aumento dei trasportatori del glucosio e dell’attività esochinasica.
Attualmente, nella pratica clinica, l’acquisizione delle immagini PET
per lo studio delle lesioni pancreatiche inizia ad almeno 1 ora e 30
minuti.
Nonostante queste problematiche, che rendono la neoplasia pancreatica
“diversa” da altri tumori, la letteratura ha spesso riportato che la PET
è vantaggiosa anche in questa patologia in quanto essa non si limita a
studiare un distretto od un apparato, ma è in grado di acquisire
immagini dal cranio agli arti inferiori e, pertanto, consente lo studio
di tutti i possibili siti di malattia. La tecnologia attuale, infine,
prevede l’utilizzo di apparecchiature ibride PET/TC integrate con TC
multistrato in grado di effettuare anche un’indagine radiologica
diagnostica. Dati preliminari (5) dimostrano, nel tumore pancreatico, la
potenzialità della PET/TC nel fornire non solo l’elemento funzionale,
ma anche quello anatomico, necessario all’approccio chirurgico.
Sulla scorta delle esperienze sviluppatesi negli anni, le principali
indicazioni all’utilizzo della PET con FDG sono, allo stato attuale, le
seguenti:

1. Diagnosi differenziale benigno/maligno

2. Stadiazione dell’adenocarcinoma

3. Ricerca della recidiva/ristadiazione

1. Diagnosi differenziale benigno/maligno
Le indagini convenzionali, per quanto accurate, possono non essere
sufficienti a porre, con certezza, una diagnosi di benignità o malignità
con il rischio, per il paziente, di essere sottoposto a ripetuti esami,
specie quando l’approccio invasivo non è indicato. Nella pratica
clinica, la PET con FDG viene richiesta:

– nel riscontro occasionale di lesione pancreatica con caratteristiche di possibile malignità;

– nel sospetto di lesione in uno o più episodi pregressi di pancreatite acuta o in corso di pancreatite cronica.

Nel primo caso, si pone il problema della diagnosi differenziale tra
l’adenocarcinoma ed altri tipi di neoplasia, quali i tumori
neuroendocrini, le metastasi, lo pseudotumor infiammatorio ed il linfoma
non Hodgkin. La PET con FDG non ha un comportamento specifico per
nessuna di queste situazioni, anche se vi sono degli elementi che
possono essere di aiuto nell’interpretazione dell’imaging. Per esempio, è
noto che i tumori neuroendocrini hanno un accumulo di FDG mediamente
basso o assente e che le metastasi presentano un comportamento
variabile, che dipende dall’avidità di glucosio del tumore primitivo.
Nel secondo caso, ove le casistiche riportano che fino al 10-20% dei
pazienti possono sviluppare una neoplasia, la presenza di calcificazioni
od alterazioni morfologiche può rendere difficile la diagnosi
radiologica. D’altro canto, la PET con FDG può essere positiva in
presenza di fatti infiammatori. Svariate esperienze hanno dimostrato che
FDG si accumula significativamente in caso di flogosi soprattutto acuta
che, se determinata dalla neoplasia (flogosi peritumorale), può anche
essere di aiuto nel migliorare la localizzazione di lesioni piccole.
Questo fenomeno è dovuto a sovraespressione dei trasportatori di
glucosio (6), soprattutto di tipo Glut-1, ed è anche noto che FDG si
accumula nei granulociti attivati. Le pancreatiti acute possono essere
fonte di falso positivo ed il dato viene anche riportato in una recente
linea guida all’uso della PET/TC, prodotta dalla Società Americana di
Medicina Nucleare e dell’American College di Radiologia (7).
La potenzialità della PET nello stabilire una diagnosi differenziale
benigno/maligno può essere, quindi, limitata dalla possibile incidenza
di falsi positivi e, nel contesto delle varie neoplasie, nessuna di esse
esprime uno specifico accumulo di FDG. Lo stesso adenocarcinoma del
pancreas può avere comportamenti estremamente variabili nell’imaging PET
con FDG. L’adenocarcinoma pancreatico, come dimostrato anche in un
recente lavoro (8), sembra avere un consumo glucidico che può essere
basso, verosimilmente dipendente dal pattern di espressione genica della
neoplasia. Tuttavia, l’utilizzo alternativo di radiofarmaci che
rilevano altre vie metaboliche, quale la sintesi lipidica, non ha
portato a risultati positivi. 11C-acetato, espressione
dell’attivazione della sintesi lipidica, presenta un elevato accumulo
nel pancreas normale, ma non nella pancreatite cronica con insufficienza
esocrina e nella neoplasia (9).
E’ verosimile che l’introduzione di altri radiofarmaci ad uso PET
porterà al miglioramento delle possibilità diagnostiche delle lesioni
pancreatiche. La 18F-FLT (3’-desossi-3’-(18)F-fluorotimidina)
sembra essere, per esempio, quale marcatore della sintesi del DNA, più
sensibile nel discriminare la neoplasia dalle lesioni benigne. Un lavoro
del 2008 (10) dimostra che 10 su 10 lesioni benigne non accumulano
questo analogo della timidina e che essa si localizza in 15 su 21
neoplasie maligne.
Allo stato attuale, la diagnostica PET clinica dispone di FDG. Svariati
autori hanno impiegato, accanto alla lettura visiva, tecniche
semi-quantitative, come il calcolo del SUV (Standardized Uptake Value),
per migliorare la metodica. Un lavoro del 1999 (11) dimostrava che un
cut-off di 3.0 consentirebbe di discriminare la lesione benigna da
quella maligna, con valori di sensibilità e specificità della PET
superiori a quelli della TC (92% e 85% rispetto a 65% e 61%). Successive
esperienze (12) hanno sottolineato che anche l’impiego di queste
tecniche può non essere sufficiente ai fini della diagnosi
differenziale, mentre, come vedremo parlando di stadiazione, il
significato del SUV sembra essere soprattutto prognostico. Dati di
letteratura recente riportano il possibile ruolo diagnostico del SUV nel
paziente con sospetto IPMN (13) e nello studio delle lesioni cistiche
(14). In particolare, per le IPMN, lo studio condotto su 64
pazienti mostra che un valore di SUV > 2.5 è altamente indicativo di
tumore non benigno.
Infine, alla luce della tecnologia attuale, le preliminari esperienze
con l’impiego della diagnostica integrata PET/TC con FDG (15)
evidenziano che, nello studio della lesione pancreatica di dimensioni
superiori a 1 cm, la metodica ha comunque un significativo valore
diagnostico, considerando anche che i suoi valori di predittività
positiva (83%) e negativa (82%) non differiscono sostanzialmente da
quelli dell’ecografia e dell’ERCP.

2. Stadiazione dell’adenocarcinoma
La corretta stadiazione è fondamentale ai fini delle possibilità di
trattamento chirurgico che, come noto, migliora significativamente la
prognosi.
Studi preliminari, con metodica PET (12), asserivano che, nei confronti
della TC multistrato e dell’ecografia, la PET aveva solo una migliore
accuratezza diagnostica (69%), ma che ciò non era sufficiente a
determinare lo stato di malignità e decidere il trattamento chirurgico.
Con i progressi della tecnologia e l’introduzione di software di fusione
di immagini diverse, successive esperienze hanno evidenziato che è
possibile migliorare i risultati dell’esame. Uno studio del 2004 (16),
che valutava l’impatto della PET in fusione con la TC diagnostica, in
104 pazienti, dimostra che la fusione migliora la sensibilità dal 76.6%
della TC e 84.4% della PET all’89.1% globale. Un recente lavoro del 2008
(17), impiegando strumentazione ibrida PET/TC, in 82 pazienti con
malattia potenzialmente resecabile, riporta dati analoghi: la
sensibilità e la specificità nella diagnosi di cancro erano dell’89% e
dell’88%, rispettivamente. Gli autori, inoltre, aggiungono un elemento
importante: nell’11% dei casi la metodica ha cambiato l’iter
terapeutico. Numerose esperienze negli anni hanno sottolineato il ruolo
della PET nell’impatto sulla gestione clinica della malattia tumorale.
Nel 2008 il Registro Nazionale Oncologico Americano (NOPR) ha pubblicato
(18) i dati raccolti da 22.975 studi PET, di cui quasi l’84% di PET/TC,
nelle neoplasie per le quali si utilizza FDG, inclusi 2.068 tumori del
pancreas, esaminandone il ruolo sul trattamento: nella stadiazione
iniziale, in quasi il 40% di tutti gli studi considerati, la PET cambia
il previsto iter terapeutico.
Di fatto, negli anni è maturata la coscienza che la PET con FDG ha un
ruolo peculiare nella scelta della strategia terapeutica la quale, in
ultima analisi, è correlata alla prognosi. Nell’ambito
dell’adenocarcinoma del pancreas, ormai sappiamo (19,20) che l’entità di
accumulo di FDG è inversamente correlata alla sopravvivenza: un valore
di SUV molto elevato è indicativo di prognosi sfavorevole. Infine, non
bisogna dimenticare che la PET, a prescindere dalla sua integrazione con
la TC, ha il vantaggio di essere una tecnica di diagnosi che consente
scansioni sufficienti a localizzare la malattia non solo locale. Nel
lavoro citato precedentemente con apparecchio PET/TC (17) si dimostra
una sensibilità nel diagnosticare la malattia metastatica pari
all’87%. Secondo una precedente casistica su 231 lesioni pancreatiche
(21), la PET localizza la metastasi nel 40% dei pazienti con lesioni
maligne, evitando la chirurgia ed indirizzando a trattamenti
alternativi. La valutazione della metastasi epatica, con studio PET è
stata anche confrontata con la RM (22): gli autori riportano che la
sensibilità della RM (96.6%) non è significativamente diversa da quella
della PET (93.3%) e che il valore aggiuntivo della PET è quello di dare
anche informazioni sulla presenza di metastasi a distanza. Pressoché
tutta la letteratura, compresa quella citata in questo capitolo,
sottolinea la superiorità della PET nel localizzare la malattia
metastatica, con il limite, come tutte le metodiche non invasive, della
possibile negatività per la micrometastasi linfonodale.

Figura 1 Immagini PET/TC: neoplasia della testa pancreatica con metastasi epatica e linfonodali

3. Ricerca della recidiva/ristadiazione
Nello studio della recidiva locale e della ristadiazione nel paziente
che, dopo terapia, sviluppa una clinica sospetta per ripresa di malattia
o presenta un aumento dei marcatori tumorali, la PET con FDG è
considerata ormai l’indagine di scelta in moltissime neoplasie,
verosimilmente anche per le crescenti possibilità di trattamento.
Secondo le casistiche del NOPR (18), essa cambia il piano di terapia in
oltre il 30% dei pazienti. Prendendo in considerazione l’adenocarcinoma
del pancreas, le possibilità di terapia della recidiva sono attualmente
molto limitate. L’introduzione delle tecniche ibride PET/TC sta portando
i primi risultati del suo impiego anche in questa applicazione. Un
recente lavoro (23), presentato al Congresso Americano della Società di
Medicina Nucleare del 2008, dimostra il valore aggiuntivo della PET/TC,
impiegata con TC diagnostica, rispetto alla sola TC diagnostica, in 29
pazienti con pregresso adenocarcinoma del pancreas.
Un lavoro recentissimo dimostra un significativo anticipo della diagnosi
di recidiva dopo chirurgia resettiva in 28 su 63 pazienti in cui la TC
risultava ancora negativa o non diagnostica, oltre a diagnosticare 2
carcinomi extrapancreatici suscettibili di resezione (24).
Un lavoro del 2005 (25) evidenziava che la metodica è anche di impatto
in termini di costo/beneficio e che cambia il successivo iter
terapeutico nel 16% dei casi. Un altro lavoro nello stesso anno (26),
che metteva a confronto la PET con TC ed RM evidenziava che essa è
superiore nel localizzare la recidiva sia locale sia extra-addominale.

Figura 2 Immagini PET/TC in fusione con TC con contrasto: recidiva locale e metastasi epatica non evidente alla TC diagnostica

Allo stato attuale, l’impiego della PET nella ristadiazione è ancora
poco diffuso. Nel 2007 il NOPR (27) inseriva il cancro del pancreas tra
le indicazioni da considerarsi prioritarie nell’ambito della diagnosi e
della stadiazione, ma non nello studio della recidiva. E’ verosimile che
quest’ultima applicazione, seppure promettente, necessiti anche
dell’avanzamento delle prospettive terapeutiche per divenire di routine
clinica.

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6.4 Ecoendoscopia (EUS)

L’ecoendoscopia (Endoscopic UltraSonography, EUS) pancreatica è una
tecnica ben integrata nella pratica clinica ospedaliera. La sua alta
accuratezza nella diagnosi e nella stadiazione di numerose patologie è
data sia dalla possibilità di ottenere immagini ecografiche ad alta
definizione (1,2) sia dalla capacità di ottenere prelievi di tessuto
(Fine Needle Aspiration FNA).
Fin dal primo studio pubblicato nel 1992 (3), l’EUS-FNA si è dimostrata
una tecnica indispensabile per la sua capacità di ottenere in modo
sicuro campioni tissutali della maggior parte delle lesioni che possono
essere studiate con EUS (4). Negli anni recenti, alcuni autori hanno
sottolineato le applicazioni cliniche dell’ecoendoscopia convalidando il
suo utilizzo in molti algoritmi diagnostici e terapeutici e dimostrando
la sua efficacia nel modificare l’esito delle cure (5,6).
L’attrezzatura consiste in uno speciale endoscopio, sulla cui punta è
montato un trasduttore ecografico ad alta frequenza. Gli ecoendoscopi
radiali sono deputati ad esplorazioni diagnostiche in quanto riproducono
l’anatomia in scansioni di 360° perpendicolari all’asse longitudinale
dello strumento (simili alle scansioni assiali TC). Gli strumenti a
scansione settoriale, chiamati anche ecoendoscopi lineari, sono
utilizzati prevalentemente per la FNA. Questi, infatti, producendo una
scansione parallela all’asse longitudinale dello strumento ottengono la
visualizzazione in tempo reale dell’ago e permettono la puntura accurata
della lesione bersaglio. Le indicazioni principali dell’utilizzo
dell’ecoendoscopia nello studio dell’area pancreatobiliare (7) derivano
dalla possibilità di ottenere immagini ad alta definizione della parete
intestinale (8) e degli organi ad essa adiacenti.
Al paziente sottoposto ad indagine ecoendoscopica solitamente viene
somministrata una sedazione cosciente con Meperidina e Midazolam. La
prima indagine è condotta utilizzando lo strumento radiale; dopo avere
raggiunto la seconda porzione duodenale, la visione endoscopica obliqua
permette di valutare visivamente la papilla e le scansioni ecografiche
effettuate da tale livello permettono di esplorare il processo uncinato e
la testa del pancreas. Dal bulbo duodenale si esplorano il coledoco e
la colecisti e retraendo lo strumento in cavità gastrica si esegue
l’esplorazione del corpo e della coda del pancreas fino all’ilo
splenico. Le scansioni transgastriche consentono l’attenta esplorazione
delle strutture vascolari peripancreatiche (vena porta, arteria e vena
splenica, aorta, tripode celiaco) per valutarne l’eventuale
infiltrazione. Gli ecoendoscopi elettronici sono dotati di tutte le
metodiche di studio del flusso (doppler pulsato, color-doppler,
power-doppler) già da tempo utilizzate nell’ecografia transaddominale.
Recentemente, alcune case produttrici hanno messo a punto una nuova
metodica, l’Extended Flow, che consente anche di valutare i flussi lenti
a livello del microcircolo (Figura 1a).

Figura 1a

Se con questa esplorazione si identifica una lesione di incerta
interpretazione o si pone il sospetto di natura maligna, si utilizza un
secondo ecoendoscopio a scansione lineare per eseguire la FNA della
lesione identificata. Alcuni autori preferiscono utilizzare da subito
l’ecoendoscopio lineare (operativo) invece di quello radiale, perché
consente un’ottima stadiazione della lesione e permette nello stesso
tempo d’eseguire un agoaspirato e, su consenso del paziente in caso di
inoperabilità e dolore, anche l’alcolizzazione del plesso celiaco.
E’ recentissima la possibilità di utilizzare anche in ecoendoscopia il
mezzo di contrasto (microbolle di esafloruro di zolfo), tramite
un’armonica di contrasto dedicata. Le principali applicazioni sono
l’aumento dell’accuratezza diagnostica nei casi di piccole lesioni
dubbie o la distinzione tra lesioni ipovascolarizzate (es.
adenocarcinoma) (Figura 1b) e quelle ipervascolarizzate (es. tumore
neuroendocrino, cistoadenoma sieroso) (Figura 2a-b).

Figura 1b

Figura 2a

Figura 2b

Tumori solidi
L’EUS è la tecnica più accurata e con il migliore rapporto costo
efficacia nell’identificare quali pazienti possano effettivamente
beneficiare dalla chirurgia. I punti di forza dell’EUS sono
principalmente due: l’elevata sensibilità nella diagnosi di lesioni
tumorali < 2 cm (9) e la possibilità di eseguire l’agoaspirazione.
Harewood e Wiersema (10) hanno dimostrato che l’EUS-FNA è la procedura
meno costosa nella stadiazione dell’adenocarcinoma della testa del
pancreas, se comparata con la FNA TC guidata o la chirurgia. I dati
pubblicati sottolineano l’importanza dell’utilizzo della ecoendoscopia
nell’ulteriore valutazione dei pazienti nei quali la TC spirale ha
definito la possibile resecabilità della neoplasia per incrementare
l’identificazione dei linfonodi metastatici non peritumorali, che
rappresentano un criterio di non operabilità. Gli stessi autori (11)
hanno pubblicato lo studio di sorveglianza più completo sull’EUS-FNA
nella stadiazione dei tumori pancreatici. Hanno valutato 185 pazienti
nei quali la biopsia TC guidata o l’ERCP non erano state diagnostiche,
osservando che l’EUS aveva una sensibilità maggiore rispetto alla TC
nell’identificare la massa neoplastica (99% vs 57%). La sensibilità per
le formazioni maligne era del 94%, la specificità per le neoplasie
benigne del 71% e l’accuratezza era del 92%. Questi risultati sono stati
ottenuti grazie una tecnica molto accurata di campionamento, che
comprende una media di 5 passaggi con l’ago e la presenza di un
citopatologo in sala, per la valutazione immediata dell’appropriatezza
del campione (Figura 1c).

Figura 1c

Tali dati suggeriscono che la FNA guidata ecoendoscopicamente può avere
un importante ruolo nel cambiare l’approccio convenzionale alle masse
pancreatiche qualora eseguita prima della chirurgia
(Schema 1).

Schema 1

E’ importante riportare che l’EUS-FNA è una procedura sicura, che nello
studio ha mostrato un tasso di complicanze di solo lo 0.5% (un caso di
pancreatite moderata).
Per quanto riguarda la comparazione con la TC spirale ad alta
risoluzione Agarwal et al. (12) hanno valutato l’uso dell’EUS-FNA in
aggiunta ad un protocollo di studio del pancreas con una TC spirale
multidetettori nel sospetto di neoplasie del pancreas. L’accuratezza
nella diagnosi di tumore pancreatico di TC, EUS ed EUS-FNA è stata
rispettivamente del 74%, 94% e 88%. L’EUS-FNA ha mostrato inoltre
un’elevata accuratezza nell’escludere la natura neoplastica delle
lesioni (NPV 89%, CI 52-100%).
L’EUS non è comunque una tecnica infallibile. Buthani et al. (13), in
uno studio multicentrico retrospettivo, hanno identificato 20 casi di
neoplasie pancreatiche non diagnosticate da 9 ecoendoscopisti esperti. I
fattori di disturbo per la diagnosi, a causa delle alterazioni
ecostrutturali che inducono, comprendono la pancreatite cronica, il
carcinoma diffusamente infiltrante, il pancreas divisum ed un episodio
recente di pancreatite acuta.
Diversamente dal tumore pancreatico, le neoplasie periampollari hanno
una buona prognosi soprattutto se diagnosticate in uno stadio precoce.
L’ecoendoscopia ha dimostrato essere molto accurata nello studio di
questa regione e nella modificazione dell’esito della terapia di questi
pazienti (14).
Il sospetto di una neoplasia neuroendocrina (gastrinomi o insulinomi e
tumori non secernenti) solitamente origina dopo la comparsa di sintomi
clinici, l’esecuzione di test sierologici specifici oppure come reperto
casuale in esami strumentali. La loro precisa localizzazione resta
comunque complicata e l’esatta estensione della malattia può essere
determinata con difficoltà dalle tecniche di immagini convenzionali,
compresi l’octreoscan e la PET. E’stato valutato che l’ecoendoscopia ha
un’alta sensibilità (82%) e specificità (95%) nell’identificare piccole
lesioni, in particolare gli insulinomi pancreatici (15).
Essendo la rimozione chirurgica il trattamento di scelta per questi
tumori, la loro precisa localizzazione pre-operatoria mediante EUS è
estremamente efficace (16).

Tumori cistici
Come noto, le cisti pancreatiche possono avere diversa natura
istologica: infiammatoria (pseudocisti), benigna (cisti semplici,
cistadenoma sieroso), premaligna o maligna (cistadenoma mucinoso,
cistoadenocarcinoma). L’ecoendoscopia è una tecnica eccellente per la
diagnosi differenziale. I soli criteri morfologici non permettono
tuttavia di definirne con elevata accuratezza la natura benigna o
maligna (Tabella 1) in quanto non sono specifici e la concordanza
interosservatore è bassa (17).

Tabella 1

L’esecuzione di FNA durante l’ecoendoscopia è spesso fondamentale per
superare queste limitazioni, eseguendo l’analisi dei marcatori tumorali
nel fluido cistico. Quest’ultima incrementa notevolmente l’accuratezza
dell’analisi rispetto alla sola valutazione citologica (Schema 2).

Schema 2

Brugge et al. (18) hanno valutato prospetticamente in uno studio
multicentrico il risultato dell’EUS, della citologia e dell’esame dei
marcatori tumorali (CEA, CA72-4, CA125, CA19-9, CA15-3) nel fluido
cistico paragonandoli all’istologia chirurgica come standard diagnostico
finale. I dati hanno mostrato che il valore del CEA, e non il valore
sierico del CA19-9, consente di differenziare le lesioni mucinose dalle
non mucinose. L’accuratezza del dosaggio del CEA (79%) si è rivelata
molto maggiore della morfologia ecoendoscopica (51%) o della sola
citologia (59%) (P < 0.05).
Dall’analisi dei dati, non è stata identificata alcuna combinazione di
marcatori in grado di fornire un’accuratezza maggiore rispetto al solo
dosaggio del CEA (P < 0.0001).

Applicazioni terapeutiche
La neurolisi del plesso celiaco sotto guida ecoendoscopica è usata nel
trattamento del dolore refrattario nei pazienti con CP. Questa tecnica è
stata dimostrata essere sicura ed accessibile. Gunaratnam et al. (19)
hanno riportato una notevole esperienza su 58 pazienti con dolore
derivato da tumore pancreatico inoperabile, trattati con tale metodica.
Essi hanno osservato che il dolore era significativamente diminuito dopo
2 settimane dalla procedura e che i suoi effetti perduravano a 24
settimane, permettendo la riduzione dell’utilizzo di morfina e di
terapia adiuvante. Il 78% dei pazienti trattati ha avuto beneficio dalla
neurolisi del plesso celiaco, specie se effettuata nelle fasi precoci
di malattia.

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6.5 Colangiopancreatografia Retrograda Endoscopica (ERCP)

La Colangiopancreatografia Retrograda Endoscopica (ERCP) ha svolto un
ruolo importante nella diagnosi delle malattie del pancreas, fin dalla
sua introduzione nella pratica clinica negli anni ’70 (1-3).
L’opacizzazione diretta, per via retrograda transpapillare, della via
biliare principale e del dotto pancreatico principale può infatti
evidenziare la presenza di stenosi dei dotti, che possono fortemente
suggerire la presenza di un processo eteroformativo del pancreas (1).
Una stenosi del tratto distale della via biliare principale può essere
secondaria a diverse patologie, incluse (fra le più comuni cause):

1. neoplasie del pancreas;
2. neoplasie primitive dei dotti biliari;
3. pancreatite cronica;
4. compressione della via biliare principale da parte di pseudocisti pancreatiche;
5. cavernomatosi portale;
6. linfoadenomegalie peribiliari, in genere secondarie ad altri processi neoplastici.

In corso di ERCP, l’aspetto più caratteristico di una stenosi della via
biliare principale secondaria a neoplasia del pancreas è quello di una
brusca interruzione alla progressione del mezzo di contrasto nel tratto
distale del coledoco, immediatamente a monte della papilla di Vater. La
stenosi presenta più spesso un aspetto irregolare, talvolta eccentrico,
si presenta dura al contatto con il catetere. La via biliare a monte è
solitamente dilatata e talvolta si può opacizzare per via retrograda una
colecisti molto distesa. La pancreatografia retrograda rivela
solitamente una concomitante stenosi del tratto cefalico del dotto
pancreatico principale (segno del “doppio dotto”) (1) (Figura 1).
Neoplasie del corpo o della coda del pancreas possono essere invece
sospettate qualora alla pancreatografia siano presenti stenosi isolate
del tratto corpo caudale del dotto pancreatico, in assenza di segni di
pancreatite cronica.
Non di rado, nei casi di malattia avanzata, può essere presente una
infiltrazione della parete della seconda porzione duodenale, con
coinvolgimento più o meno esteso dell’area vateriana, fino alla stenosi
completa del lume duodenale. In questi casi, l’ERCP può essere molto
difficile od impossibile.
Tuttavia, l’ERCP è un esame invasivo, fra l’altro gravato da complicanze
specifiche, che di fatto ne limitano l’utilizzo come strumento
puramente diagnostico (4).
Negli ultimi anni, si è assistito ad un preponderante sviluppo delle
metodiche di diagnostica per immagini, in particolare della tomografia
computerizzata e della risonanza magnetica nucleare, che, di fatto,
hanno soppiantato completamente l’ERCP nel suo ruolo diagnostico.
La risonanza magnetica, in particolare, con le sequenze
colangiopancreatografiche consente di ottenere immagini sovrap-ponibili a
quelle endoscopiche, in modo del tutto non invasivo.
Nonostante le metodiche non invasive di diagnostica per immagini, TC e
RM in primis, vengano preferite per la diagnosi e la stadiazione delle
neoplasie del pancreas, l’ERCP ha ancora un certo ruolo diagnostico
qualora sia necessario ottenere una conferma istologica della neoplasia,
anche se questo ruolo dovrebbe essere soppiantato dall’EUS-FNA (vedi
cap. 8.1).
La conferma istologica non è generalmente indispensabile nel caso in cui
la palliazione endoscopica dell’ittero sia l’unico trattamento previsto
per i pazienti. Al contrario, l’esame istologico o citologico è
solitamente necessario prima di un intervento chirurgico resettivo od
ancor più quando sono previsti trattamenti neoadiuvanti.
L’acquisizione di campioni istologici o citologici in corso di ERCP può
essere ottenuta con tecniche diverse: citologia su bile o succo
pancreatico, citologia sul materiale depositato sulle protesi biliari o
pancreatiche, aspirazione con ago sottile, citologia con spazzolino
(brushing), biopsie endobiliari. Alcune di queste metodiche hanno
scarsissima sensibilità e sono poco o quasi mai utilizzate (analisi del
materiale depositato sulle protesi biliari od aspirazione con ago
sottile in corso di ERCP). La tecnica più sensibile è l’analisi
istologica delle biopsie endobiliari. Tuttavia, l’esecuzione di biopsie
endobiliari può essere difficile in alcune situazioni e, di fatto, è
relativamente poco utilizzata. Inoltre le biopsie endobiliari sono
probabilmente più sensibili per la diagnosi di neoplasie primitive delle
vie biliari che per quella di neoplasie del pancreas, dal momento che
in quest’ultimo caso la stenosi è secondaria ad una
compressione/infiltrazione del coledoco da parte di una neoplasia
extraduttale. La citologia su brushing è probabilmente la metodica più
diffusa per la tipizzazione citologica delle stenosi biliari o
pancreatiche. E’ una tecnica di relativa semplicità e molto
riproducibile. Il valore predittivo positivo della citologia su brushing
è molto elevato, ma la sensibilità generale per la diagnosi di
neoplasie è al contrario molto bassa e varia dal 30% al 60% nelle
varie serie pubblicate. Anche in questo caso, la sensibilità è più alta
per il colangiocarcinoma che per la diagnosi di neoplasia del pancreas.
La citologia sul succo pancreatico può rivelarsi utile per la diagnosi
di neoplasia del pancreas, soprattutto nei pazienti in cui viene
lasciato in sede un drenaggio naso-pancreatico. La sua sensibilità è
globalmente inferiore a quella della citologia su brushing. L’analisi
fisico-chimica del succo pancreatico può rivelarsi utile per la diagnosi
di neoplasie intraduttali mucosecernenti del pancreas (IPMN). La
presenza di muco nel succo pancreatico è, infatti, altamente indicativa
di IPMN.
Considerati la bassa accuratezza diagnostica delle metodiche di
campionamento istologico/citologico in corso di ERCP, la combinazione di
più metodiche (ad esempio, biopsie endobiliari e brushing) viene in
genere raccomandata per incrementare la sensibilità (5,6).
L’utilizzo della ERCP per ottenere campioni citologici o istologici è
pienamente condivisibile in pazienti con sintomi da ostruzione biliare,
dal momento che il drenaggio dei dotti biliari può alleviare la
sintomatologia specifica dei pazienti. Al contrario, in pazienti
asintomatici, l’utilizzo dell’ERCP per il campionamento istologico o
citologico è controverso e, se disponibile, l’EUS-FNA dovrebbe essere
preferita come metodica di prima linea.
Altre tecniche diagnostiche associate all’ERCP sono in corso di
valutazione. La pancreatoscopia permette l’osservazione diretta del
dotto pancreatico ed il campionamento bioptico mirato.
Video-endoscopi di diametro < 10F sono stati sviluppati. Tuttavia, la
loro reale utilità nella pratica clinica è ancora da dimostrare (7).
L’Optical Coherence Tomography (OCT) è una speciale tecnica che utilizza
la radiazione infrarossa per ottenere immagini, ad alta risoluzione,
dei tessuti in vivo, in qualche modo paragonabili a sezioni istologiche.
L’OCT è stata recentemente utilizzata nel dotto pancreatico in corso di
ERCP. Risultati preliminari suggeriscono il suo possibile utilizzo come
metodica diagnostica, per distinguere una stenosi pancreatica
neoplastica da una non-neoplastica. Ulteriori conferme sono però ancora
necessarie prima della reale diffusione clinica della metodica (8).
Il principale vantaggio dell’ERCP rispetto alle altre metodiche è quello
di essere una procedura diagnostica e terapeutica al tempo stesso. Dal
momento che la presentazione clinica di molti pazienti con neoplasia del
pancreas è l’ittero ostruttivo (9), in casi eccezionali di pazienti
particolarmente compromessi l’ERCP può essere indicata prima di una
stadiazione radiologica completa del paziente, per il drenaggio della
via biliare principale mediante l’inserimento di un’endoprotesi.

Figura 1

BIBLIOGRAFIA

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7.0 RUOLO DELLA LAPAROSCOPIA

7.1 Indicazioni alla laparoscopia
7.2 Tecnica chirurgica

A differenza di quanto avvenuto in altri settori, la chirurgia
laparoscopica del pancreas, in particolare la chirurgia resettiva, non
ha trovato l’immediato consenso della comunità scientifica.
L’elevata difficoltà tecnica, dovuta agli stretti rapporti di contiguità
tra il pancreas e le strutture vascolari, la necessità di una
palpazione manuale, in caso di lesioni indovate nella ghiandola, la
mancanza di una metodologia standardizzata nel trattamento laparoscopico
della trancia, lo scetticismo della comunità scientifica riguardo al
raggiungimento della radicalità oncologica e la relativamente bassa
percentuale di pazienti candidabili a resezioni laparoscopiche sono solo
alcune delle motivazioni che spiegano il ridotto favore dei chirurghi
verso tale metodica innovativa (1).
La chirurgia del pancreas è gravata da un elevato indice di complicanze
post-operatorie, che solo la centralizzazione dei pazienti verso Unità
ad elevato volume di patologia può ridurre (2). Questo dato non sempre
si sposa con l’attitudine alla laparoscopia dei Centri dedicati alla
chirurgia pancreatica ed è ben nota la necessità di un training
laparoscopico particolarmente lungo, per poter affrontare con la dovuta
sicurezza la chirurgia pancreatica per via mini-invasiva.
A dispetto di tutto ciò, anche per quanto riguarda il pancreas si
iniziano a standardizzare le tecniche laparoscopiche e si comincia ad
intravvedere un crescente consenso nella comunità scientifica verso tale
approccio, purché limitato a casi selezionati ed a chirurghi non solo
con esperienza di laparoscopia avanzata, ma anche dotati di uno
strumentario completo ed affidabile (colonna, ecografo, bisturi per
dissezione ed emostasi, ecc.), per poter affrontare al meglio questa
delicata chirurgia.
Per quanto concerne i tumori, è opportuno distinguere l’adenocarcinoma
pancreatico, in cui al momento la laparoscopia ha ancora finalità quasi
unicamente diagnostico-stadiative, rispetto ai tumori neuroendocrini e
cistici, nei quali la metodica può avere un ruolo anche terapeutico.

7.1 Indicazioni alla laparoscopia

Laparoscopia diagnostico-stadiativa
Almeno l’80% dei pazienti con cancro del pancreas presenta, al momento
dalla diagnosi, una malattia non resecabile, perché metastatica o
localmente avanzata. Nonostante i progressi della diagnostica per
immagini, ed in particolare della TC spirale trifasica multislice,
l’esplorazione chirurgica rivela un 10-25% di metastasi non evidenziate
con le usuali procedure di staging pre-operatorio.
La prima “organoscopia” dell’addome per una neoplasia pancreatica venne
descritta da Bernheim (3) nel 1911, ma spetta probabilmente a Cuschieri
(4) il merito di aver introdotto la laparoscopia con finalità
diagnostico-stadiative. Conlon (5) ha successivamente ben precisato i
vantaggi di tale metodica e, in uno studio pubblicato con Merchant nel
1999 (6), riporta di aver utilizzato la laparoscopia per la valutazione
di 303 pazienti con tumori periampollari e pancreatici ritenuti
resecabili al termine della diagnostica pre-operatoria di routine: solo
199 erano ancora considerati resecabili dopo stadiazione laparoscopica
e, di questi, 18 non furono considerati resecabili alla successiva
laparotomia. La valutazione laparoscopica presentava un indice
predittivo positivo del 100%, negativo nel 91% ed un’accuratezza
diagnostica del 94%. Risultati analoghi sono stati riportati da Jimenez
su 125 pazienti con adenocarcinoma pancreatico potenzialmente resecabile
alla TC spirale multislice: una diffusione metastatica non sospettata
venne evidenziata, grazie alla laparoscopia, nel 31.2% dei casi, più
specificatamente nel 36% dei tumori corpo-caudali e nel 17% delle
lesioni cefaliche (7).
In questi ultimi anni, il ruolo della laparoscopia diagnostica si è via
via ridimensionato, grazie ai continui progressi delle tecniche di
imaging. Nondimeno, anche nelle più recenti casistiche, la percentuale
di pazienti resecabili che possono trarre beneficio dalla laparoscopia
non scende al di sotto del 10% (8,9,10).
La laparoscopia diagnostica di stadiazione viene distinta in standard ed advanced.
La laparoscopia standard si prefigge di studiare il parametro M della
malattia tumorale, di visualizzare cioè la superficie della cavità
addominale e del fegato, al fine di escludere la presenza di piccole,
spesso multiple, metastasi peritoneali o epatiche sotto-glissoniane che,
se presenti, renderebbero inutile l’intervento. A tal fine, è
sufficiente l’impiego di un unico accesso, con introduzione di un’ottica
laparoscopica a 30°. In presenza di un quadro peritoneale e/o epatico
di non univoca interpretazione, è possibile completare la procedura
introducendo altri trocar operatori, per eseguire la biopsia di
neoformazioni sospette o la LUS (Laparoscopic Ultra-Sonography), che è
in grado di migliorare l’accuratezza diagnostica (11,12) nei casi con
localizzazioni epatiche dubbie non immediatamente sotto-glissoniane. Le
moderne sonde ecografiche sono spesso dotate di canale operativo, per
cui è anche possibile eseguire una biopsia eco-guidata di neoformazioni
intraparenchimali. In corso di laparoscopia standard è infine possibile
prelevare il liquido eventualmente presente in addome, per un esame
citologico estemporaneo; in caso di film ascitico di modesta entità, si
può effettuare un lavaggio con soluzione fisiologica sterile, anche se
ciò va a scapito dell’accuratezza diagnostica. La sensibilità della
metodica è bassa, ma, se positivo, l’esame citologico sul liquido
peritoneale è specifico ed ha un valore predittivo alto nel determinare
la resecabilità (6).
La laparoscopia advanced, in aggiunta alla definizione del parametro M,
si propone di rivalutare i parametri T e N. Il suo razionale risiede
nell’evidenza che, in tutte le casistiche chirurgiche, è sempre presente
una quota di pazienti non resecabili, a causa dell’invasione locale
della neoplasia; ciò a dispetto di una diagnostica pre-operatoria di
elevato livello e nonostante l’esecuzione preliminare di una valutazione
laparoscopica standard. La laparoscopia avanzata necessita di tempi
operatori decisamente più lunghi della procedura standard e comporta
difficoltà tecniche, spesso causa di una ridotta accuratezza
diagnostica, che riguardano sia l’interessamento vascolare sia
linfonodale. Lo studio del parametro T è infatti riferito all’eventuale
interessamento vascolare, venoso ed arterioso, nei pazienti “dubbi” alla
TC multislice: tale studio richiede spesso l’apporto di un ecografista
esperto ed il dato ottenuto risulta comunque solo moderatamente
attendibile, in considerazione dell’elevato numero di falsi positivi
(reazione flogistica peritumorale verso interessamento neoplastico)
riportato in importanti casistiche relative a pazienti sottoposti a
resezione pancreatica vascolare en-bloc (13). Lo studio del parametro N
prevede il sampling dei linfonodi inter-aorto-cavali, cioè di quel
gruppo di linfonodi il cui interessamento neoplastico rappresenta una
sicura controindicazione alla resezione. Tale manovra necessita di
un’ampia mobilizzazione, non sempre agevole, anche in chirurgia
tradizionale, e richiede un’elevata abilità laparoscopica.
Dalle Clinical Practice Guidelines in Oncology del 2009 (14) emerge in
definitiva l’indicazione ad una laparoscopia diagnostico-stadiativa
standard, che permetta di ridefinire con notevole accuratezza il
parametro M, a fronte di un modesto impatto sul tempo di utilizzo della
sala operatoria. La metodica prevede infatti un minimo allungamento dei
tempi operatori per i pazienti che risulteranno in ultima analisi
resecabili e consente di evitare, in almeno un 10% dei casi, una
laparotomia inutile. In considerazione dei costi aggiuntivi della
metodica, sia pur ridotti, emerge peraltro la necessità di selezionare i
pazienti, di identificare cioè, quanto più accuratamente possibile, i
pazienti ad elevato rischio di malattia metastatica, tra quelli
giudicati pre-operatoriamente resecabili, al fine di limitare solo ad
essi la stadiazione laparoscopica. Pur in assenza di parametri
univocamente accettati, la maggior parte degli autori è concorde nel
ritenere giustificato un approccio laparoscopico nei pazienti con:
1. neoformazione del corpo-coda del pancreas con diametro > 3 cm;
2. tumore localmente avanzato;
3. presenza di ascite;
4. CA19-9 > 400 U/ml o ipoalbuminemia;
5. marcato calo ponderale e/o presenza di dolore posteriore.
Ricordiamo infine, per completezza, che di recente l’approccio
laparoscopico stadiativo è stato proposto anche per i pazienti giudicati
borderline resectable per malattia localmente avanzata. Visto il sempre
più diffuso impiego della radiochemioterapia pre-operatoria, da più
parti si sostiene la necessità di una conferma di malattia localmente
avanzata, ma non metastatica, tramite l’impiego della laparoscopia
standard. In questi casi, la procedura rivestirebbe un ruolo di
pre-trattamento neoadiuvante, per meglio stratificare i pazienti (14).

Laparoscopia terapeutica
L’approccio mini-invasivo nella chirurgia resettiva pancreatica è di
recente acquisizione e manca tuttora univocità di consensi sulle
indicazioni e sulle tecniche proposte.
Per quanto concerne le indicazioni, esse appaiono al momento
principalmente limitate alla patologia benigna ed a quella tumorale
benigna o borderline (tumori cistici ed endocrini). Le resezioni
pancreatiche laparoscopiche per carcinoma sono sporadiche e non esistono
meta-analisi, studi clinici prospettici randomizzati, in definitiva
evidenze cliniche, che confrontino i risultati a distanza della tecnica
video-assistita con quelli della chirurgia open tradizionale,
indipendentemente dalla sede del tumore e dal tipo di intervento
indicato. Ciò fa si che tali interventi, pur essendone stata dimostrata
la fattibilità, non siano ancora del tutto accettati sul piano
oncologico. A differenza di quanto già avvenuto per i tumori del colon
(15), il ridotto numero di casi di carcinoma pancreatico resecabile ed
il ridotto numero di chirurghi laparoscopisti dedicati alla chirurgia
del pancreas rendono altresì difficile intraprendere studi multicentrici
che possano dimostrare la correttezza oncologica della metodica.
Per quanto concerne le tecniche, non tutti gli interventi resettivi
riprodotti in laparoscopia hanno raccolto lo stesso consenso. La prima
duodenopancreasectomia laparoscopica è stata eseguita da Gagner (16)
agli inizi degli anni ’90; lo stesso autore, nel 1997, analizzando
un’esperienza di 10 casi riportava tempi operatori medi elevati (510
minuti), un tasso di conversione pari al 40%, una degenza
post-operatoria media > 22 giorni ed un’alta morbilità (17). Gagner
concludeva che la tecnica mini-invasiva non sembrava apportare alcun
beneficio, a fronte di un elevato rischio intra-operatorio e di un alto
tasso di complicanze. Dulucq riporta 22 duodenopancreasectomie, 13
totalmente laparoscopiche e 9 con minilaparotomia di servizio per
facilitare la fase ricostruttiva; il tempo operatorio medio era di 287
minuti, il tasso di conversione del 12%, la degenza post-operatoria
media di 16.2 giorni, la morbidità del 31.8% e la mortalità del 4.5%
(18). La casistica di Palanivelu comprende 45 duodenopancreasectomie
eseguite tra il 1998 ed il 2006 (19). Tutte le procedure sono state
completate laparoscopicamente. L’autore riporta un tempo operatorio
medio di 370 minuti, una degenza post-operatoria media di 10.2 giorni,
nessuna conversione, una morbilità pari al 26.7% ed una mortalità
post-operatoria pari al 2.2%. Tali dati farebbero sembrare l’approccio
mini-invasivo addirittura superiore alla chirurgia tradizionale, ma
diversi bias inficiano i risultati di questi studi: i pazienti operati
sono relativamente giovani (età media di 61 anni), ASA I e II, non
obesi, con un adenocarcinoma ampullare (24 su 45) o di piccole
dimensioni. Si tratta di criteri di inclusione chiaramente non
rappresentativi della popolazione generale. Gli studi sopra riportati
non forniscono inoltre informazioni sulla radicalità oncologica (trancia
di sezione, lamina retro-portale), sull’estensione della
linfoadenectomia, né sui risultati a distanza. I limiti della
duodenopancreasectomia laparoscopica non riconoscono solo precise
motivazioni oncologiche, ma anche difficoltà tecniche, in particolare il
confezionamento delle anastomosi bilio-digestiva e
pancreatico-digiunale durante la fase ricostruttiva e Briggs nella sua
revisione di 82 duodenopancreasectomie, in prevalenza eseguite per
adenocarcinoma della papilla (42.7%), conclude affermando che la stretta
selezione dei pazienti nelle varie casistiche non rende i risultati
applicabili ad un campione standard (20).
In definitiva, allo stato attuale, pur essendo stata dimostrata la
fattibilità della metodica (con tecnica ora solo laparoscopica, ora
hand-assisted, ora robotica), l’intervento non appare né riproducibile
su larga scala, né vantaggioso rispetto alla tecnica chirurgica open,
ancor oggi la più affidabile e sicura.
A Gagner spetta anche il merito di aver eseguito la prima
pancreasectomia distale laparoscopica, che è la resezione più
frequentemente eseguita con tecnica video-guidata (21). Nella revisione
di Briggs, che raccoglie casistiche non inferiori a 5 casi, su 801
pazienti sottoposti a chirurgia resettiva pancreatica laparoscopica, ben
578 (72.1%) erano stati sottoposti a pancreasectomia distale con o
senza splenectomia (20). L’autore seleziona 25 studi con diagnosi
istologica, per un totale di 372 pazienti: nel 33% dei casi l’intervento
era stato eseguito per un tumore cistico (benigno o maligno) e nel 30%
per un tumore neuroendocrino (funzionante o non funzionante) che, per
questo intervento, rappresentano le indicazioni elettive (22,23,24).
I risultati di tale revisione mostrano come la pancreasectomia sinistra
sia una procedura riproducibile, sicura, a ridotta degenza
post-operatoria, pur se gravata da una morbilità sovrapponibile a quella
dell’approccio chirurgico tradizionale. Questi dati confermano quanto
riportato da Kooby in una revisione multicentrica retrospettiva
pubblicata nel 2008 e relativa a 667 pazienti, trattati, tra il 2002 ed
il 2006, presso 8 Centri universitari, di cui 159 sottoposti a resezione
laparoscopica (25). Dallo studio non emergono differenze
statisticamente significative tra i pazienti trattati con tecnica open e
quelli operati in laparoscopia per quanto riguarda i tempi operatori,
l’insorgenza di fistole e la positività dei margini di resezione.
I pazienti sottoposti a laparoscopia presentavano minori perdite ematiche ed una minore degenza operatoria.
L’enucleazione consente la rimozione completa del tumore, evitando nel
contempo un’eccessiva perdita di parenchima pancreatico. La procedura
espone al rischio di un R1, in caso di lesioni maligne, per cui
l’indicazione elettiva è rappresentata da neoplasie solitarie, piccole,
apparentemente benigne, localizzate preferibilmente alla periferia della
ghiandola o sulla superficie del parenchima: si tratta di
caratteristiche tipiche degli insulinomi. In letteratura, i lavori
concernenti enucleazioni laparoscopiche di tumori del pancreas sono
sporadici e pochi gli autori con casistiche superiori alle cinque unità
(26,27). La revisione condotta da Briggs (20) comprende 11 studi, per un
totale di 130 pazienti. Il 47% ha presentato complicanze
post-operatorie, la più comune delle quali era la fistola pancreatica
(29.3%). L’International Study Group on Pancreatic Fistula (ISGPF) (28)
ha solo di recente definito la fistola pancreatica, suddividendo i
pazienti in tre gruppi in base alla severità del quadro clinico (vedi
cap. 9.5). Ne deriva che al momento non è possibile paragonare con
criteri strettamente oggettivi l’incidenza di fistole dopo laparoscopia e
chirurgia tradizionale (1,29,30); appare peraltro evidente una maggior
insorgenza di fistole dopo enucleazione che dopo pancreasectomia distale
laparoscopica (31).
In definitiva, per quanto concerne la patologia tumorale, la chirurgia
laparoscopica resettiva trova al momento indicazione elettive nei tumori
neuroendocrini e cistici (benigni e borderline) a localizzazione
corpo-caudale (pancreasectomie distali con o senza conservazione della
milza) e nei piccoli tumori endocrini a localizzazione cefalica,
suscettibili di enucleoresezione.

7.2 Tecnica chirurgica

Pancreasectomia sinistra
La tecnica prevede gli stessi passaggi della chirurgia tradizionale, con
alcune varianti in relazione alle abitudini del chirurgo, che possono
riguardare la posizione dell’operatore (tra le gambe del paziente o alla
sua destra) e la dissezione del pancreas (ora dal corpo verso la coda,
ora viceversa, da sinistra verso destra). In uno studio multicentrico
europeo (32), 127 pazienti sono stati sottoposti a pancreasectomia
sinistra per lesioni localizzate nel corpo-coda del pancreas: in 61 casi
(50%) è stato adottato un decubito supino, in 51 (42%) un decubito
semilaterale destro ed in 10 (8%) un decubito laterale destro. E’
descritta di seguito la tecnica adottata presso l’Ospedale S.Orsola di
Bologna, che prevede la posizione semilaterale destra, che, a nostro
avviso, offre una migliore visualizzazione della ghiandola pancreatica e
della loggia splenica ed è particolarmente utile nella fase di
isolamento e dissezione dei vasi splenici.
Il paziente è posto in posizione supina, a gambe leggermente divaricate,
ruotato in decubito laterale destro di circa 30-45°, in leggero
anti-Trendelenburg. Il chirurgo si posiziona alla destra del paziente,
con l’aiuto alla sua sinistra. Il ferrista è sul lato opposto del
paziente, di fronte all’operatore, mentre la posizione del chirurgo
addetto all’ottica può variare a seconda della conformazione fisica del
paziente e della sua attitudine manuale. Due monitor sono in funzione,
uno di fronte all’equipe chirurgica, l’altro a destra, verso la testa
del paziente. Si introduce il primo trocar ottico da 12 mm in regione
peri-ombelicale sinistra e si realizza il pneumoperitoneo a 12 mmHg.
Altri tre trocar da 12 mm vengono posti a semicerchio, triangolando
sulla coda del pancreas. L’intervento ha inizio con un’accurata
esplorazione della cavità addominale; si procede quindi alla
mobilizzazione della flessura splenica del colon. L’aiuto, con una pinza
da presa atraumatica, introdotta attraverso il trocar in epigastrio,
solleva lo stomaco afferrandolo a livello della grande curvatura.
L’operatore, con il dissettore a ultrasuoni o a radiofrequenza, procede
all’apertura del legamento gastrocolico, in modo da esporre la
superficie del pancreas. Si libera quindi la faccia anteriore del
pancreas dalla superficie posteriore dello stomaco, con sezione delle
aderenze presenti, del legamento gastro-lienale e di alcuni vasi brevi.
L’estensione verso sinistra della dissezione del legamento dovrebbe
preservare la gran parte dei vasi gastrici brevi, se la procedura
prevede la conservazione della milza: un’eventuale lesione iatrogena dei
vasi splenici, e la loro conseguente legatura, non compromette la
possibilità di preservare la milza, se i vasi gastrici brevi sono stati
precedentemente risparmiati. Una volta esposta la superficie
pancreatica, l’ecografia intra-operatoria (Figura 1) può essere un
valido ausilio, che compensa parzialmente l’assenza della palpazione
diretta della ghiandola, sia per la localizzazione di tumori piccoli
e/o intraparenchimali, sia per meglio definire i confini della lesione
ed i suoi rapporti con le strutture vascolari ed il dotto di Wirsung.
L’ecografia intra-operatoria richiede esperienza, è operatore-dipendente
e presenta una sensibilità compresa tra l’80% e l’88% ed una
specificità del 95% (33,34). Terminata la fase ecografica, la dissezione
ghiandolare inizia a livello del margine inferiore del corpo del
pancreas, subito a sinistra del Treitz, lateralmente alla vena
mesenterica inferiore, e procede verso la coda, fino al reperimento
della vena splenica. In caso di spleno-pancreasectomia distale, è
opportuno reperire preliminarmente l’arteria splenica sul margine
superiore del corpo pancreatico (Figura 2): il vaso viene legato e
sezionato tra clip o con suturatrice meccanica a carica vascolare. Viene
quindi isolata e sezionata la vena splenica, sempre con suturatrice
meccanica o previa applicazione di clip. Qualora non si riesca a isolare
i vasi splenici dalla neoformazione pancreatica, si può procedere alla
sezione transparenchimale in blocco del parenchima, della vena e
dell’arteria, mediante una o più applicazioni della suturatrice
meccanica. La metodica spleen preserving, da riservare a lesioni
sicuramente benigne e sufficientemente distanti dai vasi splenici,
prevede l’isolamento e la preservazione dell’arteria e della vena
splenica lungo il loro decorso corpo-caudale (Figura 3). Una volta
reperita la vena, a livello del margine postero-inferiore del corpo
pancreatico, si procede alla delicata dissezione della stessa dalla
ghiandola, da destra verso sinistra (Figura 4). I piccoli rami affluenti
provenienti dal pancreas vengono facilmente regolati e solo raramente
risulta necessario apporre delle clip metalliche. La coda del pancreas
viene quindi sollevata e medializzata, utilizzando una pinza da presa
atraumatica, in modo da non danneggiarla e da non provocare piccoli
sanguinamenti ghiandolari, che potrebbero diminuire la magnificazione
dell’immagine laparoscopica. La dissezione del margine superiore del
pancreas, procedendo lungo la superficie posteriore della ghiandola,
permette l’identificazione dell’arteria, che viene dissecata in
direzione opposta della vena, da sinistra verso destra. La dissezione
arteriosa è più agevole, per via di un minor numero di vasi collaterali e
per la ridotta contiguità con il parenchima pancreatico. La dissezione
dei vasi e della ghiandola deve essere estesa, sì da permettere la
sezione pancreatica in sicurezza, su tessuto sano. La lesione
pancreatica deve essere manipolata il più delicatamente possibile, per
evitarne la rottura, con disseminazione del contenuto, che potrebbe
compromettere la radicalità oncologica. La rottura di una lesione
cistica non rappresenta necessariamente una causa di conversione, se si
procede all’aspirazione accurata del contenuto cistico e alla chiusura
della soluzione di continuo.
Alcuni autori eseguono una pancreasectomia spleen-preserving
contestualmente alla sezione dei vasi splenici (c.d. intervento di
Warshaw): in tale evenienza, la vascolarizzazione viene garantita dai
vasi gastrici brevi (35,36). Tale approccio, tecnicamente più agevole,
espone però al rischio di un insufficiente apporto ematico alla milza, a
causa della sezione di alcuni vasi gastrici brevi, spesso inevitabile
durante le manovre di esposizione della parte distale del pancreas. Per
quanto riguarda la sezione del parenchima pancreatico, la tecnica più
utilizzata prevede l’impiego di una suturatrice meccanica: nello studio
multicentrico europeo (32), precedentemente citato, una suturatrice
meccanica è stata utilizzata nel 90% dei casi ed il solo dissettore ad
ultrasuoni nel 9% dei casi, con l’utilizzo di una sutura manuale di
rinforzo nel 4% e 20% dei casi, rispettivamente. Non è dimostrata la
reale efficacia di colle emostatiche o di sigillanti nella prevenzione
di emorragie o fistole post-operatorie. In prossimità della trancia di
resezione viene posto un drenaggio tubulare da 24 mm. Il pezzo
operatorio è quindi asportato attraverso una minilaparotomia,
all’interno di un endobag (Figura 5) o proteggendo la parete con un
lap-disk. L’incisione sovra-pubica garantisce il migliore risultato
cosmetico, ma, quando si renda necessario perfezionare l’emostasi o la
sutura del moncone pancreatico, la mini-laparotomia può essere eseguita
in sede sotto-costale sinistra (Figura 6).

Enucleazione: tecnica chirurgica
In anestesia generale, si posiziona il paziente supino a gambe
divaricate. Il primo operatore si pone tra le gambe del paziente,
l’aiuto alla sinistra del paziente, il secondo assistente all’ottica e
lo strumentista alla destra. Si inserisce il primo trocar ottico da 12
mm in posizione paraombelicale destra e si realizza il pneumoperitoneo a
12 mmHg. Per lesioni localizzate a livello del corpo-coda, la posizione
del paziente e la sede dei trocar sono sovrapponibili a quelli della
pancreasectomia sinistra. Per quanto riguarda le lesioni localizzate a
livello della testa, si procede come di seguito: sotto visione
dell’ottica a 30° si introducono altri due trocar da 10 mm in fianco
destro ed in epigastrio ed un quarto trocar da 12 mm in ipocondrio
sinistro. L’intervento chirurgico inizia con l’apertura del legamento
gastro-colico, per ottenere l’esposizione del pancreas. L’ecografia
intra-operatoria consente di individuare la lesione, la presenza di una
capsula integra e la distanza della lesione dal dotto pancreatico
principale e dai vasi della regione, in particolare dalla confluenza
spleno-mesenterico-portale. Si reperiscono i confini della lesione dal
parenchima sano e si procede all’enucleoresezione della neoplasia. In
questa fase, la dissezione deve essere attenta e delicata e deve mirare a
rimuovere la lesione con l’intera capsula (Figura 7), senza
approfondirsi troppo nel parenchima, rischiando di ledere il dotto
pancreatico di Wirsung. Il dissettore ad ultrasuoni risulta efficace e
maneggevole sotto questo punto di vista. Una volta rimossa la lesione
(Figura 8), essa viene posizionata all’interno di un endobag e asportata
attraverso una delle incisioni dei trocar. L’apposizione di colle
emostatiche o sigillanti, con appositi dosatori da laparoscopia, può
essere talora utile per perfezionare l’emostasi. L’intervento chirurgico
termina con l’inserimento di un drenaggio addominale in prossimità
dell’enucleoresezione, che fuoriesce dall’accesso del trocar in fianco
destro.

Figura 1 Ecografia laparoscopica; evidenti la neoformazione e la vena splenica

Figura 2 Isolamento dell’arteria splenica sul margine superiore del pancreas – arteria caricata su fettuccia

Figura 3 Arteria e vena splenica isolate e corpo-coda del pancreas sollevato e mediatizzato

Figura 4 Isolamento della vena splenica sul margine inferiore del pancreas

Figura 5 Posizionamento del pezzo chirurgico nel sacchetto per estrazione

Figura 6 Estrazione su Endobag mediante incisione sotto-costale sinistra

Figura 7 Isolamento di insulinoma dell’istmo pancreatico

Figura 8 Insulinoma dell’istmo pancreatico enucleato limitando l’asportazione di tessuto pancreatico

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8.0 TERAPIE PALLIATIVE (prima parte)

8.1 Biopsia o FNA percutanea
8.2 Palliazione radiologica
8.3 Palliazione endoscopica
8.4 Palliazione chirurgica
8.5 Best supporting care

8.1 Biopsia o FNA percutanea

Premessa
L’agospirazione con ago sottile (Fine Needle Aspiration, FNA) e la
agobiopsia (Needle Core Biopsy, NCB) sono metodiche di efficacia
comprovata utilizzate, fin dagli anni ’70 e ’80 rispettivamente, nella
pratica clinica a completamento dell’iter diagnostico di masse
pancreatiche non altrimenti tipizzabili, allo scopo sia di definirne la
natura (benigna o maligna) sia di caratterizzarle istologicamente (1).
L’ecografia (US) e la Tomografia Computerizzata (TC) sono state le
metodiche guida più comunemente utilizzate ma, più recentemente, negli
anni ’90 si è andata affermando quale valida alternativa, come
testimoniato da numerosi contributi della letteratura, la guida
ecoendoscopica (EUS) che presenta il vantaggio di una maggiore
accuratezza nell’identificazione di lesioni di piccole dimensioni (1-2
cm) spesso misconosciute o difficilmente individuabili con gli US e/o la
TC.
I risultati della letteratura dimostrano che la FNA e la biopsia
pancreatica sono procedure affidabili, a basso rischio e di
relativamente semplice esecuzione (a condizione che siano affidate a
mani esperte), con sensibilità, specificità ed accuratezza elevate, sia
che vengano eseguite con approccio EUS sia con quello percutaneo, US o
TC guidato. Una revisione della letteratura di numerosi lavori
pubblicati fra il 1986 ed il 2003 evidenzia per le tre metodiche una
sensibilità globale del 64-98%, specificità dell’80-100%, VPN del 16-86%
ed un’accuratezza diagnostica del 74.4-96%, paragonabile quest’ultima a
quella della FNA intra-operatoria (2). Un’altra analisi sistematica,
più recente, relativamente a studi pubblicati fra il 1990 e il 2008,
dimostra per la FNA US o TC guidata una sensibilità dell’87%,
specificità del 100%, accuratezza dell’84% e VPN del 58%, e per la
EUS-FNA (pubblicazioni dal 1997 al 2008) una sensibilità dell’83%,
specificità del 100%, accuratezza diagnostica dell’88% e VPN del 72%
(3).

Aghi
Per l’esecuzione delle agobiopsie percutanee si utilizzano aghi di
diverso calibro che differiscono per morfologia e modalità di prelievo,
anche se negli ultimi anni si è sempre di più diffuso ed affermato
l’impiego di aghi sottili, di calibro < 1 mm, che consentono di
ottenere materiale altrettanto diagnostico, ma risultano meno traumatici
rispetto a quelli di maggior calibro.
Per le agobiopsie pancreatiche, il calibro degli aghi comunemente
impiegati varia fra 25 e 14G (3,4). Per il prelievo citologico (Fine
Needle Aspiration Citology, FNAC) si utilizzano aghi sottili non
trancianti (25-20G) che agiscono con un meccanismo di agoaspirazione,
mentre per l’analisi istologica si impiegano gli aghi cosiddetti
trancianti, in grado di prelevare un frustolo di tessuto, mediante
sezione (aghi tipo Tru-Cut) o mediante aspirazione (aghi tipo
Meneghini). Gli aghi da biopsia hanno calibro compreso fra 19 e 14G (più
frequentemente si utilizzano aghi da 18G); tuttavia, in alcuni casi
possono essere impiegati aghi sottili (22-20G) che, agendo con analogo
meccanismo, consentono il prelievo di un frammento di tessuto
sufficiente per l’analisi micro-istologica (Fine Needle Core Biopsy,
FNCB).
La sensibilità riferita in letteratura per la FNA è compresa tra l’85%
ed il 100%, mentre la specificità varia tra l’82% ed il 100% (5). La
percentuale di falsi negativi è relativamente alta, approssimativamente
il 20% (3), in parte imputabile alla difficoltà di differenziare
carcinomi ben differenziati dagli esiti di pancreatite (6). In
un’analisi retrospettiva recente, che ha rivalutato 260 FNA eseguite
nell’arco di 5 anni (2001-2006) con approccio percutaneo, la
correlazione cito-istologica ha dimostrato una sensibilità dell’81% e
specificità del 100% (7).
Brandt et al. (8) riportano un’accuratezza del 92% per le biopsie
eseguite con aghi da 16-19G e dell’85% con aghi sottili da 20-22G,
mentre Amin et al. (9) riferiscono una sensibilità ed un’accuratezza del
90% utilizzando aghi da 18G.
La specificità per le core biopsy, US o TC guidate, nell’esperienza di
diversi autori è risultata del 100%, in assenza di falsi positivi
(4,5,8).
La presenza di un citologo durante l’esecuzione della FNA consente
l’allestimento e l’analisi citologica del materiale prelevato in tempo
reale fornendo un giudizio immediato di idoneità o inadeguatezza del
prelievo. Inoltre, garantisce di ottenere materiale adeguato in una
maggior percentuale di casi con conseguente incremento dell’accuratezza
diagnostica della procedura. Al contrario, per la valutazione di
adeguatezza del frustolo bioptico è necessario attendere la preparazione
del campione istologico (almeno 2 giorni) con il rischio che esiti
falsamente negativi o prelievi non idonei richiedano la ripetizione
della procedura. Tale svantaggio è però compensato dal poter disporre di
un campione istologico sul quale è possibile eseguire un maggior numero
di analisi (colorazioni, istochimica e immunoistochimica), spesso
indispensabili per il raggiungimento di una diagnosi corretta (tumori
neuroendocrini, linfomi, pancreatiti focali) (9,10).
La scelta dell’ago da utilizzare è condizionata oltre che dal tipo di
prelievo necessario (cito-istologico), dalla sede, dimensioni e
caratteristiche della massa da biopsiare. Nella serie di Brandt et al.
(8) l’accuratezza della biopsia è stata maggiore nelle lesioni di
maggiori dimensioni (> 3 cm: 92%) rispetto a quelle di minor diametro
(<= 3 cm: 84%) ed in quelle localizzate nel corpo e nella coda (93%)
rispetto a quelle nella testa (84%).
Il calibro degli aghi non sempre correla con la gravità delle possibili
complicanze; Brandt et al. (8) riportano il 3.8% di complicanze, con
l’insorgenza di complicanze maggiori (1.1%), anche con aghi sottili da
20-22 G, mentre Li et al. (6), impiegando anche aghi di maggior calibro
(18 G), riferiscono soltanto complicanze minori (3.7%).
Nella serie di Zech et al. (4) per la core biopsy (aghi da 14-16-18G)
compaiono complicanze minori in una percentuale (15.9%) addirittura
inferiore a quella del 21.4% riportata da Matsubara et al. (11), che ha
utilizzato aghi sottili per eseguire sia la core biopsy (21G) sia la FNA
(22G) (Tabella 1).
Ciò nonostante, è opinione comune il ritenere di eseguire in prima
istanza la cito-aspirazione e successivamente il prelievo bioptico,
sulla scorta delle informazioni fornite dalla lettura del materiale
citologico prelevato (10).
L’agobiosia con ago sottile viene eseguita in regime ambulatoriale, (ma è
consigliata la sorveglianza del paziente per almeno 2-4 ore dal termine
della procedura) senza premedicazione, mentre per le biopsie con aghi
di grosso calibro è consigliata l’anestesia locale.
In presenza di disturbi della coagulazione e sempre, se si utilizzano
aghi di grosso calibro, è necessario effettuare la manovra in regime di
ricovero e garantire idonei parametri bioumorali della coagulazione (INR
inferiore a 1.5 e conta piastrinica non inferiore a 40.000).

Tabella 1 Complicanze delle FNA e delle NCB con guida US e/o TC desunte dalla Letteratura (1992-2008)

Metodica guida
La scelta della metodica guida, US o TC guidata, è soprattutto
condizionata dalla possibilità di visualizzare la lesione da biopsiare,
ma può essere influenzata anche dall’esperienza e dalle preferenze degli
operatori (8,9).
In generale, si ritiene che se la massa pancreatica è individuabile con
gli US, la biopsia dovrebbe essere eseguita con la guida ecografica
piuttosto che con la TC (12) o, quantomeno, non si dovrebbe prescindere
dal valutarne la fattibilità (10).
L’ecografia (US) è considerata da molti autori la metodica guida di
scelta perché rapida, semplice, facilmente disponibile, economica e ha
il vantaggio sia di consentire il monitoraggio in tempo reale del
tragitto dell’ago, evitando così l’attraversamento di organi vitali
(vasi, colecisti, colon), sia di identificare precocemente le
complicanze (sanguinamento) (5,10,11).
A differenza della TC non impiega radiazioni ionizzanti e la durata
della procedura (tempo d’esame e di posizionamento dell’ago) è
complessivamente minore.
Il principale svantaggio è rappresentato dalla dipendenza
dall’operatore, la cui esperienza può condizionare considerevolmente la
qualità diagnostica della metodica.
La puntura ecoguidata può essere eseguita con tecnica a mano libera o
utilizzando dispositivi (adattatori) che, montati sulla sonda
ecografica, forniscono preventivamente il tragitto più sicuro per
raggiungere la lesione. Lo studio doppler è ritenuto da taluni autori
indispensabile per l’identificazione dei vasi arteriosi venosi
perilesionali, il cui attraversamento potrebbe essere a rischio di
sanguinamento (10), mentre non è altrettanto determinante l’impiego del
mezzo di contrasto.
Per quanto, a differenza della TC, la guida ecografica consenta di
effettuare approcci multiplanari (possibilità di effettuare scansioni
anche su piani obliqui in senso cranio-caudale), l’approccio considerato
più sicuro è quello anteriore, in regione epigastrica, lateralmente
alla linea mediana, che consente di evitare la colecisti, l’arteria
gastro-duodenale e l’arteria epatica (10).
I maggiori ostacoli all’impiego della guida US sono rappresentati
dall’anatomia del paziente e dalla presenza di meteorismo intestinale
che, impedendo la visualizzazione del pancreas e la localizzazione della
lesione, rendono necessario il ricorso alla guida TC.
La guida TC, da alcuni autori preferita per la maggior confidenza con la
metodica (6,8), consente di superare i limiti dell’ecografia e permette
sempre la programmazione del tragitto dell’ago, individuando le
strutture vitali da evitare (vasi, soprattutto circoli collaterali
voluminosi in presenza di trombosi della vena splenica ed anse coliche
sovradistese). I maggiori svantaggi della guida TC sono l’impossibilità
di controllare in tempo reale il tragitto e la punta dell’ago, per la
cui visualizzazione è necessario la ripetizione di una o più scansioni, i
più lunghi tempi d’esame, l’impiego di mezzo di contrasto (mdc)
organo-iodato (indispensabile per visualizzare sia la neoplasia, sia i
vasi) e l’esposizione del paziente alle radiazioni ionizzanti.
L’approccio più frequentemente utilizzato è quello anteriore, ma sono
stati descritti anche quello laterale o posteriore (3,4,6). Sebbene sia
raccomandato di evitare, quando possibile, l’attraversamento dei
parenchimi e delle anse intestinali, in letteratura sono descritti il
passaggio transgastrico, transepatico, transplenico ed attraverso le
anse del piccolo intestino (8). In questi ultimi casi, l’impiego di aghi
sottili (21G ) dovrebbe essere scevro da complicanze.
Uno studio multicentrico condotto sull’agoaspirato US-guidato in 222
pazienti riporta valori di sensibilità, specificità, valore predittivo
positivo e negativo rispettivamente dell’89%, 98%, 99% e 74% con
un’accuratezza diagnostica complessiva del 91% (13).
Matsubara et al. (11) riferiscono per le biopsie pancreatiche
eco-guidate una sensibilità del 92%, una specificità del 100% ed
un’accuratezza del 92% e, in rapporto al tipo di prelievo effettuato,
una sensibilità, specificità ed accuratezza del 93%, 100% e 93% per la
core biopsy e dell’86%, 100% e 86% per la FNA, rispettivamente.
Li et al. (6) riportano per la core biopsy (aghi 18 e 20G) TC guidata
una sensibilità dell’84%, maggiore per i tumori scarsamente e
moderatamente differenziati (rispettivamente del 96% e 94%) rispetto a
quelli ben differenziati (50%), una specificità del 100%, un valore
predittivo positivo del 100% ed una percentuale di falsi negativi pari
al 50%.
Paulsen et al. (5) riferiscono per la core biopsy US e TC guidata una
sensibilità ed un’accuratezza complessive del 93.9% e 94.4%
rispettivamente, mentre per la sola TC una sensibilità ed accuratezza
del 100% e per la sola ecografia una sensibilità del 92.5% ed
un’accuratezza del 93.3%, rispettivamente. Il valore predittivo negativo
complessivo di entrambe le metodiche è del 60%.

Complicanze
L’agoaspirato e l’agobiopsia pancreatiche sono procedure sicure, ma non completamente scevre da complicanze minori e maggiori.
Complessivamente, la percentuale di complicanze riferite in letteratura è
compresa fra zero e 4.8% (4-6,8,9,11,13-16), con l’eccezione dei valori
del 15.9% e del 21.4% relativamente alle sole complicanze minori
(dolore, febbre, reazione vaso-vagale ed innalzamento transitorio degli
enzimi pancreatici), riportate nelle serie di Zech et al. (4) e di
Matsubara et al. (11) rispettivamente (Tabella 1).
Le complicanze minori sono solitamente autolimitantesi o comunque
controllabili con la terapia medica nella maggioranza dei casi.
La percentuale di complicanze maggiori desumibile dai dati della
letteratura è < 3% (Tabella 1). La complicanza più frequente e
temibile è la pancreatite acuta (conseguente alla puntura di parenchima
sano), che ricorre nell’1.1% nella serie di Brandt et al. (8) e
nell’1.6% in quella di Zech et al. (4).
Amin et al. (9) riportano l’1.1% di complicanze maggiori comprendenti un
ascesso (drenato per via percutanea), una perforazione duodenale
(trattata chirurgicamente) ed un’emorragia retroperitoneale (trattata
con terapia medica), mentre in un’altra serie le complicanze maggiori
(2.6%) erano rappresentate da 2 emorragie retroperitoneali che hanno
richiesto trasfusioni e 1 riacutizzazione di pancreatite cronica per la
quale si è reso necessario il ricovero del paziente (5).
Il rischio di disseminazione neoplastica nelle biopsie addominali è raro
(0.003% – 0.009%) (4), ma diversi studi hanno evidenziato un aumentato
rischio di disseminazione peritoneale nei pazienti sottoposti a FNA
percutanea nei confronti di quelli in cui la procedura è stata eseguita
con approccio endoscopico (16.3% vs 2.2%) (17).

Guida percutanea verso guida endoscopica
Introdotta nel 1990, la FNA con guida ecoendoscopica (EUS-FNA) si è
affermata come valida alternativa all’approccio percutaneo US o TC
guidato. L’Ecoendoscopia (EUS) non risente delle limitazioni
dell’ecografia transaddominale e della TC ed ha una maggiore sensibilità
nell’identificazione non soltanto delle masse pancreatiche, specie di
piccole dimensioni, ma anche dei linfonodi, con un ruolo significativo
non soltanto nella diagnosi, ma anche nella stadiazione della neoplasia
(3). Numerosi studi hanno confrontato la sensibilità dell’EUS e della TC
per la diagnosi delle neoplasie pancreatiche, dimostrando alcuni una
superiorità della prima per la diagnosi, l’invasione vascolare e la
stadiazione linfonodale, mentre altri hanno dimostrato che EUS e TC sono
statisticamente equivalenti (18).
A tutt’oggi, nonostante siano comparse in letteratura numerose analisi
retrospettive che confrontano l’EUS-FNA con le altre metodiche guida
(US, TC, ERCP ed anche chirurgia), non esistono studi clinici
prospettici e randomizzati che indichino se la biopsia pancreatica debba
essere effettuata con guida percutanea, US o TC oppure endoscopica
(18).
In uno studio retrospettivo condotto su oltre 1.000 FNA, che ha
confrontato la guida percutanea, US e TC, ed endoscopica, quest’ultima è
risultata più accurata soltanto in presenza di lesioni con diametro
< 3 cm, ma non si sono evidenziate altrimenti differenze
statisticamente significative riguardo sensibilità, specificità e VPN
(2). Allo stesso modo, Erturk (1) non ha rilevato differenze
significative relativamente ad accuratezza diagnostica, sensibilità e
VPN confrontando la guida ecoendoscopica (88.9%, 85% e 57.1%,
rispettivamente) con quella TC guidata (97.7%, 94.9% e 60%).
Infine, anche in un recente studio prospettico e randomizzato condotto
su 84 pazienti il confronto dell’EUS-FNA con la FNA US o TC guidata ha
dimostrato una più elevata sensibilità ed accuratezza per la guida
ecoendoscopica (84% e 89%, rispettivamente) rispetto a quella percutanea
(62% e 72%, rispettivamente), ma non ha tuttavia rilevato differenze
statisticamente significative (a causa del numero di pazienti arruolati
non sufficiente) (18).
Nei confronti delle metodiche percutanee, l’EUS-FNA ha il vantaggio di
un minor rischio di disseminazione neoplastica (motivo per cui molti
autori la consiglierebbero in pazienti con tumori resecabili) e lo
svantaggio di maggiori costi, minor disponibilità di operatori esperti e
di una maggiore invasività, pur presentando percentuali di complicanze
similari (1-2.5% di complicanze maggiori, più frequentemente emorragie e
pancreatiti, ed il 6% di complicanze minori) (3). Inoltre, a differenza
dell’approccio percutaneo richiede sempre la sedazione.

Indicazioni
Le principali indicazioni per l’esecuzione della FNA e/o biopsia pancreatica possono essere così schematizzate:

– tumori inoperabili: tumori ritenuti non resecabili dall’imaging o
pazienti non elegibili per l’intervento chirurgico rappresentano la
principale indicazione per l’esecuzione di un’agobiopsia. La necessità
di una conferma cito-istologica in previsione di un trattamento non
chirurgico, chemio o radioterapico, è ormai condivisa dalla maggior
parte degli autori e largamente caldeggiata dalle linee guida per
l’adenocarcinoma del pancreas nel National Comprehensive Cancer Network
(NCCN-2006) (3), al fine di pianificare la strategia terapeutica più
idonea, consentendo di differenziare l’adenocarcinoma da altre patologie
meno frequenti (tumori neuroendocrini, linfoma, metastasi) A tal
proposito, va comunque ricordato che spesso la diagnosi di alcune di
queste patologie (pancreatite focale autoimmune, linfoma, tumori
vascolari) può risultare difficoltosa se non impossibile con la sola FNA
(10), rendendo necessario il ricorso alla core biopsy;

– tumori localmente avanzati, ma di dimensioni ridotte e potenzialmente resecabili dopo chemioterapia neoadiuvante;

– tumori operabili: in questi casi la necessità di una diagnosi
pre-operatoria cito-istologica è controversa o quanto meno dibattuta
(3,19). E’ comunque opinione comune e condivisa che in presenza di una
lesione pancreatica solida (che raramente simula altre patologie)
considerata resecabile dall’imaging ed in assenza di manifestazioni
sistemiche, l’intervento chirurgico rappresenta il solo trattamento
potenzialmente curativo e l’esecuzione di un’agobiospia, non modificando
sostanzialmente la strategia terapeutica, non è raccomandata. Soltanto
il linfoma, peraltro raro (0.5% dei tumori pancreatici), non beneficia
del trattamento chirurgico. Inoltre, anche il numero significativo di
falsi negativi riportati per la FNA (fino al 20%) ed il rischio sia di
insorgenza di complicanze sia di disseminazione neoplastica lungo il
tragitto dell’ago sconsigliano il prelievo bioptico nei tumori
resecabili (3). Qualora si rendesse comunque necessaria la FNA in tale
evenienza sarebbe preferibile la guida endoscopica, perché gravata da un
minor rischio di disseminazione secondaria (2.2% vs 16.2%) (20).

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8.2 Palliazione radiologica

Come è noto, circa 4 pazienti su 5 risultano non resecabili al momento
della diagnosi. Molti di loro necessitano di un trattamento palliativo,
dell’ittero ostruttivo, della sintomatologia dolorosa e dell’eventuale
ostruzione duodenale.
Obiettivi della radiologia interventistica sono la palliazione
dell’ittero, sia pre-operatoria nei pazienti operabili sia definitiva
nei pazienti inoperabili e la palliazione del dolore mediante la
neurolisi del plesso celiaco.

Ittero Ostruttivo
L’ittero ostruttivo rappresenta una delle più importanti indicazioni al
trattamento palliativo nei pazienti con CP. La risoluzione dell’ittero
infatti migliora non solo il prurito, sintomo fastidioso e debilitante,
ma anche la qualità della vita, riducendo l’anoressia e la dispepsia
(1).
C’è consenso unanime nel ritenere che l’approccio endoscopico
rappresenti l’opzione di prima istanza nella palliazione dell’ittero
ostruttivo (vedi cap. 8.3) (2,3), anche se nella pratica clinica il 95%
di successo della via endoscopica riportata dalla maggior parte dei
Centri è ottimistico.
L’approccio percutaneo (o combinato endoscopico-percutaneo) rappresenta
la seconda scelta ed è condizionato dal fallimento o
dall’impraticabilità dell’endoscopia (4).

Colangiografia Percutanea Transepatica
Drenaggi Biliari
Negli ultimi anni, il crescente affermarsi di metodiche di diagnostica
per immagini quali l’ecotomografia e la TC e soprattutto, l’introduzione
della Colangio-Pancreatografia con Risonanza Magnetica (CPRM) hanno
ridimensionato il ruolo diagnostico della Colangiografia Percutanea
Transepatica (CPT) nello studio della patologia delle vie biliari. La
CPRM consente di visualizzare l’intero albero biliare e di identificare,
in un’elevata percentuale di casi, la sede e la causa dell’ostruzione
bilio-pancreatica, analogamente alla CPT, ma in modo del tutto
incruento, riservando a quest’ultima un significato preminentemente
terapeutico. La CPT rappresenta infatti il primo tempo, irrinunciabile,
di qualsiasi procedura interventistica sulle vie biliari quali
l’applicazione di un catetere di drenaggio transepatico biliare esterno
(DTBE), interno-esterno (DTBEI) ed interno (DTBI).
La puntura percutanea si effettua sotto controllo radioscopico con
accesso sulla linea ascellare media a livello del X o XI spazio
intercostale, scelto in modo da evitare l’attraversamento dello sfondato
pleurico. In corrispondenza del punto d’accesso cutaneo, vengono
praticate un’anestesia locale ed una piccola incisione per favorire
l’introduzione dell’ago. L’accesso può anche essere eseguito con
approccio da sinistra, attraverso la puntura transepigastrica
sottoxifoidea, utilizzando la guida ecografica. A tale riguardo, alcuni
autori sostengono che, qualora il drenaggio biliare abbia carattere
definitivo (“a permanenza”), quest’ultimo tipo di accesso sia meglio
tollerato dal paziente (4).
L’ago più utilizzato oggi (ago di Chiba) ha un calibro di 21-22 Gauge, è
scarsamente traumatico e dotato di mandrino estraibile, capace di
supportare l’inserimento di una sottile guida metallica.
Scelto il sito di puntura, l’ago viene inserito in profondità nel
parenchima epatico, con direzione caudo-craniale, grossomodo in
direzione della confluenza biliare. Rimosso il mandrino, si ritrae
lentamente l’ago sotto guida radioscopica iniettando simultaneamente
piccole quantità di mezzo di contrasto (mdc) iodato, sino ad ottenere
l’opacizzazione di un dotto biliare, adeguato per il successivo
cateterismo.
Drenaggio transepatico biliare (DTB)
Punto il dotto prescelto con l’ago di Chiba e sfilato il mandrino, si fa
progredire al suo interno una guida metallica sottile sulla quale è
possibile far scorrere cateteri di derivazione angiografica e guide di
calibro maggiore, o più rigide, nel tentativo di valicare la stenosi e
posizionare un drenaggio biliare. I cateteri utilizzati si differenziano
per calibro (da 6 fino a 12 F), composizione (più frequentemente
polietilene poliuretano, silicone) e conformazione (ad esempio: dotati
di ricciolo distale che evita pericolosi decubiti sulla parete biliare o
intestinale).
Drenaggio transepatico biliare esterno (DTBE)
Nei casi in cui non si riesca a superare l’ostruzione o quando sia
opportuno drenare all’esterno le vie biliari (ad esempio, colangite
suppurativa) il catetere, dotato di numerosi fori, viene collocato
all’interno della via biliare a monte della stenosi, consentendo un
drenaggio esterno della bile (DTBE). Il catetere viene quindi fissato
alla cute con punto di sutura, affinché non possa essere sfilato
accidentalmente, e raccordato con un sacchetto di raccolta.
Drenaggio transepatico biliare esterno – interno (DTBEI)
Nei casi in cui, procedendo alternativamente con guide e cateteri
angiografici di foggia idonea, si riesca a valicare la stenosi biliare, è
possibile posizionare “a cavaliere” della stenosi un drenaggio biliare
interno – esterno (Figura 1), che consente di ripristinare il
fisiologico deflusso della bile in duodeno, evitando conseguenze quali
un’eccessiva perdita di liquidi, elettroliti ed acidi biliari ed il
malassorbimento lipidico.
Il DTB può avere carattere temporaneo pre-operatorio (ottimizzazione
delle condizioni pre-operatorie e trattamento delle complicanze
post-operatorie immediate e tardive), quando sussistano i criteri di
radicalità chirurgica, anche se la letteratura in merito è attualmente
discordante e gli studi più recenti non dimostrano un vantaggio in
termini di riduzione delle complicanze nei pazienti con CP sottoposti a
DTB pre-operatorio; non solo, ma alcuni recenti contributi sembrano
dimostrare che tale tipo di drenaggio si assocerebbe ad un aumento delle
complicanze post-operatorie, soprattutto infettive (5). Studi
multicentrici, randomizzati e controllati si rendono pertanto necessari
per stabilire linee di condotta corrette e condivise.
Nei casi in cui non sia prospettabile l’intervento chirurgico, il DTB ha
invece finalità palliativa e carattere definitivo quando, a causa
dell’avanzato stadio della neoplasia o per il grave scadimento delle
condizioni generali del paziente, non sia possibile il posizionamento di
una protesi biliare.
Le complicanze gravi dei drenaggi biliari non sono frequenti e,
generalmente, hanno insorgenza precoce come l’emobilia (1%) che
raramente, se di entità rilevante, può richiedere l’embolizzazione
d’urgenza del vaso arterioso leso. Le complicanze tardive, solitamente
secondarie all’ostruzione o allo sposizionamento del drenaggio (8%),
sono rappresentate, oltreché dalla recidiva dell’ittero, da episodi
colangitici (che regrediscono rapidamente con la terapia antibiotica),
ascessi e biliomi (1-4%), fistole bilio-digestive (0.5%), colecistiti,
ematomi della capsula o del sito d’ingresso. Quest’ultima è una
complicanza relativamente precoce e non è classificabile come
complicanza grave (6).
Le uniche controindicazioni assolute ad una CPT ed al posizionamento di
un DTB sono le gravi turbe della coagulazione (INR > 2.5, conta
piastrinica inferiore a 50.000), ma in alcuni di questi casi può essere
sufficiente procrastinare l’intervento fino alla normalizzazione dei
parametri coagulativi (6).
Il drenaggio biliare può rappresentare l’ultimo step dell’iter
diagnostico-terapeutico o la prima tappa in previsione del
posizionamento di endoprotesi biliari.
Endoprotesi biliari (DTBI)
Trascorsi 4-7 giorni dal posizionamento di un DTBE o DTBEI, necessari
per consolidare il tragitto percutaneo e per valutare la funzionalità
epatica residua sulla base della diminuzione degli indici di colestasi, è
possibile inserire una protesi “a cavaliere” della stenosi neoplastica.

Diversi studi clinici controllati e randomizzati hanno dimostrato la
superiorità degli stent metallici rispetto alle protesi plastiche nel
garantire la pervietà, (successo tecnico > 90% e clinico > 75%
nelle maggiori serie) e per questo motivo il loro impiego è ormai
condiviso e raccomandato nella palliazione dei tumori inoperabili (4,7).

Il posizionamento percutaneo di stent metallici è da considerarsi una
procedura alternativa al trattamento chirurgico (effettuato nei pazienti
risultati inoperabili alla laparotomia esplorativa), poiché offre
risultati a distanza paragonabili, è eseguibile in anestesia locale, è
ben tollerato ed è gravato da una minore percentuale di complicanze e di
mortalità (4).
Gli stent metallici utilizzati in ambito biliare sono classificati in
autoespandibili ed espandibili meccanicamente (con catetere a
palloncino), mentre a seconda della configurazione possono essere a
maglia aperta o ricoperti, rivestiti cioè all’interno con materiale
plastico sintetico (poliuretano, dacron) (7). Studi recenti non hanno
evidenziato una differenza significativa riguardo alla pervietà fra gli
stent ricoperti e i non ricoperti (8) ed essendo i primi molto costosi
non vengono routinariamente impiegati nella palliazione neoplastica.
Inoltre, alcuni autori riferiscono per gli stent ricoperti un aumentato
rischio di migrazione ed un’incidenza elevata di colecistite acuta
(3.8%) dovuta all’ostacolato deflusso di bile attraverso il dotto
cistico coperto dallo stent (7).
Gli stent inseriti per via percutanea hanno solitamente un calibro di
8-10 mm, una lunghezza di 4-8 cm e necessitano di un tratto di
almeno 2 cm di via biliare integra per un corretto ancoraggio
prossimale. Il sistema di rilascio ha un calibro molto ridotto (2-3 mm
di diametro) e pertanto, il loro inserimento è molto meno traumatico
rispetto a quanto avviene con le protesi plastiche che creano un tramite
parenchimale di maggiori dimensioni (Figura 2).
L’ostruzione è la complicanza più frequente ed è correlata a diverse
variabili quali il calibro dello stent, la viscosità e le
caratteristiche della bile e, soprattutto, eventuali fattori flogistici
associati. L’emobilia, la crescita del tumore intra ed extraluminale e
l’accumulo di sludge biliare sono le cause di ostruzione più
frequentemente riferite in letteratura (7). In questi casi, è possibile
tentare la disostruzione dello stent mediante lavaggi o facendo scorrere
guide metalliche al suo interno. In alcuni pazienti, gli stent possono
essere ricanalizzati utilizzando cateteri a palloncino o riposizionando
un altro stent metallico nel lume di quello preesistente (9). Talora
tuttavia, si rende necessario l’inserimento di un nuovo drenaggio
biliare.

Neurolisi del plesso celiaco
La vera causa della sintomatologia dolorosa di alcuni pazienti affetti
da tumore del pancreas non è stata ancora completamente spiegata: essa
può essere di fatto dovuta all’invasione perineurale oppure
all’ostruzione dei dotti pancreatici. Le recenti tecniche di neurectomia
hanno chiarito molti dubbi in merito; la stimolazione dolorosa
proveniente dalla regione pancreatica è veicolata da fibre che si
trovano a ridosso delle arterie splenica, mesenterica superiore ed
epatica e che vengono convogliate al ganglio celiaco (10), il quale è
situato nelle vicinanze delle arterie celiache ad un livello compreso
tra le vertebre T12 ed L2 (11).
La neurolisi del plesso celiaco, mediante alcolizzazione, è da molti
autori considerata il trattamento ottimale per questi pazienti, sebbene
non vi sia consenso unanime riguardo la sua efficacia. La neurolisi può
essere effettuata per via chirurgica, econdoscopica o percutanea. La
scelta dell’approccio percutaneo TC guidato è condizionato sia delle
condizioni anatomiche sia dalla preferenze del radiologo.
L’approccio posteriore con paziente in decubito prono o laterale
consente la scelta di diverse vie (transcrurale, retrocrurale,
anterocrurale, ecc), mentre l’approccio anteriore riduce il rischio di
complicanze neurologiche (la punta dell’ago è davanti sia alle arterie
spinali sia al canale spinale), riduce il tempo di procedura, è più
confortevole per il paziente, ma ha lo svantaggio di un maggior rischio
di complicanze quali infezioni, ascessi e fistole.
L’approccio posteriore transcrurale, descritto da Singler nel 1982 (12) e
l’approccio anteriore consentono entrambi di iniettare la soluzione
alcolica attorno al ganglio ed al plesso celiaco, piuttosto che nello
spazio retrocrurale (13). Si utilizzano aghi di Chiba, sottili e
atraumatici, che vengono infissi, sotto guida TC, ai lati del tronco
celiaco antero-lateralmente all’aorta. Verificato, mediante l’iniezione
di una piccola quantità di mdc ed anestetico, il corretto posizionamento
degli aghi, dimostrato anche dalla diminuzione della sintomatologia
algica riferita dal paziente, si procede all’ablazione con circa 20 ml
di soluzione alcolica.
Le complicanze riferite in letteratura comprendono ipotensione (30%
dei casi) da vasodilatazione splancnica, diarrea (60%) da effetto
parasimpatico e complicanze neurologiche, quali paraplegia, parestesie,
deficit sensoriali (1%) (14).
La percentuale di successo ottenuta dai diversi autori nella remissione
del dolore neoplastico varia fra il 70% e il 97%, mentre la durata della
remissione del dolore è compresa fra 6-12 mesi (14,15).

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8.0 TERAPIE PALLIATIVE (seconda parte)

8.3 Palliazione endoscopica

Solo una minoranza dei pazienti con neoplasia del pancreas può essere
sottoposta a resezione chirurgica con intento curativo (1). Inoltre, la
sopravvivenza media dei pazienti alla diagnosi è di circa 6 mesi (2).
L’endoscopia digestiva svolge un ruolo primario nella palliazione dei
pazienti inoperabili, soprattutto nel trattamento dell’ittero ostruttivo
del transito gastro-duodenale e del dolore cronico di tipo ostruttivo.
E’ stato osservato che nei pazienti inoperabili, la mancanza di cure
palliative è associata a ridotta sopravvivenza (2).

Stenosi biliari
L’ittero secondario all’ostruzione del tratto intrapancreatico del
coledoco è spesso il sintomo d’esordio dei pazienti con neoplasie del
pancreas (3). Nonostante il drenaggio biliare possa essere ottenuto
anche con un intervento chirurgico o per via radiologica-percutanea, il
drenaggio biliare per via endoscopica viene oggi di gran lunga preferito
alle altre metodiche (4). L’approccio endoscopico è associato infatti
ad una ridotta ospedalizzazione, mortalità e morbilità, nonché ad una
migliore qualità della vita ed ad una significativa riduzione dei costi
(5,6).
Dalla sua introduzione nella pratica clinica alla fine degli anni ’70,
il posizionamento di endoprotesi biliari è oggi considerato una tecnica
efficace e ben riconosciuta (4) per la palliazione dei pazienti itterici
ed inoperabili.
Il trattamento endoscopico dell’ittero consiste prevalentemente nel
posizionamento di endoprotesi all’interno della via biliare principale.
Il drenaggio endoscopico è fattibile nella maggior parte dei pazienti ed
è efficace nella risoluzione dei sintomi da ostruzione biliare quali
ittero e prurito (4,7).
Gli insuccessi del trattamento endoscopico sono legati prevalentemente
alla concomitante presenza di stenosi duodenali, che possono limitare
l’accesso alla regione vateriana, od alla presenza di stenosi biliari
intra-epatiche multiple (secondarie a lesioni ripetitive multiple),
aggredibili con difficoltà per via retrograda transpapillare.
Le protesi endoscopiche per il drenaggio biliare sono in plastica od autoespandibili in leghe metalliche (8).
Le protesi in plastica utilizzate per il drenaggio biliare, più
economiche e diffuse, hanno un diametro compreso fra 7 e 11.5F. E’ stato
dimostrato che maggiore è il diametro delle protesi, più a lungo queste
si mantengono pervie. Per le stenosi biliari secondarie a neoplasie del
pancreas, in genere si utilizzano protesi di lunghezza compresa fra 5 e
7 cm (8).
Le protesi biliari di plastica sono costituite da un piccolo tubo di
polietilene, leggermente pre-curvato al centro o ad una delle estremità
per conformarsi al decorso curvilineo del tratto intra-pancreatico del
coledoco. In prossimità dei due estremi della protesi, sono presenti due
alette o flap per consentire un valido ancoraggio della protesi a
livello della stenosi ed evitarne la migrazione prossimale o distale. Le
prime endoprotesi ad essere messe in commercio presentavano invece un
sistema di ancoraggio costituito da un “ricciolo” o pigtail alle due
estremità. L’utilizzo delle protesi tipo pigtail è però oggi limitato ad
applicazioni particolari (8).
Le complicanze specifiche del posizionamento di protesi biliari sono
soprattutto legate alla loro occlusione e malfunzionamento o secondarie
alla loro migrazione (9,10).
Le protesi di plastica tendono ad occludersi precocemente nel tempo,
specialmente se di piccolo calibro (7 e 8.5 Fr); la loro durata media è
di circa 3-4 mesi. L’occlusione delle protesi avviene in genere ad opera
di fango biliare. Il primum movens nell’occlusione delle endoprotesi
sarebbe rappresentato dalla deposizione di uno strato di proteine sulla
superficie interna dell’endoprotesi, con conseguente adesione batterica,
e dalla deconiugazione e precipitazione dei costituenti biliari, con
successiva formazione di fango biliare (11).
Nel corso degli anni, sono state sviluppate protesi di plastica di varie
forme ed utilizzando polimeri diversi (ad esempio, Polietilene, Teflon,
Poliuretano ed altri), nel tentativo di prolungare la durata delle
protesi biliari in plastica. Tuttavia, nonostante le aspettative
prodotte dai risultati in vitro e dai primi studi clinici eseguiti,
nessun polimero si è effettivamente dimostrato superiore al Polietilene
nel prolungare la durata della pervietà delle protesi biliari (8).
Vari farmaci, inclusi sali biliari, antibiotici ed altri, sono stati
utilizzati per tentare di ridurre la formazione del biofilm e del fango
biliare. Tuttavia, anche in questo caso, gli studi clinici non hanno
confermato sostanziali e significativi vantaggi (8).
Le protesi biliari autoespandibili sono state sviluppate per superare il
problema dell’occlusione precoce delle protesi di plastica. Le protesi
metalliche attualmente disponibili per utilizzo endobiliare sono
costituite in Elgiloy (lega a base di Cromo e Cobalto) o Nitinol (lega a
base di Nickel e Titanio) (8). Le protesi metalliche autoespandibili
sono inserite nella via biliare all’interno di introduttori di piccolo
calibro (da 6F a 11.5F di diametro) e, una volta rilasciate, raggiungono
la loro completa espansione (6-10 mm di diametro). Recentemente, la
maggior parte delle protesi biliari metalliche autoespandibili sono
state dotate anche di una copertura in materiale plastico, per evitare
la loro occlusione tardiva secondaria alla crescita tumorale tra le
maglie della protesi (8,12).
Studi comparativi hanno dimostrato una durata significativamente
maggiore delle protesi metalliche rispetto a quelle in plastica (13,14).
Le protesi metalliche autoespandibili hanno in media una durata di
circa 7 mesi e questo limita la necessità di reintervenire
periodicamente nei pazienti sottoposti a trattamento endoscopico
palliativo dell’ittero. Il trattamento endoscopico dell’occlusione delle
protesi metalliche può anche essere molto difficile e può richiedere il
posizionamento di un’ulteriore endoprotesi all’interno di quella
ostruita, incrementando i costi della palliazione (15,16).
Ad ogni modo, contrariamente a quanto accade per i pazienti trattati con
protesi di plastica, la maggior parte dei pazienti neoplastici ai quali
viene posizionata una protesi biliare autoespandibile, muore prima di
sviluppare segni di ostruzione biliare recidiva (17,18).
Le protesi metalliche autoespandibili hanno ancora costi elevati, tanto
che questo sembra rappresentare il principale limite alla loro ampia
diffusione nella pratica clinica. In una prospettiva di costo-efficacia,
il loro utilizzo andrebbe raccomandato soprattutto in pazienti con
neoplasie di piccole dimensioni, senza metastasi a distanza, e che
abbiano un’aspettativa di vita superiore a 4-6 mesi (13,14,19).
Tuttavia, il loro utilizzo potrebbe essere giustificato anche in
pazienti con un’aspettativa di vita inferiore, nel caso in cui sia
presente una stenosi duodenale o nei pazienti con occlusione precoce
degli stent di plastica, ad esempio per la presenza di emobilia, fango
biliare, o colangite acuta suppurativa (14).
L’approccio transpapillare mediante ERCP è fattibile e garantisce un
adeguato drenaggio biliare nella maggior parte dei pazienti. Tuttavia,
quando la papilla di Vater è inaccessibile (ad esempio, esiti
chirurgici, stenosi duodenale, ecc.), il drenaggio biliare può essere
ottenuto sotto controllo EUS, per via transduodenale o transgastrica. Si
tratta però ancora di esperienze preliminari, eseguite in Centri di
riferimento, che non permettono conclusioni definitive (20).

Stenosi duodenali
Le neoplasie maligne del pancreas si possono associare, nella fase
finale della loro evoluzione, ad infiltrazione della parete duodenale,
che può divenire sintomatica in circa il 10% dei pazienti (1). Il
trattamento palliativo tradizionale è rappresentato dal confezionamento
di una gastro-digiunostomia chirurgica.
Le evidenze scientifiche sul ruolo degli stent enterali nella
palliazione dei pazienti con neoplasia del pancreas sono ancora
limitate. Ad ogni modo, le esperienze disponibili dimostrano che il
posizionamento endoscopico di endoprotesi duodenali è sicuramente
fattibile nella maggior parte dei pazienti. Il posizionamento di uno
stent enterale sarebbe associato ad una più rapida ripresa
dell’alimentazione, ad una minore durata dell’ospedalizzazione, ad una
minore incidenza di complicanze immediate e, teoricamente, a costi
inferiori (21-24). Tuttavia, un recente studio prospettico randomizzato
di confronto fra trattamento chirurgico ed endoscopico ha dimostrato una
migliore efficacia a lungo termine ed un minor costo complessivo
dell’intervento chirurgico (25).
Gli stent enterali disponibili in commercio sono costituiti da sottili
fili di Nitinol intrecciati a costituire una protesi con una maglia
molto flessibile per adattarsi alla forma del duodeno. Una volta
espansi, hanno un diametro > 2 cm per permettere un adeguato transito
alimentare. Nella maggior parte dei casi, si preferisce l’utilizzo di
endoprotesi duodenali non ricoperte per limitare il rischio di
migrazione dello stent, nonostante stent duodenali ricoperti da una
membrana in materiale plastico vengano utilizzati con successo (26-28).
Il posizionamento di una protesi duodenale è relativamente semplice e
rapido. I pazienti ricevono, in genere, solo una blanda sedazione
cosciente e lo stent viene rilasciato direttamente sotto controllo
endoscopico e fluoroscopico utilizzando normali endoscopi. Il
posizionamento può essere teoricamente eseguito anche sui pazienti in
condizioni generali compromesse.
Nonostante l’efficacia, il posizionamento di protesi duodenali è gravato
da complicanze, incluse l’ostruzione o la migrazione degli stent o la
perforazione duodenale (29). Molti pazienti con stenosi duodenale hanno
una concomitante e simultanea stenosi della via biliare principale. Il
posizionamento di protesi endoscopiche biliari e duodenali è possibile e
rappresenta un’efficace metodica palliativa. Tuttavia, quando la
seconda porzione duodenale e la papilla di Vater sono direttamente
coinvolte dalla stenosi duodenale o quando una protesi duodenale copre
l’area vateriana, l’accesso alle vie biliari può essere difficile.
Inoltre, date le difficoltà di accedere alle vie biliari dopo il
posizionamento di uno stent metallico duodenale, il drenaggio biliare
dovrebbe, ove possibile ed indicato, precedere il posizionamento della
protesi duodenale. Se, al contrario, l’ostruzione biliare si
manifestasse successivamente alla stenosi duodenale o se l’accesso alle
vie biliari non fosse possibile prima del posizionamento di uno stent
duodenale, potrebbe essere necessario il ricorso al drenaggio biliare
percutaneo transepatico (30) (vedi cap. 8.2).

Dolore cronico
Il dolore è uno dei sintomi più frequenti (80-85%) dei pazienti con neoplasia avanzata del pancreas (1).
L’endoscopia può avere un qualche ruolo nel trattamento del dolore da
neoplasia del pancreas. Nella maggior parte dei casi, il dolore è
cronico, continuo, sordo, non in relazione ai pasti, localizzato nei
quadranti addominali superiori, spesso irradiato al dorso. Questo dolore
è verosimilmente legato ad infiltrazione neoplastica delle terminazioni
nervose simpatiche e del tessuto pancreatico e peripancreatico. La
neurolisi del plesso celiaco (CPN) viene in genere eseguita per via
radiologica percutanea, sotto guida fluoroscopica o TC (vedi cap. 8.2).
Tuttavia, l’approccio posteriore percutaneo può essere in alcuni casi
molto difficile e gravato da complicanze anche gravi.
L’approccio transgastrico, sotto guida EUS (EUS-CPN), è stato proposto
ed eseguito con successo, con risultati sovrapponibili a quelli della
neurolisi percutanea (31).
I gangli celiaci non sono visibili all’ecoendoscopia e l’iniezione di
alcool assoluto viene eseguita utilizzando reperi vascolari (aorta e
tronco celiaco). I risultati pubblicati in letteratura sull’EUS-CPN sono
molto incoraggianti, soprattutto a breve termine, ma ancora parziali.
Mancano infatti evidenze scientifiche conclusive sul ruolo nella
palliazione del dolore cronico da neoplasie del pancreas e studi
comparativi con la CPN percutanea (32).
In una minoranza di pazienti, il dolore si verifica prevalentemente in
relazione ai pasti (inizia pochi minuti dopo i pasti e dura da una a due
ore), è localizzato ai quadranti superiori e si irradia posteriormente
verso sinistra. Da un punto di vista clinico, è simile a quello dei
pazienti con pancreatite cronica ostruttiva ed è associato alle stesse
caratteristiche pancreatografiche della pancreatite cronica (stenosi del
dotto pancreatico principale con dilatazione del sistema duttale a
monte; ectasia dei dotti pancreatici secondari). La decompressione del
dotto pancreatico mediante posizionamento di una protesi pancreatica di
grosso calibro può rappresentare un valido trattamento del dolore di
tipo “ostruttivo” in un gruppo selezionato di pazienti (33).

Terapie adiuvanti EUS-guidate
Il ruolo diagnostico dell’EUS è oggi ben consolidato. Accanto a questo,
l’EUS si sta proponendo nella terapia e nella palliazione delle
neoplasie del pancreas. Gli aghi normalmente utilizzati per l’EUS-FNA
sono stati adattati per l’iniezione di agenti antineoplastici od agenti
biologici con azione antitumorale direttamente nella sede della
neoplasia. Si tratta però ancora di esperienze molto preliminari e non
conclusive (5).
Altri autori hanno dimostrato la fattibilità di una brachiterapia sotto
controllo EUS, iniettando “semi” radioattivi in tumori non resecabili
del pancreas, con risultati promettenti, ma ancora non definitivi (5).

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8.4 Palliazione chirurgica

La drammatica aggressività del tumore del pancreas si manifesta già nei
pazienti con tumore localmente avanzato, dove la sopravvivenza a 5 anni
risulta dell’8.2%, mentre scende all’1.8% nei pazienti metastatici (1).
Al momento della diagnosi, non più del 15-20% dei pazienti può essere
candidato ad un intervento chirurgico con intento radicale; inoltre,
nonostante i significativi progressi della diagnostica pre-operatoria
raggiunti negli ultimi anni, il tumore del pancreas risulta non
asportabile nel 20-30% dei pazienti portati al tavolo operatorio (2). In
questi pazienti diventa punto cardine la palliazione dei sintomi, in
primo luogo dell’ittero (80-100% dei pazienti), del vomito da stenosi
duodenale (15-30%) e del dolore (45-55%) (2-7). L’efficacia della
palliazione endoscopica ha reso sempre meno indicato il ricorso “di
principio” ad un intervento chirurgico palliativo (8). Tuttavia, rimane
ancora uno spazio per la chirurgia palliativa che oggi può avvalersi
anche di un approccio mini invasivo e quindi praticabile anche in
pazienti con associate patologie.

Palliazione chirurgica: interventi
Storicamente, la derivazione biliare veniva sempre eseguita mediante
un’anastomosi coledoco-duodenale o colecisto-duodenale, interventi
relativamente rapidi e semplici. Tuttavia, poiché il tumore del pancreas
può rapidamente coinvolgere il duodeno, tali anastomosi possono essere
defunzionalizzate anche precocemente da un’invasione della neoplasia e
rendersi così inefficaci per la palliazione dell’ittero. Questo dato
deve essere preso in considerazione soprattutto nei pazienti non
resecabili, ma con aspettativa di vita relativamente non breve. Oltre a
ciò, bisogna considerare che nei casi localmente avanzati con precoce
coinvolgimento del duodeno, per esempio nei tumori della porzione
antero-superiore del pancreas, un’anastomosi diretta tra via biliare e
duodeno può non essere tecnicamente realizzabile.
L’epatico-digiuno-anastomosi su ansa defunzionalizzata ad Y secondo Roux
fatta passare attraverso il mesocolon risulta essere l’intervento più
efficace e duraturo per la palliazione dell’ittero da tumore della testa
del pancreas. Per quanto riguarda la palliazione dell’ostruzione
duodenale, l’intervento eseguito è nella quasi totalità dei casi una
gastro-digiuno-anastomosi.
Attualmente, gli interventi palliativi eseguiti sia per risolvere
l’ittero sia la stenosi duodenale sono gravati da una mortalità ed una
morbilità contenute soprattutto se confrontati con i risultati deludenti
di alcuni anni fa. I dati di alcuni recenti lavori (Tabella 1) relativi
ai risultati peri-operatori di questi interventi mostrano una morbilità
variabile dal 15% circa, riscontrata negli studi di Mukherjee (8) e
Hwang (7), al 33% riportato da Artifon (5), mentre la mortalità va dallo
zero dello studio di Artifon (5) al 6.5% evidenziato nel lavoro di
Mukherjee (8).

Tabella 1 Procedure chirurgiche e risultati peri-operatori

Tali risultati sono sovrapponibili ai risultati della palliazione
endoscopica (mortalità 0-15% e morbilità 4-30%) (8). Per ciò che
riguarda i risultati a distanza (Tabella 2), nei pazienti sottoposti a
palliazione chirurgica si riscontra una minor frequenza di ittero
recidivo rispetto a quelli trattati per via endoscopica e/o percutanea;
nelle casistiche più recenti, tale evenienza, nei pazienti operati,
varia dallo zero riportato da Artifon et al. (5) al 5% circa riscontrato
negli studi di Kim (6) e Hwang (7), rispetto al 20-43% dei casi
sottoposti a drenaggio endoscopico o percutaneo transepatico (ERCP/PTC)
(4,6,7). Analizzando infine la sopravvivenza mediana, questa risulta
significativamente migliore nei pazienti sottoposti a bypass chirurgico
rispetto a quelli sottoposti a palliazione endoscopica/percutanea
(8-12 mesi vs 5-7 mesi) (4,6,7).

Tabella 2 Risultati a distanza

Un’importante considerazione che deve essere fatta valutando tali
risultati a confronto è che, analizzando i lavori più recenti presenti
in letteratura esiste un solo studio prospettico randomizzato (5) che
prende in considerazione, in maniera rigorosa, l’impiego di una
palliazione chirurgica rispetto ad una palliazione non chirurgica.
L’evidente bias di tali risultati è nella altrettanto evidente
disomogeneità del campione dei pazienti che vengono sottoposti ad un
tipo di palliazione piuttosto che ad un altro tipo, in considerazione
dello stadio della malattia tumorale, delle condizioni generali e della
prognosi attesa. Questo è confermato senza alcun dubbio dalla
sopravvivenza mediana significativamente superiore dei pazienti
sottoposti ad intervento palliativo chirurgico, che testimonia appunto
un diverso stadio della malattia.

Palliazione chirurgica: bypass biliare, bypass gastrico o duplice bypass?
Sebbene, come mostrato nella Tabella 1, la duplice derivazione biliare e
digestiva sia l’intervento maggiormente eseguito nella palliazione
chirurgica dei pazienti affetti da cancro del pancreas non resecabile,
permangono ancora dei dubbi sulla reale utilità di associare al bypass
biliare una gastro-digiuno-stomia nei pazienti che presentano ittero, ma
non stenosi duodenale. Due studi prospettici randomizzati non hanno
riscontrato alcun aumento significativo della mortalità e della
morbilità nell’eseguire contemporaneamente la derivazione biliare e
gastro-digiunale, mentre si è assistito ad una netta riduzione di
sintomi ostruttivi gastrointestinali tardivi nei pazienti sottoposti a
duplice bypass (0-5.5% vs 19-44%) (3,9). Tale dato è stato anche
confermato da una meta-analisi pubblicata nel 2000, nella quale è emerso
come la duplice derivazione sia da preferire nella palliazione di
questi pazienti, con un tasso di morbilità e mortalità sovrapponibili
alla sola derivazione gastrica o biliare, una sopravvivenza migliore
rispetto al confezionamento della sola gastro-entero-stomia ed una
necessità di reintervento inferiore rispetto al bypass biliare isolato
(10). Infine, una recentissima meta-analisi, pubblicata nel giugno 2009,
ha ulteriormente avvalorato tale affermazione, evidenziando i migliori
risultati, in termini di decorso peri-operatorio, della duplice
derivazione biliare e gastrica (11). Tale studio ha altresì confermato
la carenza di lavori prospettici randomizzati su questo argomento: da un
potenziale pool di 750 “potentially relevant abstracts”, sono stati
inclusi nella meta-analisi solo 3 studi (11).

Trattamento del dolore
La chirurgia trova impiego nel controllo del dolore dei pazienti con
neoplasia pancreatica non resecabile solo in casi selezionati.
L’ablazione laparotomica del plesso celiaco è indicata solo in pazienti
sottoposti ad intervento per altro motivo, data l’invasività della
procedura (12). La splancnicectomia toracoscopica riveste un ruolo
importante nella palliazione del dolore, nei pazienti non responsivi
alla terapia medica, percutanea e/o endoscopica, con un controllo
completo del dolore in circa il 70% dei casi (13). Infine, la neurolisi
del plesso celiaco mediante iniezione di alcool per via laparoscopica
sembrerebbe rappresentare una buona soluzione in pazienti sottoposti a
laparoscopia di stadiazione (con riscontro intra-operatorio di un tumore
inoperabile), anche se esiste a tale riguardo un solo studio pubblicato
con risultati ancora preliminari (14).

Diagnosi istologica
Se la natura della neoplasia non è stata definita pre-operatoriamente, è
indispensabile una biopsia intra-operatoria della massa pancreatica in
modo da fornire all’Oncologo un’accurata definizione istologica della
malattia. Il tessuto pancreatico può essere prelevato mediante biopsia
incisionale o tramite fine-needle biopsy; l’accuratezza di tale metodica
è elevata, con una morbilità abbastanza contenuta (15). Nei casi in cui
l’inoperabilità viene stabilita per la presenza di secondarismi
(epatici o peritoneali), è da preferire una biopsia di tali lesioni, in
quanto sicuramente gravata da un tasso di complicanze inferiore.
E’ consigliabile un controllo istologico estemporaneo del prelievo nel
corso dell’intervento.

Conclusioni
La palliazione chirurgica in pazienti con adenocarcinoma pancreatico non operabile è indicata se:
1. lo stadio della malattia e le condizioni generali del paziente fanno prevedere un’aspettativa di vita non breve;
2. l’inoperabilità viene riscontrata all’esplorazione chirurgica;
3. sono presenti sintomi ostruttivi gastrointestinali oltre l’ittero;
4. è fallito o non è possibile un trattamento non operatorio dell’ittero e della stenosi duodenale.
È inoltre provato che nella scelta del tipo di palliazione, la duplice
derivazione biliare e gastrica rappresenta la migliore soluzione
terapeutica per questi pazienti.

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8.5 Best supporting care

Le problematiche maggiori che si presentano in soggetti affetti da
neoplasia del pancreas sono: dolore, disturbi gastrointestinali (nausea,
vomito e stipsi), difficoltà nutrizionali ed ascite neoplastica.
Le cure di supporto hanno lo scopo di alleviare e, quando possibile,
eliminare questi problemi correlati sia alla malattia di base sia ai
trattamenti antineoplastici.

Dolore
Più del 75% dei pazienti affetti da neoplasia del pancreas hanno dolore
che compare sin dall’esordio della malattia (vedi cap. 4) ed è difficile
da trattare.
Il trattamento del dolore è uno degli aspetti principali nella cura del
cancro del pancreas e deve iniziare il più precocemente possibile.
In particolare, gli obiettivi del trattamento sono:
– eliminare o almeno ridurre il più possibile il dolore;
– prevenire e/o diminuire gli effetti collaterali dei farmaci;
– migliorare la qualità di vita del soggetto.
Capire le cause del dolore, farne una valutazione complessiva,
ottimizzare la terapia farmacologia, e non, valutando la risposta del
malato, sono gli aspetti cardine in questo particolare ambito operativo
(1).

Valutazione del dolore
Esordio: quando è iniziato? Quanto spesso capita? Che cosa lo scatena?
Localizzazione: da dove nasce? Dove s’irradia?
Tipologia: profondo, pressante, pulsante, battente (dolore somatico),
crampiforme (dolore viscerale), urente, tagliente, penetrante, pungente
(dolore neuropatico).
Intensità: qual è l’intensità massima? Cosa lo peggiora? Cosa lo allevia?
Breakthrough pain (dolore dirompente), episodico. Molto frequente nei casi con metastasi ossee (dolore incident o da carico).
Le metastasi ossee sintomatiche sono un reperto abbastanza raro nel
cancro del pancreas; l’incidenza globale viene stimata in letteratura
tra il 5% ed il 20%. Un aumento dell’incidenza è stato registrato a
seguito del prolungamento della sopravvivenza, correlato all’uso di
radio-chemioterapia. Le metastasi possono essere sia litiche sia
addensanti con una percentuale maggiore di quest’ultime. E’ consigliata
terapia con bifosfonati (acido zoledronico o pamidronato disodico) con
cadenza mensile (2).
Dolore da deafferentazione: questo tipo di dolore compare dopo
intervento chirurgico come disconnessione tra neuroni nocicettivi di I e
II ordine. E’ l’unico dolore che permette al paziente di non essere
svegliato nel sonno. Si tratta con antidepressivi triciclici o
anticonvulsivanti.
Dolore da ostruzione del Wirsung: è un dolore che compare dopo i
pasti e scompare a digiuno. Abitualmente, accentua il dolore continuo
tipico dell’infiltrazione dei plessi nervosi peripancreatici.
L’accurata valutazione della tipologia del dolore permette di capire se
si tratta di dolore somatico, viscerale, neuropatico o, come più
frequentemente accade nel dolore pancreatico, misto.
L’utilizzo di scale del dolore NRS (Numeric Rating Scale) e VAS (Visual
Analogue Scale) da parte del personale medico e paramedico può essere
uno strumento utile per uniformare e semplificare la complessa
problematica della valutazione del dolore.

Farmaci
Per una corretta impostazione terapeutica ci si basa sulla scala
dell’OMS, utilizzando per primi i FANS, seguiti dagli oppiacei a bassa
potenza (tramadolo e codeina) ed, infine, da quelli ad alta potenza
(morfina, ossicodone, buprenorfina, fentanile, idromorfone e metadone)
(3).
Nei pazienti con sintomatologia dolorosa molto intensa, è fondamentale usare fin dall’inizio oppiacei ad alta potenza.
Linee guida internazionali indicano che gli oppiacei ad alta potenza
possono essere somministrati in tutta sicurezza, in dosi crescenti, sino
al raggiungimento di un buon livello di analgesia.
Per gli oppiacei ad alta potenza non vi è “effetto tetto”: il loro
dosaggio può essere teoricamente aumentato senza limiti. L’unico limite è
dato dalla comparsa di effetti collaterali incontrollabili.
Il dosaggio corretto è quello che garantisce il sollievo dal dolore con i minori effetti collaterali.
La morfina è il farmaco di prima scelta. E’ presente in commercio in
formulazioni a pronto rilascio (utili per la titolazione della dose
efficace) ed a rilascio prolungato (terapia di mantenimento).
Valida alternativa è l’ossicodone, due volte circa più potente della
morfina, di cui si hanno preparati a pronto rilascio in associazione con
modeste quantità di paracetamolo ed a rilascio prolungato senza
paracetamolo.
L’idromorfone, cinque volte più potente della morfina, è disponibile in
compresse a lento rilascio nelle 24 ore, cioè in monosomministrazione
giornaliera.
Nella terapia di mantenimento si devono preferire farmaci a rilascio prolungato.
Buprenorfina e fentanile transdermici sono considerati una seconda
scelta e si utilizzano in situazioni di dolore stabili o quando
l’assunzione di farmaci per via orale non è possibile, considerando la
difficoltà della loro titolazione.
In presenza di una componente neuropatica si utilizzano tramadolo,
ossicodone, buprenorfina, idromorfone e metadone in associazione ad
antidepressivi o gabapentin o pre-gabalin o altri anticonvulsivanti.
Il breakthrough pain (dolore dirompente), necessita di dosi
“salvataggio” (rescue dose) di farmaci quali FANS intramuscolo o morfina
a pronto rilascio o fentanile transmucoso o morfina per os o sottocute.

Il fentanile transmucoso è presente in commercio in vari dosaggi.
Qualunque sia la quantità di oppiaceo assunta dal paziente, va sempre
utilizzato il dosaggio minore (200 mcgr). Il suo tempo d’azione è
brevissimo (3-4 minuti) ed è efficace nel dolore episodico; nei pazienti
con neoplasia pancreatica nel dolore post-prandiale.
Un buon controllo del dolore rimane la priorità nei pazienti affetti da
neoplasia: molte variabili individuali intervengono nella risposta alla
terapia con oppiacei, per cui spesso si rende necessaria la “rotazione”
dei farmaci (4). Essa consiste nella sostituzione di un farmaco con un
altro, mantenendo la dose equianalgesica, allo scopo di ridurre o
annullare gli effetti collaterali, di migliorare la potenza analgesica e
di ridurre il fenomeno della tolleranza.

Modalità di somministrazione
I farmaci vanno somministrati a orario, con regolarità e non a
richiesta, sulla base della loro farmacocinetica e tenendo sempre
presente la situazione clinica del paziente.

Vie di somministrazione
La via preferenziale è quella orale.
Quando questo non è possibile, si possono utilizzare le vie transdermica, sottocutanea o endovenosa.
In situazioni particolari, possono essere utilizzate le vie epidurale ed
intratecale. In questi casi vengono posizionati cateteri o nello spazio
peridurale o nello spazio liquorale, collegati a pompe che possono
essere sia elastomeriche sia elettroniche. Le pompe vengono rifornite
con morfina e/o anestetici locali per ottenere una migliore analgesia e
minori effetti collaterali.
L’utilizzo dell’anestetico locale consente una riduzione del dosaggio di
oppiaceo ed un miglior controllo del dolore neuropatico.
Vi è, inoltre, la possibilità di effettuare boli di farmaco (PCA,
Patient-Controlled-Analgesia) nel caso di breakthrough pain. Con la PCA,
il paziente può autosomministrarsi delle quantità preimpostate di
farmaco, ad intervalli regolari senza superare le dosi definite.
La gestione dei cateteri e delle pompe richiede Centri di riferimento specialistici (5).

Effetti collaterali
Gli effetti collaterali più frequenti nella terapia con oppiacei sono:

Blocco neurolitico del ganglio celiaco
Può essere effettuato quando la terapia farmacologia risulta inadeguata
nei casi di neoplasia localizzata a livello pancreatico, non aggredibile
chirurgicamente.
E’ una procedura invasiva, che necessita di personale specializzato.
Viene effettuato un test-prova con anestetico locale e successivamente,
una volta accertato il buon risultato antalgico, il blocco definitivo
con alcool al 50% con tecnica TC guidata, con amplificatore di brillanza
o mediante guida ecografica.
Il completo sollievo dal dolore, cioè senza necessità di ulteriore
apporto di farmaci, si ottiene in una piccola percentuale di casi.
In ogni caso, vi è una riduzione dell’utilizzo di analgesici e di solito il beneficio dura 3-4 mesi.
Svariate complicazioni vengono segnalate anche se con incidenza non elevata (6,7).

Neuroablazione chirurgica
Si procede, intra-operatoriamente, all’alcoolizzazione delle fibre del plesso celiaco o alla simpaticectomia mono o bilaterale.

Nuove tecniche
In alcuni Centri vengono eseguiti la splancnicectomia toracoscopia,
tecnica poco invasiva, in anestesia generale ed il blocco del plesso
celiaco sotto guida ecografia attraverso la parete gastrica.

Conclusioni
La terapia del dolore nella neoplasia pancreatica è difficile. Bisogna
cercare di controllare la sintomatologia sin dai primi esordi e ci deve
essere un monitoraggio costante dell’efficacia terapeutica con frequenti
rivalutazioni, soprattutto all’inizio.
E’ necessario essere disponibili per cercare di risolvere
tempestivamente le inevitabili problematiche che si possono presentare
nel corso della malattia.

Nutrizione
Il malato affetto da cancro del pancreas può aver perso peso prima della
diagnosi. In questi pazienti, l’apporto nutrizionale e calorico
costituiscono un problema importante.
La perdita di peso peggiora l’astenia, la capacità di sottoporsi a
chemioterapia ed allunga i tempi di recupero dopo l’intervento
chirurgico, oltre ad una percezione più intensa del dolore.
Le principali raccomandazioni comprendono:
– pasti piccoli e frequenti con cibi facilmente masticabili;
– privilegiare frutta, verdura, pane, pasta, cereali e fagioli;
– limitare consumo di grassi animali, carne grassa ed alcolici;
– uso di integratori, se graditi (barrette, bevande);
– attività fisica (30 minuti al giorno).
I problemi maggiori sono astenia, perdita di appetito, digestione difficile e malassorbimento.
Si possono avere fastidiose modifiche dell’olfatto e del gusto (terapia con oppioidi).

Diarrea da malassorbimento
L’insufficienza esocrina è frequente soprattutto nei tumori che ostruiscono il Wirsung cefalico.
Il problema viene risolto con terapia enzimatica sostitutiva (fino a
10.000 U. lipasi ogni 10 kg di peso corporeo per pasto principale e dosi
ridotte per spuntini. L’assunzione deve essere frazionata: dopo il
primo boccone ed a metà del pasto), eventualmente associata ad
inibizione della secrezione acida gastrica.

Diabete
Il primo sintomo di neoplasia pancreatica può essere l’insorgenza o
l’aggravamento improvviso di un diabete, necessari quindi un regime
dietetico opportuno e l’uso di insulina.

Enzimi pancreatici
Gli enzimi pancreatici (amilasi, lipasi e tripsina) devono venir
somministrati per ovviare al malassorbimento, che è caratterizzato
dall’incapacità di digerire grassi e proteine e i cui sintomi sono
eruttazioni, difficoltà alla digestione, steatorrea o stipsi, debolezza
muscolare.
La posologia è individuale.

Ascite neoplastica
E’ una complicanza frequente soprattutto dei tumori del corpo-coda del
pancreas che frequentemente si associano a carcinosi peritoneale.
La diagnosi precoce ed un trattamento diuretico intensivo
(antialdosteronici più diuretici d’ansa) ne consentono abitualmente un
adeguato controllo.
Si possono rendere necessarie ripetute paracentesi.

BIBLIOGRAFIA

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9.0 CHIRURGIA RESETTIVA (prima parte)

9.1 Chirurgia resettiva standard
9.2 Chirurgia resettiva – linfoadenectomia
9.3 Resezioni vascolari
9.4 Radioterapia intraoperatoria (IORT)
9.5 Definizione delle complicanze e vantaggi della concentrazione

9.1 Chirurgia resettiva standard

Il cancro del pancreas è uno dei tumori più aggressivi, rappresentando
la quarta causa di morte per cancro nel mondo occidentale (1). La
sopravvivenza a 5 anni è < 5% e questo è dovuto sia alla sua precoce
tendenza alla metastatizzazione sia alla scarsa risposta alla
chemioterapia (2).
Il trattamento chirurgico è l’unica opportunità nel tentativo di curare i
pazienti. Infatti, recenti lavori riportano una sopravvivenza a 5 anni
variabile dal 15% al 25% dopo resezione curativa (3,4). Sebbene la
chirurgia pancreatica rappresenti una disciplina impegnativa ed in
continua evoluzione, l’approccio multidisciplinare con sviluppo di
moderne tecniche anestesiologiche, terapia oncologica appropriata,
trattamento peri e post-operatorio attraverso personale dedicato ha
ridotto la mortalità a circa il 5% nei Centri ad alto volume di pazienti
(5). Il punto centrale è che purtroppo solo una piccola parte dei
pazienti (circa il 20%) affetti da cancro del pancreas è resecabile al
momento della diagnosi (6). La duodenocefalopancreasectomia (DCP) è la
procedura chirurgica standard per questo tumore, anche perché la maggior
parte dei casi si localizza nella testa del pancreas. Per molti anni la
DCP classica, descritta in primis da Kausch e Whipple, è stata il gold
standard per l’adenocarcinoma della testa del pancreas (6). In seguito,
numerosi studi hanno dimostrato come la DCP con preservazione del piloro
(PP-DCP) sia ugualmente radicale per il trattamento del tumore del
pancreas, con dati di morbilità ed outcome a lungo termine
sovrapponibili alla DCP classica (7). Altre procedure chirurgiche
includono la pancreasectomia distale con o senza rimozione della milza
per tumori localizzati nel corpo e nella coda del pancreas, la
pancreasectomia totale per tumori multifocali e la più rara
pancreasectomia intermedia, che trova applicazione in casi sporadici di
tumori benigni localizzati nel corpo pancreatico. Nonostante i continui
progressi della chirurgia in ambito pancreatico, vi è la necessità di
nuovi approcci terapeutici in questi pazienti. Studi clinici che hanno
valutato la possibilità di chirurgia aggressiva con resezioni vascolari o
linfoadenectomia estesa (8,9) non hanno prodotto miglioramenti in
termini di sopravvivenza. Dati incoraggianti provengono invece da studi
che hanno valutato la possibilità di approccio multimodale con
chemioterapia adiuvante come l’ESPAC 1 e il CONKO-001 (vedi cap. 10).
Sopravvivenze a 5 anni del 55% sono state riportate in pazienti trattati
con chemioterapia adiuvante ed immunoterapia, anche se in questo ultimo
studio non è stato preso in considerazione un braccio di controllo
(10,11). Resta poi controverso il ruolo della chirurgia nella malattia
metastatica o nella recidiva di malattia come anche della
radiochemioterapia neoadiuvante, come approccio multimodale.
Per quanto riguarda la definizione di CP resecabile, borderline resecabile e non resecabile si fa riferimento al capitolo 6.2.

Resezione per neoformazioni della testa del pancreas

Duodenocefalopancreasectomia (DCP) classica secondo Kausch-Whipple
Per molti anni, ha rappresentato l’intervento di scelta per il
trattamento dei tumori localizzati nella testa del pancreas (12). La
procedura consiste nella resezione della testa del pancreas con il
duodeno e la parte distale dello stomaco, la colecisti e il digiuno
prossimale con rimozione in blocco dei linfonodi regionali. Dopo
apertura dell’addome ed ingresso nella cavità peritoneale, va accertata
l’operabilità attraverso l’esclusione di diffusione di malattia al
fegato o al peritoneo. In un secondo momento, si esegue la manovra di
Kocher e si accede allo spazio retroperitoneale ed ai vasi
retropancreatici per valutare l’estensione della massa neoplastica. In
seguito, vanno valutati i rapporti della neoformazione con l’arteria
mesenterica superiore (AMS) per definirne la resecabilità. Quindi,
preparata la vena mesenterica superiore (VMS) fino a definire il suo
passaggio sotto il pancreas nel suo margine inferiore, si esegue la
cosiddetta tunnelizzazione del pancreas, che viene sollevato su
fettuccia. Questo passaggio ci permette di visualizzare la vena porta e
di preparare in seguito il margine superiore del pancreas. Per
consentire una resezione en bloc si esegue poi la rimozione della
colecisti con la via biliare principale sezionata sovra l’imbocco del
dotto cistico. A questo punto, si identifica l’arteria epatica propria e
la si prepara in direzione dell’arteria epatica comune per identificare
poi l’arteria gastroduodenale (AGD). Questo passaggio è di estrema
importanza e bisogna identificare con certezza la AGD prima di
sezionarla su legature. A seguire, si esegue la sezione del pancreas
davanti al tronco mesenterico-portale e la resezione in blocco si
conclude poi con la resezione del duodeno e dello stomaco distale.

Duodenocefalopancreasectomia (DCP) con preservazione del duodeno (PP-DCP)
Questa procedura, introdotta in principio da Watson nel 1942 (13),
divenne famosa quando fu riconsiderata da Traverso e Longmire nel 1978
(7). Introdotta dapprima per il trattamento di tumori papillari, oggi è
considerata il gold standard per il trattamento dei tumori della testa
del pancreas, per il minor tempo operatorio ed il minor sanguinamento
intra-operatorio rispetto alla resezione classica. Il razionale nel
preservare lo stomaco ed il duodeno prossimale risiede nel miglioramento
della funzione gastrica. Infatti, preservando la prima parte del
duodeno si ha una minor incidenza di ritardato svuotamento gastrico,
ulcere marginali e gastrite alcalina. Per ottenere questo obiettivo e
mantenere un piloro funzionante bisogna preservare ovviamente tutto lo
stomaco e 2 cm della prima parte del duodeno prossimale, preservando la
vascolarizzazione dello stesso. Seguendo la divisione dell’arteria
gastrica di destra e dell’arteria gastroepiploica di destra bisogna
scheletrizzare il duodeno distalmente al piloro. Il bulbo duodenale
viene poi sezionato su dispositivo meccanico. Nel passato si è discusso
molto sulla radicalità oncologica di questo tipo di intervento e
soprattutto sulla possibilità della crescita tumorale attraverso i
linfonodi del piccolo omento. In aggiunta, diversi studi hanno
dimostrato la maggior incidenza di ritardato svuotamento gastrico (DGE)
dopo PP-DCP (14,15). In seguito, un numero considerevole di studi
randomizzati e meta-analisi hanno evidenziato come la PP-DCP sia
comparabile, in termini di morbilità ed outcome a lungo termine, alla
DCP classica (16,17). Su queste basi, entrambi gli interventi sono da
considerarsi ugualmente efficaci per neoformazioni della testa del
pancreas o tumori periampullari (18).

Anastomosi pancreatica
L’insufficienza dell’anastomosi pancreatica rappresenta la causa
maggiore di morbidità e mortalità correlate alla procedura. In
letteratura sono descritte diverse tecniche per eseguire un’anastomosi
pancreatica sicura e, sebbene siano state ormai standardizzate nei
diversi Centri ad alto volume di pazienti, non esiste ancora un consenso
su come eseguire un’anastomosi senza rischio di leakage (19). In
aggiunta, sono stati evidenziati diversi fattori prognostici sfavorevoli
come la consistenza del pancreas (soffice > duro), la tecnica
chirurgica (traumatica > meticolosa) l’estensione della dissezione
chirurgica (multi viscerale > standard) e l’ampiezza del dotto di
Wirsung (piccolo calibro > dotto dilatato) (20). Le due anastomosi
più utilizzate in letteratura sono la pancreatico-digiunostomia (PDS) e
la pancreatico-gastrostomia (PGS). La PDS viene eseguita invaginando il
pancreas resecato nel digiuno. Una variante di questa tecnica è la
tecnica dutto-mucosa con anastomosi diretta del dotto pancreatico alla
mucosa del digiuno. Questa variante dovrebbe garantire un buon deflusso
di succo pancreatico nel digiuno evitando eventuali ostruzioni con stasi
all’interno del dotto pancreatico. Suturando in latero-terminale si
riesce ad adattare in modo idoneo il digiuno aperto al moncone
pancreatico. Un’altra tecnica chirurgica prevede l’anastomosi tra
moncone pancreatico e stomaco nella cosiddetta PGS. Studi osservazionali
hanno evidenziato la superiorità della PGS verso la PDS in termini di
fistola e mortalità (21). In contrasto, studi randomizzati e
meta-analisi recenti non hanno confermato questi dati con risultati
uguali tra PDS e PGS. Come ulteriore opzione, il dotto pancreatico può
essere occluso con sigillanti biologici (22). Questa pratica è stata
associata ad altissimo rischio di fistola ed insufficienza pancreatica
esocrina ed endocrina. Studi clinici randomizzati (23) sull’utilizzo
della colla di fibrina per chiudere il dotto o per sigillare
l’anastomosi non hanno dimostrato vantaggi nel prevenire eventuali
complicanze e pertanto questa pratica è stata abbandonata. Sulla base
dei dati correnti non esistono evidenze in favore di una particolare
tecnica chirurgica, ma di certo l’anastomosi deve rispettare i seguenti
criteri: essere priva di tensione, una buona vascolarizzazione dei
tessuti e non occludere il dotto distalmente.

Ricostruzione con ansa antecolica o retrocolica
In un recente lavoro, il gruppo di Heidelberg, Hartel et al. hanno
analizzato la possibile incidenza di complicanze in relazione al tipo di
ricostruzione eseguito dopo PP-DCP (24). Sono stati analizzati
100 pazienti trattati con duodenodigiunostomia antecolica ed altrettanti
con variante retrocolica. Mortalità e sopravvivenza risultano
comparabili nei due gruppi, tuttavia il gruppo con variante antecolica
presenta percentuali significativamente ridotte (5% vs 24%) in termini
di ritardato svuotamento gastrico e di degenza media post-operatoria.

Resezione per tumori del corpo e della coda del pancreas

Pancreasectomia distale
La pancreasectomia distale è la procedura standard per tumori del
corpo-coda pancreatici. Diversamente dalla DCP, in questo caso non vi è
necessità di resecare il duodeno e la via biliare principale. Il
pancreas viene usualmente diviso a sinistra dell’asse porto mesenterico e
comunque la linea esatta di transezione è condizionata dalla sede del
tumore. Il metodo convenzionale per prevenire il leakage del moncone
pancreatico è la sutura diretta del dotto e, a seguire, l’adattamento
con punti transfissi sulla capsula pancreatica. Con l’avvento delle
suturatici meccaniche si è aperto spazio a nuove tecniche di sutura del
moncone pancreatico in associazione all’utilizzo del bisturi ad
ultrasuoni, della colla di fibrina o dell’iniezione di prolamina. In
considerazione del fatto che nella pancreasectomia distale non si esegue
alcuna anastomosi, vi è l’erronea tendenza a considerarla un intervento
semplice. Al contrario, le complicanze riportate in letteratura variano
dal 22% al 33% (25). Una recente analisi retrospettiva ha evidenziato
morbilità e mortalità in una serie di 302 casi consecutivi
rispettivamente del 35% e 2% con un’incidenza di fistola pancreatica del
12%. In questo studio viene riportata una maggiore incidenza di fistola
pancreatica in pazienti in cui il dotto è stato chiuso con suturatrice
meccanica, insieme ad altri fattori di rischio quale intervento di
durata maggiore ai 480 minuti e resezioni multiviscerali (25). La
splenectomia viene eseguita en bloc con il pancreas sinistro quando il
tumore è collocato nella coda. Essa è considerata mandatoria a causa
degli stretti rapporti dell’arteria e vena splenica con il corpo del
pancreas e all’opinione diffusa che la preservazione della milza non
rispetti i corretti criteri oncologici. Di contro, è stato dimostrato
che la conservazione della milza non influisce sulle complicanze, sui
tempi chirurgici e la durata della ospedalizzazione (26). Uno studio su
pazienti sottoposti a pancreasectomia distale con intento curativo ha
evidenziato una sopravvivenza mediana di 12.2 mesi con splenectomia
verso 17.8 mesi in pazienti in cui è stata preservata la milza. Schwarz
et al. raccomandano di salvare la milza in tutti i casi di tumori del
corpo-coda del pancreas ad eccezione di quei casi ove sia presente
una diretta invasione del tumore o l’esecuzione della linfoadenectomia
lo imponga (27). La preservazione della milza si può eseguire o
sezionando l’arteria e la vena distalmente la coda del pancreas all’ilo
splenico o preservando la vena e l’arteria in toto, se non infiltrate
dal tumore. Fondamentale, è preservare i vasi gastrici brevi per
assicurare la vascolarizzazione alla milza. Sebbene i tumori della coda
abbiano un indice di resecabilità inferiore rispetto a quelli della
testa, a causa di diagnosi tardiva in assenza spesso di sintomi, i
risultati in termini di sopravvivenza a 5 anni, in caso di resezione,
sono sovrapponibili a quelli dei tumori resecati con DCP (17% per la
testa verso 15% per la coda).

Resezione segmentaria del pancreas o pancreasectomia centrale
Trova indicazione per lesioni che si localizzano a livello dell’istmo
pancreatico o nella zona più prossimale del corpo. E’ indicata in caso
di tumore benigno o a bassa malignità, metastasi di altri tumori o area
di pancreatite focale e non può essere considerato un intervento
oncologicamente radicale. La tecnica prevede la tunnelizzazione
sull’asse porto-mesenterico con la tecnica descritta in precedenza. Ciò
che differisce è il tempo ricostruttivo. La ricostruzione prevede il
confezionamento di una doppia anastomosi sulle trance di destra e di
sinistra su unica ansa ricostruita alla Roux. In realtà, il margine
cefalico di resezione, se il Wirsung non presenta stenosi a monte, viene
trattato con l’apposizione dell’ansa digiunale utilizzata per
l’anastomosi di sinistra, confezionando una sutura della siero-muscolare
con il margine pancreatico di resezione solo a scopo di copertura.
Müller et al. riportano in un recente lavoro i risultati in 40 casi
consecutivi con dati di morbidità e mortalità del 27% e 2.5%,
rispettivamente. L’incidenza di fistola è stata del 7.5% con follow-up a
29 mesi e quasi il 98% dei pazienti soddisfatti del trattamento
ricevuto, con qualità di vita comparabile al normale (28).

Chirurgia per cancro del pancreas metastatico o recidiva neoplastica

Nelle decadi scorse non avremmo mai pensato di dover affrontare questo
argomento. Oggi, in virtù delle diverse opzioni di terapia adiuvante
peraltro in continuo sviluppo, si impongono alcune considerazioni su
quella grande quota di pazienti che si presenta alla diagnosi con
malattia avanzata o metastatica. In un recente lavoro, il gruppo di
Heidelberg ha analizzato 29 casi selezionati e resecati con malattia
metastatica. Si riportano dati di mortalità peri-operatoria e morbilità
sovrapponibili alle resezioni R0, dimostrandone la fattibilità. Ad ogni
modo, attualmente non possiamo considerare standard questo tipo di
intervento che andrebbe riservato solo a casi selezionati almeno fino
alla valutazione dei risultati di studi clinici randomizzati.
Altro discorso è invece la recidiva neoplastica; essa si presenta in
circa l’80% dei pazienti operati con intento curativo nei primi 2 anni.
Sebbene Kleeff et al. riportino una tendenza all’aumento della
sopravvivenza, un recente lavoro mostra che la storia naturale della
malattia non cambia (9,29).

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9.2 Chirurgia resettiva – linfoadenectomia

L’esigenza di migliorare il controllo locale di malattia nel tumore del
pancreas resecabile ha spinto la comunità chirurgica ad interrogarsi sul
significato oncologico di una resezione estesa ai tessuti
peripancreatici. I peculiari limiti anatomici della ghiandola hanno
portato a focalizzare l’attenzione sull’asse venoso mesenterico-portale,
sui principali tronchi arteriosi peripancreatici (arteria mesenterica,
epatica, splenica e tripode) e sul distretto linfatico associato, oltre
che sul territorio linfatico preaortico e interaortocavale.
I primi dati relativi alla linfoadenectomia estesa sono stati pubblicati
da autori giapponesi negli anni ’80 (1-2). Si tratta di studi
retrospettivi, che riportavano risultati incoraggianti rispetto ai dati
storici. Questi studi hanno consentito di definire le modalità di
diffusione linfatica dell’adenocarcinoma pancreatico e di sistematizzare
l’analisi delle stazioni linfatiche, che sono state classificate
secondo un indice numerico.
Stanti tali premesse, negli anni ’90 sono stati organizzati quattro
studi randomizzati per confrontare la resezione c.d. “standard” con vari
tipi di linfoadenectomia c.d. “estesa”.
Il primo studio randomizzato è stato riportato da Pedrazzoli nel 1998
(3). Nei 6 Centri partecipanti (5 italiani ed 1 statunitense), furono
arruolati 81 pazienti in un periodo di 3 anni. La linfoadenectomia
estesa prevedeva la scheletrizzazione del peduncolo epatico, del
tripode, dell’arteria mesenterica superiore e del tessuto linfatico
preaortico tra tripode, arteria mesenterica inferiore ed ili renali. Non
furono evidenziate differenze significative tra i 2 gruppi riguardo
mortalità, morbilità e sopravvivenza. Nonostante la linfoadenectomia
estesa prevedesse la scheletrizzazione circonferenziale dell’arteria
mesenterica superiore, non furono riportati casi di diarrea persistente
post-operatoria, come segnalato negli studi giapponesi. La differenza
non ampia tra il numero di linfonodi asportati nei 2 gruppi, lascia
tuttavia supporre che la scheletrizzazione dell’arteria mesenterica nel
gruppo di studio fosse più limitata rispetto allo standard giapponese.
Nei soli pazienti con metastasi linfonodali, fu evidenziato un vantaggio
di sopravvivenza a favore della linfoadenectomia estesa. In
particolare, le curve di sopravvivenza dei pazienti N+ trattati con
linfoadenectomia estesa risultarono sovrapponibili a quelle dei pazienti
N0. Si tratta comunque di un dato che, se pur statisticamente
significativo, deriva da un’analisi per sottogruppi post-hoc.
Il secondo studio randomizzato è stato riportato in 3 parti, dal 1999 al
2005, dal Johns Hopkins Institute di Baltimora (4-6). In un periodo di 5
anni, furono inclusi 294 pazienti con adenocarcinoma periampollare (di
origine pancreatica nel 57% dei casi). La linfoadenectomia estesa, più
limitata rispetto allo studio precedente, prevedeva l’exeresi del
tessuto linfatico preaortico posteriore alla regione duodenopancreatica
tra ilo renale destro e bordo sinistro dell’aorta, dopo verifica
istologica intra-operatoria della negatività del margine del processo
uncinato. Non era prevista la scheletrizzazione circonferenziale
dell’arteria mesenterica superiore ed era eseguita la sola biopsia dei
linfonodi del tripode. Il gruppo di studio prevedeva inoltre la
resezione gastrica distale di routine. Mentre mortalità e reinterventi
non risultarono differire nei 2 gruppi, fu evidenziata una maggior
morbilità a carico dell’intervento più demolitivo. Tale morbilità
aggiuntiva era ascrivibile, per la maggior parte, alla più elevata
incidenza di ritardato svuotamento gastrico associato alla resezione
gastrica (49% vs 29%, p=0.006) e, per una minor percentuale, alla
maggior incidenza di fistola pancreatica nel gruppo di studio (13% vs
6%, p=0.05). Non fu evidenziata alcuna differenza di sopravvivenza
neppure stratificando i pazienti per sede di origine della neoplasia o
per stato del parametro N. Nel gruppo di pazienti con adenocarcinoma
pancreatico sottoposti a linfoadenectomia estesa, la percentuale di
positività dei linfonodi retroperitoneali risultò del 16% (13/82). Solo 2
(15%) di questi pazienti erano ancora vivi a 3 anni dall’intervento
contro il 42% dei pazienti con linfonodi retroperitoneali negativi
(p=0.06).
Questi dati confermavano quelli riportati nel 2003 da Capussotti et al.
su una serie di 100 resezioni per adenocarcinoma duttale cefalico (7).
Nei pazienti sottoposti a linfoadenectomia estesa erano presenti
metastasi clinicamente occulte a livello dei linfonodi preaortici nel
25% dei casi, nessuno dei quali era vivo oltre 24 mesi dall’intervento.
Il terzo studio randomizzato è un multicentrico giapponese, pubblicato
solo in forma di abstract nel 2004 (8). Furono inclusi 101 pazienti con
adenocarcinoma pancreatico, in 3 anni. Il campo di linfoadenectomia
estesa era simile a quello dello studio di Pedrazzoli. Non si
evidenziarono differenze significative in termini di mortalità,
morbilità e sopravvivenza. Tuttavia, fu riportata una maggior incidenza
di diarrea nel gruppo di studio nei primi mesi dopo l’intervento (25% a 3
mesi, 9% a 6 mesi), da attribuirsi verosimilmente alla
scheletrizzazione dell’arteria mesenterica con interruzione del plesso
mesenterico superiore.
Nel 2005 è stato pubblicato il quarto studio randomizzato ad opera della
Mayo Clinic di Rochester (9). Furono inclusi 79 pazienti in un periodo
di 6 anni (72 con adenocarcinoma duttale). Lo studio fu interrotto dopo
la prima interim analysis per mancata evidenza di efficacia nel gruppo
di studio. La linfoadenectomia estesa era simile a quella del primo
studio e prevedeva la scheletrizzazione circonferenziale del tripode e
dell’arteria mesenterica. La percentuale di positività dei linfonodi di
secondo livello nel gruppo di studio risultò pari al 29% (18% per i
linfonodi preaortici). La mortalità e la morbilità complessiva non
risultarono differire nei 2 gruppi. Tuttavia, nel gruppo di studio era
segnalata una peggior qualità di vita nei primi mesi dopo l’intervento a
causa dell’alta prevalenza di diarrea (42% a 4 mesi, 11% a 8 mesi). Non
furono evidenziate differenze significative di sopravvivenza, neppure
stratificando i pazienti per stato del parametro N.
I risultati degli studi sopraindicati sono riportati nella tabella seguente.

Studi randomizzati di confronto tra linfoadenectomia standard ed estesa

In conclusione, l’evidenza attualmente disponibile indica che:

1. la linfoadenectomia estesa allunga i tempi operatori ma non comporta
morbilità aggiuntiva, se si esclude la diarrea post-operatoria, nel
primo anno dopo l’intervento, nei pazienti in cui sia eseguita una
scheletrizzazione circonferenziale dell’arteria mesenterica superiore;

2. metastasi linfonodali sono presenti al di fuori del campo di exeresi
di una resezione standard in circa 1/3 dei casi ed a livello dei
linfonodi preaortici in circa 1/6;

3. l’exeresi di tali stazioni linfonodali non migliora la prognosi.

In considerazione di ciò, Farnell concludeva che l’attuale evidenza è
sufficiente per “put to rest the controversy” riguardo la
linfoadenectomia estesa (9).

In realtà, pur in presenza di studi metodologicamente corretti e che con
elevato grado di evidenza depongono a sfavore dell’utilità della
linfoadenectomia estesa, sono necessarie alcune considerazioni sia di
tipo oncologico sia statistico.
Da un punto di vista metodologico, Pawlich (10) ha fatto notare come,
allo stato attuale delle possibilità terapeutiche per il cancro del
pancreas, il numero di pazienti necessario per evidenziare un ipotetico
beneficio della linfoadenectomia estesa in termini di sopravvivenza
sarebbe dell’ordine di migliaia. E’ probabile quindi che gli studi
disponibili non abbiano una potenza adeguata per fornire una risposta
definitiva al quesito.
Da un punto di vista oncologico, dato che il cancro pancreatico è una
malattia sistemica all’esordio nella stragrande maggioranza dei casi, è
improbabile che una procedura locale possa avere un impatto sulla
prognosi. In altre parole, uno studio randomizzato sul tipo di
linfoadenectomia avrebbe maggior ragione di essere qualora la terapia
medica consentisse di contrastare più efficacemente l’insorgenza di
metastasi a distanza.
Per quanto meno studiato, il problema della linfoadenectomia si pone
anche per i tumori della metà sinistra del pancreas. Anche in questo
caso, il limite chirurgico è rappresentato dai grossi tronchi arteriosi
preaortici. Analogamente a quanto riportato per la regione cefalica, è
stata proposta l’estensione della linfoadenectomia ai tessuti
peripancreatici del corpo-coda, con scheletrizzazione del tripode e del
lato sinistro dell’arteria mesenterica ed escissione del tessuto
linfatico preaortico tra pilastri diaframmatici ed arteria mesenterica
inferiore. A questa procedura, può essere associata la resezione del
surrene sinistro o del tripode stesso (intervento di Appleby
modificato). I dati disponibili si riferiscono a casistiche
retrospettive che non consentono una valutazione dell’efficacia della
procedura sul controllo locale di malattia. Nella casistica più numerosa
di 88 pazienti, riportata dal National Cancer Institute di Tokio (11),
la percentuale di positività dei linfonodi preaortici è risultata del
14%, dato in linea con quello derivante dalla linfoadenectomia estesa
per i tumori cefalici. Come indice indiretto della possibile maggior
efficacia della resezione estesa in termini di controllo locale di
malattia, nel 2007 Strasberg (12) ha riportato una serie di 23
splenopancreatectomie distali con linfoadenectomia estesa, sottolineando
come questa tecnica consenta di ottenere un margine radiale negativo
nel 90% dei casi.
Il tema dell’estensione della linfoadenectomia deve essere preso in
considerazione anche nell’ambito dello studio dei fattori prognostici.
Negli ultimi anni, infatti, l’attenzione si è focalizzata sul numero e
sulla ratio dei linfonodi positivi, parametri che si sono rivelati più
informativi della sola determinazione del parametro N in molti tipi di
neoplasia gastroenterica, inclusa quella pancreatica (13).
Inoltre, come accennato in precedenza, anche la sede delle metastasi sembra rivestire un significato prognostico (14).
In considerazione di ciò, la linfoadenectomia estesa, consentendo di
individuare metastasi non clinicamente apparenti nelle stazioni
linfonodali normalmente escluse dal campo della resezione standard,
potrebbe migliorare l’accuratezza della stratificazione prognostica. In
particolare, se come sembra sarà la ratio ad acquisire una maggior
rilevanza nell’ambito dei sistemi di stadiazione patologica, il dato
dovrà essere correlato all’estensione della clearance linfonodale e
standardizzato in base al tipo di linfoadenectomia.

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9.0 CHIRURGIA RESETTIVA (seconda parte)

9.3 Resezioni vascolari

Il carcinoma del pancreas (CP), al momento della diagnosi, è una malattia sistemica nel 98% dei casi (1).

Tuttavia, in assenza di metastasi a distanza macroscopicamente visibili, la resezione chirurgica

rappresenta, ad oggi, lo standard terapeutico (2).
Ciò nonostante, il cancro del pancreas “localmente avanzato” è considerato tradizionalmente una

controindicazione alla resezione chirurgica (3).
Ancora oggi, comunque, ci sono alcuni punti non chiariti riguardanti questo gruppo di pazienti. Innanzitutto,

se si osserva nel dettaglio la letteratura, una vera e propria definizione di cancro del pancreas localmente

avanzato non esiste. Questa definizione viene applicata in modo più o meno arbitrario a tumori con

caratteristiche di aggressività locale decisamente differenti.
Per una valutazione il più possibile oggettiva sull’argomento è necessario analizzare alcuni punti

importanti:
– il rischio peri-operatorio delle pancreasectomie associate a resezione vascolare (che spesso viene

considerato proibitivo);
– l’intento delle resezioni vascolari (radicale o palliativo);
– i risultati a lungo termine (che vengono considerati al pari della chirurgia palliativa);
– su chi e quando eseguire le resezioni vascolari.

Rischio peri-operatorio
Le pancreasectomie con resezione vascolare vengono spesso considerate interventi ad elevato rischio

peri-operatorio e di scarso significato oncologico.
In realtà, da un’analisi dei risultati riportati in letteratura queste obiezioni non paiono oggi confermate.

Possiamo, infatti, osservare come, in Centri ad alto volume di chirurgia pancreatica e con esperienza in

pancreasectomie con resezione vascolare, sia la morbilità sia la mortalità risultano contenute e comunque

non dissimili da quelle della chirurgia pancreatica tradizionale (Tabella 1).

Tabella 1 Morbilità e mortalità delle pancreasectomie associate a resezione vascolare

Intento delle resezioni vascolari

Uno dei principali problemi nell’analisi dei risultati delle pancreasectomie con resezione vascolare

eseguite per cancro è quello relativo al “tipo di intervento” a cui si fa riferimento.
Di fronte ad un CP borderline resecabile (vedi cap. 6.2) esistono, infatti, due “filosofie” chirurgiche su

questo argomento. La prima è quella delle resezioni vascolari eseguite “di necessità” quando, in modo

inatteso, ci si trova di fronte ad un’impossibilità tecnica di asportare un tumore del pancreas senza

resecare un segmento vascolare. In questo caso, la resezione è di solito minimale e non eseguita con

intento radicale. Il secondo atteggiamento è quello invece della resezione “di principio”, che viene

pianificata sulla base degli esami pre-operatori e che ha come unico intento quello di ottenere una

radicalità locale. Questo secondo atteggiamento sembra in linea con i principi generali della chirurgia del

pancreas dove il chirurgo, di fronte ad una malattia sostanzialmente sempre sistemica, può limitarsi solo

ad ottenere una resezione R0 ed a limitare morbilità e mortalità (12). Da questo punto di vista, la resezione

vascolare non solo viene eseguita nei casi di pazienti con chiari segni di infiltrazione vascolare, ma anche

per lesioni di grado 1 di contatto (13) e cioè dove la TC pre-operatoria vede un contatto, senza tuttavia

dimostrare chiari segni di infiltrazione. In questi casi, il tumore non necessariamente infiltra la parete del

vaso, ma la resezione vascolare ha lo scopo di consentire un margine di resezione negativo (Figura 1).

 

Figura 1

L’ottenimento di una chirurgia radicale nel cancro del pancreas localmente avanzato passa anche

attraverso la standardizzazione della tecnica chirurgica, che dovrebbe essere eseguita con tecnica no

touch (4,14,15).

Risultati a distanza delle pancreasectomie con resezione vascolare
I recenti dati di letteratura mostrano che risultati a distanza delle resezioni vascolari non sono, in generale,

dissimili da quelli riportati per la chirurgia tradizionale del cancro del pancreas (4,5).
Tuttavia, quando si parla di resezioni vascolari non si parla di un unico tipo di intervento. In un lavoro

recentemente pubblicato (4), si vede come la mediana di sopravvivenza di soggetti sottoposti a

pancreasectomia con resezione di un singolo vaso (venoso od arterioso) consenta in entrambe i casi una

mediana di sopravvivenza non dissimile da quella delle pancreasectomie convenzionali (15 mesi) e come,

comunque, in entrambe i casi vi sia un vantaggio significativo di sopravvivenza se si paragona questo

gruppo di pazienti ad un gruppo di soggetti di pari stadio sottoposti a terapia palliativa per cancro del

pancreas localmente avanzato. Al contrario, lo studio ha evidenziato come soggetti sottoposti a resezioni

artero-venose di segmenti vascolari multipli (espressione probabilmente di un cancro del pancreas

“realmente” localmente avanzato) avessero una mediana di sopravvivenza di 8 mesi non troppo dissimile

dai pazienti sottoposti a trattamenti palliativi. Sulla base di questi risultati potremmo quindi ritenere che

lesioni del pancreas che nascano vicino ad una struttura vascolare e che richiedano la loro resezione per

l’ottenimento della radicalità dovrebbero forse essere chiamate “tumori sfortunati”, vista la loro posizione,

piuttosto che localmente avanzati. Il coinvolgimento di più strutture vascolari contemporaneamente

potrebbe invece rappresentare l’espressione di lesioni “realmente” localmente avanzate.

Su chi e quando eseguire le resezioni vascolari
Ad oggi, le resezioni dell’asse venoso mesenterico portale per carcinomi del pancreas che hanno un

contatto od un’infiltrazione dello stesso non sono più considerate, dalla maggior parte dei chirurghi, una

controindicazione ad una chirurgia radicale.
Recentemente, in un expert consensus statement della AHPBA (American Hepato-Pancreatico-Biliary

Association) (16), questi interventi sono appunto stati definiti come uno standard terapeutico.
Ancora, supporto alle resezioni venose per cancro del pancreas viene da una recente decision analysis di

Abramson (17). In questo lavoro, l’autore mette a confronto pazienti con cancro del pancreas localmente

avanzato non metastatico sottoposti a pancreasectomia con resezione dell’asse venoso

mesenterico-portale (n=1.324) con pazienti pari stadio, trattati esclusivamente con chemioradioterapia

(n=709).
Da quest’analisi, l’autore conclude che le resezioni venose durante pancreasectomia eseguita per cancro

del pancreas sembrerebbero offrire un vantaggio rispetto al trattamento palliativo chemioterapico, ogni

qual volta si riesce a contenere la mortalità peri-operatoria al di sotto del 31% e quando si riesce a

contenere la percentuale di pazienti con residuo di malattia (sia R1 sia R2) al di sotto del 77%.
Pochi, e quindi non conclusivi, sono invece i dati relativi alle resezioni di segmenti arteriosi isolati durante

pancreasectomia per cancro del pancreas. Recentemente, tuttavia, per questi malati è stata dimostrata

una mediana di sopravvivenza non diversa dai pazienti sottoposti a resezione venosa isolata, anche se i

pazienti sopravvissuti oltre 5 anni si trovano solo nel gruppo delle resezioni venose (4).
Scoraggianti, ad oggi, appaiono invece i risultati delle resezioni di più segmenti vascolari (arteriose e

venose). Tali resezioni, probabilmente eseguite per cancri del pancreas “realmente” localmente avanzati,

sembrerebbero offrire sopravvivenze similari a quelle dei pazienti trattati con terapia palliativa (4).
Si può quindi concludere che, ad oggi, le resezioni di segmenti venosi isolati dovrebbero essere

considerate uno standard terapeutico nella chirurgia del cancro del pancreas (16). Per le resezioni di

segmenti arteriosi isolati ed ancora di più per resezioni di segmenti arteriosi e venosi, i risultati sono più

discordanti e probabilmente questo tipo di resezione dovrà essere rivalutato come eventuale parte di un

trattamento multimodale, nel quale la terapia oncologica ha un ruolo fondamentale.

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9.4 Radioterapia intraoperatoria (IORT)

La presenza in prossimità del pancreas di organi particolarmente sensibili alle radiazioni (fegato, rene,

intestino, midollo spinale) limita la possibilità di somministrare dosi radioterapiche elevate sufficienti a

garantire un ottimale controllo locale del carcinoma del pancreas (CP). Al fine di superare questa

limitazione, sono state utilizzate nel corso degli anni differenti tecniche radioterapiche, tra cui la

radioterapia intraoperatoria.
Per radioterapia intraoperatoria (IORT) si intende un’irradiazione effettuata durante un intervento

chirurgico, dopo exeresi od esposizione di una massa neoplastica, utilizzando la breccia operatoria per far

arrivare il fascio di radiazioni direttamente sul letto tumorale, possibile sede di malattia microscopica o

sede di residuo macroscopico nel caso di resezione non radicale. Con questa tecnica si evita

l’irradiazione delle strutture sane limitrofe e pertanto si possono somministrare elevate dosi radioterapiche

in ogni singola seduta.
Le prime esperienze di IORT risalgono al 1907 per opera di due colleghi spagnoli, Comas e Prio. Negli

anni ’60, Abe et al. ripresero la tecnica utilizzando il 60Cobalto. E’ negli anni ’70, grazie allo

sviluppo degli acceleratori lineari e l’impiego di fasci di elettroni di alta energia con caratteristiche di

penetrazione in profondità minore rispetto ai fasci di fotoni, che tale tecnica comincia ad essere

ampiamente utilizzata dapprima in Giappone e negli Stati Uniti per approdare in Europa negli anni ’80.
Il razionale nell’impiego della IORT consiste nella possibilità di migliorare l’indice terapeutico tra controllo

locale e complicanze. La riduzione dei volumi di trattamento, dovuta alla visualizzazione diretta della

regione da trattare, la possibilità di escludere dal campo di irradiazione le strutture sensibili, mediante

mobilitazione chirurgica o schermatura, e la possibilità di ridurre la dose assorbita dalle stesse, mediante

l’impiego di fasci di elettroni di differente energia, consentono di somministrare alte dosi di radiazioni

nella sede di malattia, in una unica frazione.
Le dosi somministrate variano a seconda che la IORT venga combinata con radioterapia a fasci esterni

(EBRT) prima o dopo la procedura chirurgica. Per trattamenti IORT esclusivi, le dosi variano da 25-30 Gy,

mentre per IORT in combinazione con EBRT da 10 a 20 Gy. L’efficacia radiobiologica di una dose di IORT

equivale a circa 1.5-2.5 volte quella della stessa dose se somministrata mediante EBRT con frazione

giornaliera di 1.8-2 Gy. La dose effettiva, infatti, di un sovradosaggio mediante IORT combinata con EBRT

di 45-50 Gy è pari a 70-80 Gy per dosi IORT di 10 Gy, a 75-87.5 Gy per dosi IORT di 15 Gy ed a 85-100

Gy per dosi IORT di 20 Gy.

Modalità e aspetti tecnici
La moderna radioterapia intraoperatoria è effettuata con fasci di elettroni prodotti da un acceleratore

lineare e diretti a contatto del bersaglio, letto tumorale o residuo di malattia, senza l’interposizione di

tessuti sani come avviene nella EBRT. Rispetto ai fasci di fotoni, quelli di elettroni hanno una

minore penetrazione consentendo un notevole risparmio dei tessuti sani sottostanti al bersaglio. I fasci di

elettroni, infatti, presentano il vantaggio di erogare una dose uniforme dalla superficie a pochi centimetri di

profondità, oltre i quali la dose cade rapidamente. Inoltre, l’impiego di fasci di elettroni di differente energia

e, quindi, con caratteristiche di penetrazione differenti tra loro, consente di adeguare la dose in profondità

in funzione dello spessore del bersaglio stesso.
La IORT con fasci di elettroni è eseguita mediante due modalità che dipendono dal tipo di apparecchiatura

utilizzata, acceleratori lineari convenzionali o acceleratori lineari dedicati, da collocare nel contesto di una

sala operatoria, che comportano una differente gestione del paziente durante l’intervento chirurgico. I primi

prevedono, infatti, il trasporto del paziente con ferita aperta ed in anestesia dal letto operatorio alla

macchina di terapia e viceversa una volta completata la procedura IORT, mentre i secondi consentono di

eseguire il trattamento direttamente sul letto operatorio.
Per la IORT con acceleratore convenzionale può essere utilizzata l’apparecchiatura del Servizio di

Radioterapia, modalità più utilizzata, od una collocata direttamente nella sala operatoria, con spostamenti

del paziente più limitati e tempi chirurgici complessivi ridotti. Nel caso si utilizzi l’acceleratore presente nel

Servizio di Radioterapia, si dovranno interrompere i trattamenti ambulatoriali per il tempo necessario a

predisporre il bunker di radioterapia e ad eseguire il trattamento IORT. Nel caso si utilizzi un acceleratore

lineare collocato nella sala operatoria, quest’ultima, per rispondere alle norme radioprotezionistiche, dovrà

essere adeguatamente attrezzata con protezioni per il personale.
Per ovviare ai problemi correlati con il trasporto del paziente, tra i quali il prolungamento dei tempi

operatori, lo spostamento del paziente accompagnato da tutte le apparecchiature di controllo e

rianimazione e l’allestimento di percorsi preferenziali, più recentemente sono entrati in uso acceleratori

dedicati da collocare in sala operatoria, che producono elettroni di energia massima di 9-12 MeV. Queste

unità di terapia non richiedono particolari esigenze protezionistiche di tipo strutturale. Con queste

apparecchiature si evita il trasporto del paziente, riducendo i tempi chirurgici. L’unità di trattamento è

collocata nella sala operatoria, è mobile e viene avvicinata al letto operatorio per l’esecuzione della IORT.

Date le limitate misure radioprotezionistiche necessarie, queste unità di terapia possono essere utilizzate

in più sale operatorie adiacenti.
Diverse sono le finalità dell’uso clinico della IORT, palliativo ed adiuvante.

Ruolo palliativo
La IORT trova indicazione sia in caso di laparotomia per neoplasia non resecabile sia come terapia

adiuvante dopo resezione. Il suo utilizzo nelle neoplasie localmente avanzate, non metastatiche, si basa sul

razionale di ottenere un controllo della crescita locale ed una risposta della sintomatologia dolorosa.

Questa applicazione della IORT è stata quella inizialmente più utilizzata, ma successivamente è stata un

poco abbandonata: alcune esperienze iniziali riportavano un buon controllo della sintomatologia dolorosa

(con percentuali di remissione sino al 70%) (1,2), senza però effetti sulla sopravvivenza; altre esperienze,

più recenti, confermano il mancato vantaggio prognostico, senza riportare in dettaglio la risposta antalgica

(3,4). Va tuttavia sottolineato come, all’interno di percorsi terapeutici integrati radiochemioterapici, la IORT

possa avere un ruolo nel controllo delle neoplasie localmente avanzate (3).

Ruolo adiuvante
L’interesse maggiore suscitato dalla IORT è stato però come trattamento adiuvante dopo resezione. Il suo

razionale in queste situazioni è particolarmente interessante: il tasso di recidive locali dopo

pancreasectomia per carcinoma è elevato (sino al 50%) ed è verosimilmente correlato alla frequente

estensione del tumore al tessuto retroperitoneale ed alle strutture linfatiche e nervose circostanti.

L’applicazione di una dose radiante ad elevata energia sul letto tumorale residuo dopo asportazione della

neoplasia potrebbe “sterilizzare” gli eventuali foci neoplastici residui.
I casi trattati con IORT adiuvante alla resezione sono ormai discretamente numerosi: in una recente review

sono stati trovati 96 lavori al riguardo, anche se poi solo 14 avevano i requisiti per essere inclusi nella

review stessa (5). L’analisi della letteratura sull’argomento è però piuttosto difficile: molti studi non

forniscono sufficienti informazioni riguardo a stadio e fattori prognostici nei pazienti trattati; le dosi radianti

erogate sono assai variabili, così come i campi di trattamento; la selezione dei pazienti comporta

numerosi bias; la IORT è spesso inserita in trattamenti multimodali radiochemioterapici assai eterogenei

tra loro; tutti gli studi esistenti, tranne uno (6), sono retrospettivi e solo in una minoranza di essi è riportato

un confronto con un gruppo di pazienti non sottoposto a IORT (7-12).
Un aspetto su cui esiste un’elevata concordanza è quello della tollerabilità del trattamento: in tutti gli studi,

tranne uno (7), viene rilevato che l’aggiunta della IORT all’intervento di resezione pancreatica non aumenta

le complicanze post-operatorie e non comporta rischi specifici.

Risultati sulla sopravvivenza e controllo locale
Più complessa, per i limiti sopra esposti, è la valutazione degli effetti della IORT sul controllo locale e sulla

sopravvivenza. Per quanto riguarda la sopravvivenza, nessuna esperienza ha sinora dimostrato una chiara

efficacia della IORT. Tuttavia, qualche risultato favorevole è stato riscontrato; in particolare, un vantaggio

sulla sopravvivenza è stato riportato in sottogruppi di pazienti con forme iniziali di neoplasia: in stadio

UICC I e II (11) oppure sottoposti a resezione R0 (13). Inoltre, in un’esperienza giapponese (14),

l’associazione di IORT e radioterapia esterna è risultata vantaggiosa rispetto sia alla sola chirurgia sia alla

semplice associazione di chirurgia e IORT. Altri studi di confronto tra sola chirurgia e chirurgia associata a

IORT, eseguiti sia in Giappone sia negli USA, non hanno invece riscontrato vantaggi a favore della IORT:

nella Tabella 1 sono riportati i principali studi di confronto tra IORT e non-IORT, in termini di sopravvivenza.

 

Tabella 1 Casistiche riportanti i risultati in termini di sopravvivenza dopo resezione per CP associata o

meno a IORT

Diverso è il discorso per quanto riguarda il controllo locale, dove l’esistenza di un effetto favorevole da

parte della IORT appare più convincente. L’unico studio prospettico randomizzato esistente, condotto

peraltro su pochi pazienti oltre 20 anni fa e riferito a Congresso (6), ha riportato un miglior controllo locale.

Altri studi retrospettivi di confronto tra pazienti sottoposti o meno a IORT adiuvante hanno evidenziato una

percentuale di recidive locali significativamente minori nel gruppo trattato con IORT: 5% vs 33%

nell’esperienza del City of Hope National Medical Center (15), 15% vs 33% nella casistica dell’Ospedale

San Raffaele di Milano (11). In una recente revisione dell’esperienza europea sulla IORT, che ha raccolto

270 pazienti trattati in 5 Centri diversi, sono stati riportati dati interessanti sul controllo locale: è stato infatti

ottenuto nel 23% dei casi a 5 anni, con una mediana di intervallo libero da recidiva locale di 15 mesi (16);

inoltre, il controllo locale è risultato significativamente migliore nei pazienti sottoposti a IORT associata a

radioterapia esterna pre-operatoria rispetto ai pazienti trattati con sola IORT o con IORT e radioterapia

esterna post-operatoria. Quest’ultima osservazione conferma come sia difficile valutare il contributo della

IORT nel trattamento del CP e come il suo ruolo non possa prescindere dai dettagli dell’approccio

terapeutico integrato in cui si inserisce. Altri lavori di confronto tra IORT adiuvante e sola chirurgia non

hanno invece rilevato differenze nel controllo locale (10,12), mentre in molti rapporti non vengono in realtà

fornite informazioni dettagliate al riguardo.

Conclusioni
In conclusione, si può affermare che la IORT riveste al momento attuale un ruolo marginale nel trattamento

del CP. La sua principale applicazione è come trattamento adiuvante ad un intervento resettivo; in queste

situazioni, ancorché di complessa esecuzione e con costi organizzativi ed economici non trascurabili, ha

dimostrato buone fattibilità e sicurezza di esecuzione. Esiste una certa evidenza che la IORT è in grado di

contribuire ad un miglior controllo locale, riducendo il rischio di recidiva; tuttavia, questa azione non pare

tradursi in una miglior sopravvivenza. Da ulteriori applicazioni della IORT nell’ambito di trattamenti

multimodali radiochemioterapici, in particolare di tipo neoadiuvante, e all’interno di studi controllati,

potranno venire nel prossimo futuro delucidazioni sul reale ruolo di questa modalità terapeutica.

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9.5 Definizione delle complicanze e vantaggi della concentrazione

Nonostante la mortalità, a seguito di interventi di resezione pancreatica maggiore, si attesti oggi a meno

del 5%, le complicanze post-operatorie possono ancora raggiungere, anche presso Centri ad alto volume,

un’incidenza del 40-50% (1,2).
Numerosi sono stati negli anni i tentativi di classificazione di tali complicanze, intese come “ogni possibile

deviazione rispetto al normale decorso post-operatorio”. La più recente ed utilizzata fra tutte è quella

proposta nel 2004 e successivamente rivista nel 2006 dal gruppo di Clavien. Tale sistema dipende

principalmente dalla terapia appropriata da utilizzare nei confronti delle specifiche complicanze e pone

l’accento in particolare su quelle che possono comportare pericolo di vita o esiti permanenti. I gradi I e II

della classificazione (Tabella 1) comprendono le complicanze che determinano solo lievi alterazioni del

normale decorso post-operatorio e che possono essere corrette con terapia medica, trasfusioni di

sangue, fisioterapia e supporto nutrizionale. Il grado III richiede invece un intervento chirurgico correttivo. Il

grado IV consta di complicanze che mettono a repentaglio la vita del paziente e necessitano della terapia

intensiva. Infine, il grado V significa morte del paziente.

Tabella 1 Classificazione delle complicanze in chirurgia pancreatica secondo Clavien

Secondo quanto emerge dalle principali casistiche riportate in letteratura, le principali cause di morbilità

comprendono: la deiscenza dell’anastomosi pancreatica con conseguente formazione di fistola

pancreatica, il ritardato svuotamento gastrico, l’ascesso intra-addominale, l’emorragia e l’infezione della

ferita (4,5) (Tabella 2).
Tra queste, lo sviluppo di una fistola pancreatica post-operatoria viene tradizionalmente considerata come

la complicanza più frequente, rappresentando una condizione severa, potenzialmente mortale e non di

rado associata ad un prolungamento dei tempi di degenza e dei costi del ricovero (1-4).

Tabella 2 Complicanze a seguito di Duodenocefalopancreasectomia (DCP)

L’incidenza di fistola pancreatica post-operatoria a seguito di DCP si attesta ad oggi, nelle maggiori

casistiche mondiali, a tassi variabili tra il 2% ed il 20% (6,7). Alla base di tale estrema variabilità, vi è la

difficile e diversa definizione stessa di fistola pancreatica. Solo recentemente, è stata formulata una

definizione e stadiazione secondo criteri riconosciuti a livello internazionale. Tale definizione comune

rende possibile una più corretta possibilità di confronto tra le diverse esperienze, riducendo la variabilità

inter-osservazionale.
Per fistola pancreatica post-operatoria (POPF) si intende una “anormale comunicazione tra una porzione

di epitelio duttale pancreatico ed un’altra superficie epiteliale, contenente un fluido ricco in enzimi di

derivazione pancreatica” (8). E’ importante sottolineare come tale condizione possa dipendere sia da un

cedimento dell’anastomosi pancreatico-enterica, sia da un danneggiamento della trancia di resezione del

parenchima pancreatico, come ad esempio in caso di pancreatectomie centrali o sinistre, di enucleazioni

e/o di traumi. In questo caso, si assiste ad una fistolizzazione che dal sistema duttale pancreatico si

estende ai tessuti peripancreatici, senza necessariamente coinvolgere una seconda superficie

epitelizzata.
La diagnosi di POPF può essere sospettata sulla base di criteri clinici e biochimici. Il criterio di più ampio

respiro è rappresentato dall’evidenza di un output, attraverso un drenaggio posto durante l’intra-operatorio

od il post-operatorio per via percutanea, di un qualsivoglia volume di liquido, drenato a partire dalla III

giornata post-operatoria compresa, purché caratterizzato da un contenuto di amilasi maggiore di almeno

tre volte il valore sierico. Tale liquido drenato può presentarsi già macroscopicamente come “sospetto”, se

di colore variabile dal marrone scuro al verdastro biliare, fino al lattescente o al limpido acqua di roccia,

vale a dire dell’aspetto del liquido pancreatico “puro”. Sintomi addominali associati possono includere

dolore e distensione addominale con disfunzione intestinale, ritardato svuotamento gastrico e febbre >

38°C. Il valore dei leucociti sierici può superare i 10.000/mm3 e si può rilevare aumento della

PCR (proteina C reattiva).
Contrariamente a quanto si possa pensare, non è necessario né obbligatorio ottenere un dato radiologico

di conferma della diagnosi (9). Le metodiche di imaging, comunque, possono rivelarsi utili per identificare

un’eventuale migrazione od erosione del drenaggio all’interno di un viscere, indicando in tal caso una

mobilizzazione del drenaggio stesso al fine di permettere la cicatrizzazione dell’organo danneggiato.
Dal momento che, la sola definizione di fistola, per quanto come detto comunemente accettata, può tuttora

essere così ampia da includere anche pazienti asintomatici e che non sono di fatto clinicamente affetti da

POPF, è stata approntata una specifica classificazione in tre gradi (A, B, C) (Tabella 3):

GRADO A: definito come “fistola transitoria”, non dotata di reale impatto clinico. Le POPF di grado A

necessitano infatti solo di un lieve aggiustamento della normale gestione post-operatoria del paziente

pancreatectomizzato. Questi continua ad essere nutrito per via orale, generalmente versa in una buona

condizione clinica e non c’è indicazione per l’uso di Somatostatina ed antibiotici e per la nutrizione

parenterale. La TC tipicamente non mostra raccolta di fluidi nello spazio peripancreatico. Tali fistole non

sono in genere associate ad un prolungamento dei tempi di ospedalizzazione e vengono in genere trattate

con la semplice rimozione dei drenaggi, posti durante l’intervento, in modo più lento e cauto del normale.

 

GRADO B: tali fistole richiedono una modifica della normale gestione post-operatoria del paziente.

Spesso, viene cessata la nutrizione per via orale e si provvede ad impostarne una di tipo parenterale

totale od enterale. I drenaggi peripancreatici vengono di norma mantenuti in sede. Nel caso in cui questi

non provvedano ad un’ottimale bonifica della loggia da drenare, diverrà allora possibile apprezzare alla TC

la presenza di raccolte che necessitino del riposizionamento dei drenaggi stessi. Qualora tale condizione

si associ a febbre, leucocitosi e/o dolore addominale si rende necessaria una terapia antibiotica; analoghi

della Somatostatina possono essere parimenti utilizzati. In caso di POPF di grado B, si assiste in genere

ad un prolungamento dei tempi di ricovero o ad un re-ricovero del paziente, se precedente dimesso. Molti

di questi pazienti possono inoltre essere dimessi con drenaggi ancora in sede e mantenuti sotto stretta

osservazione. In caso si renda necessaria una procedura invasiva, la fistola passa di definizione a grado

C.

GRADO C: in questo caso, si assiste ad una radicale modifica delle normali strategie di gestione

post-operatoria del paziente, a fronte di un quadro clinico “instabile”. Assoluto è il divieto di assunzione di

alcunché per via orale, vengono quindi istituiti protocolli di nutrizione parenterale totale o enterale, associati

all’assunzione di Somatostatina od analoghi ed antibiotici per endovena, spesso in regime di ricovero

presso un’unità di Terapia Intensiva. In genere, il paziente necessita di lunghi tempi di ricovero.

Nel caso si verifichi un deterioramento grave delle condizioni cliniche del paziente, per il subentrare di uno

stato settico e/o di disfunzione multiorgano, è indicata la re-laparotomia esplorativa per l’eventuale

esecuzione delle seguenti manovre:
1. riparazione della sede di cedimento con esteso drenaggio peripancreatico;
2. conversione ad altra forma di anastomosi pancreatico-intestinale (ad es. da una pancreodigiunostomia

ad una pancreogastrostomia);
3. pancreasectomia di completamento.
In corso di POPF di grado C si registrano alti tassi di complicanze e mortalità post-operatoria.

Tabella 3 Parametri per la classificazione delle POPF

Vi è oggi una forte evidenza di come il volume ospedaliero ovvero il numero totale di procedure complesse

eseguite in un singolo Centro per anno, giochi un ruolo determinante sulla sopravvivenza e sul tasso di

complicanze a seguito di interventi di alta chirurgia come quella pancreatica (10). In particolare, il tasso di

mortalità operatoria dopo interventi di resezione pancreatica maggiore diminuisce progressivamente con

l’aumentare del volume operatorio del Centro, variando dal 12.4 % per i Centri a basso volume, 7.8% per

quelli a medio volume, 5.9% per quelli ad alto volume, fino al 2.6% per quelli ad altissimo volume (11)

(Tabella 4). In particolare, come si può evincere da tali dati, appare inaccettabile il rischio di complicanze

anche severe che può derivare dal trattamento chirurgico da parte di équipe dall’esperienza limitata.

 

Tabella 4 Correlazione tra volume ospedaliero ed outcome per resezioni pancreatiche maggiori

 

Tale correlazione volume-risultati è stata confermata da numerosi studi eseguiti in diversi Paesi e da due

recenti revisioni sistematiche (12,13). Sulla base di questi dati è pertanto auspicabile che vengano

rafforzate politiche di “centralizzazione”, volte ad indirizzare verso Centri di eccellenza ad alto ed altissimo

volume i pazienti che necessitano di interventi di chirurgia pancreatica maggiore. Tale orientamento

porterà verosimilmente ad un’ulteriore diminuzione del tasso di mortalità e di morbilità post-operatoria per

chirurgia pancreatica e ad un abbassamento dei costi per il Sistema Sanitario Nazionale.
Anche il ritardato svuotamento gastrico (DGE) rappresenta una complicanza frequente dopo resezione

pancreatica. Solo recentemente è stata proposta dall’International Study Group of Pancreatic Surgery

(ISGPS) una definizione oggettiva e generalmente applicabile (14).
Per DGE si intende l’incapacità di riprendere una dieta standard al termine della prima settimana

post-operatoria, associata alla necessità della persistenza del sondino naso-gastrico in sede. Possono

inoltre essere individuati tre differenti gradi, sulla base del decorso clinico e della gestione post-operatoria

del paziente (Tabella 5):

GRADO A: si verifica una minima variazione nel normale post-operatorio dopo chirurgia pancreatica,

non ha un grosso impatto clinico e non prolunga eccessivamente il ricovero;

GRADO B: si rende necessaria la somministrazione di procinetici ed il supporto nutrizionale,

prolungando così la degenza;

GRADO C: comporta una complessa gestione del paziente, richiedendo nutrizione parenterale od

enterale ed eventuale trattamento di complicanze, come la fistola pancreatica o l’ascesso addominale.

Anche in questo caso, la degenza post-operatoria risulta essere prolungata.

Tabella 5 Parametri per la classificazione del DGE

Un’altra frequente e temibile complicanza è infine l’emorragia post-operatoria (PPH) (15). Essa viene

valutata secondo tre parametri: l’inizio, la sede e la gravità del sanguinamento.

Inizio:
– Precoce (< 24 ore)
– Tardiva (> 24 ore);

Sede:
– Intraluminale (intraenterica, dall’anastomosi gastrica o duodenale, dall’anastomosi pancreatica, per

un’ulcera da stress o per uno pseudoaneurisma).
– Extraluminale (extraenterica, sanguinamento intraddominale, da vasi arteriosi o venosi, dall’area di

resezione o dalle suture anastomotiche o per uno pseudoaneurisma).

Gravità:
– Lieve/Moderata: perdita di una ridotta quantità di sangue dal drenaggio e/o dal sondino naso-gastrico;

calo dell’HB < 3 g/dl; il sanguinamento può anche essere di entità tale da richiedere la trasfusione di

sangue, 2-3 unità nelle prime 24 ore o 1-2 unità dopo le 24 ore dall’intervento.
– Severa: calo dell’Hb > 3 g/dl associato a manifestazioni cliniche come la tachicardia, l’ipotensione,

l’oliguria fino allo shock ipovolemico. Necessita di trasfusioni di > 3 unità di globuli rossi concentrati e di

trattamento invasivo come l’embolizzazione arteriosa o la relaparotomia.

E’ stata infine proposta, sulla base dei parametri citati, una classificazione della PPH in tre gradi (A, B, C)

(Tabella 6).

Tabella 6 Classificazione in gradi della PPH

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10.0 CHEMIOTERAPIA

10.1 Chemioterapia adiuvante
10.2 Chemioterapia neoadiuvante (malattia resecabile)
10.3 Chemioterapia della malattia localmente avanzata
10.4 Chemioterapia della malattia metastatica
10.5 Chemioterapia di seconda linea

10.1 Chemioterapia adiuvante

La sopravvivenza a 5 anni dei pazienti con tumore pancreatico rimane < 5%. La radicalità chirurgica è

ottenibile solo nel 20% dei casi, con mediane di sopravvivenza comunque < 20 mesi. La sopravvivenza a 5

anni nei pazienti resecati è compresa tra il 10% e il 20% (1,2). Ciò è dovuto all’aggressività biologica ed

alla precoce metastatizzazione. Esiste quindi un forte razionale per un trattamento adiuvante, ma

attualmente non esiste uno standard ampiamente condiviso.
Sono stati condotti numerosi studi clinici controllati, i cui risultati sono attualmente disponibili.

ESPAC-1
Uno studio randomizzato multicentrico con disegno fattoriale 2×2 ha confrontato A) radiochemioterapia (20

Gy in 2 settimane con 5-Fluorouracile (5FU, a bolo), B) chemioterapia con 5FU/Acido Folico (AF) (6 cicli,

secondo schema Majo Clinic), C) radiochemioterapia seguita da chemioterapia e D) con un braccio

osservazionale. La sola chemioterapia ha mostrato un vantaggio in sopravvivenza (OS) significativo verso

l’osservazione (20.1 vs 15.5 mesi, p=0.009); il braccio della radiochemioterapia ha presentato OS minore

rispetto alla sola chemioterapia (15.9 vs 17.9 mesi, p=0.05). Gli autori concludono quindi che il trattamento

standard dopo resezione radicale è rappresentato da chemioterapia sistemica con 5FU/AF (3). Le

principali critiche allo studio riguardano la complessità del disegno, il tipo di trattamento radiante utilizzato,

che è considerato sub-ottimale, l’utilizzo del 5FU come chemioterapico e radio-sensibilizzante.

CONKO-001
Studio randomizzato multicentrico a due bracci: Gemcitabina (GEM) verso osservazione. L’obiettivo

primario era la sopravvivenza libera da malattia che è risultato significativamente maggiore nel gruppo di

pazienti sottoposti a 6 mesi di terapia con GEM (13.4 vs 6.9 mesi, p<0.001) (4). All’ultimo aggiornamento

anche l’OS è risultata significativamente incrementata (22.8 vs 20.2 mesi, p=0.005) (5).

RTOG 9704
Studio randomizzato multicentrico in tre fasi di radiochemioterapia 5FU 250 mg/m2 in infusione

continua o GEM 1.000 mg/m2 settimanale preceduta e seguita da 50.4 Gy. Gli obiettivi primari

erano: OS per tutti i pazienti ed OS per quelli con tumori della testa del pancreas. Non è stato documentato

un vantaggio in OS considerando tutti i pazienti, ma un beneficio, anche se non statisticamente

significativo, nel gruppo con tumore alla testa del pancreas trattato con GEM (20.5 vs 16.9 mesi, p=0.09)

(6).

ESPAC-3
Studio randomizzato multicentrico prospettico a due bracci: 5FU/AF verso GEM. Sono stati reclutati 1.088

pazienti; non è stata osservata una differenza significativa in OS nei due bracci, con mediane

rispettivamente di 23.0 e 23.6 mesi (7).

Altre terapie adiuvanti

Chemioterapia intra-arteriosa
Studio randomizzato
Chirurgia verso chirurgia seguita da chemioterapia intra-arteriosa (5FU, AF, Mitoxantrone, Cisplatino) e

radioterapia (54 Gy). Non è stata evidenziata una differenza statisticamente significativa in OS (18 vs 19

mesi). Solo nei tumori peri-ampollari è stata registrata una diminuzione di comparsa di metastasi epatiche

(p < 0.03) (8).

Studio di fase II
Chirurgia seguita da chemioterapia intra-arteriosa (5FU, AF, Epirubicina e Carboplatino ogni 3 settimane

per 3 cicli) e successiva chemioterapia sistemica con GEM settimanale per tre settimane ogni 4 per 3

mesi. Il DFS mediano è risultato di 18 mesi e l’OS di 29.7 mesi (9).

Immunoterapia
Studio di fase II
Chirurgia seguita da chemio-radio-immunoterapia (5FU in infusione continua per 3 settimane, Cisplatino

settimanale, IFN-alfa associati a radioterapia) e successiva GEM sistemica. L’OS è risultata di 25 mesi

(10).

In conclusione:
– indicato l’utilizzo di chemioterapia in fase adiuvante
– il trattamento adiuvante da considerare adeguato è la chemioterapia sistemica con GEM o 5FU/AF
– da valutare con interesse il trattamento sequenziale di chemioterapia intra-arteriosa (con 5FU, AF,

Epirubicina, Carboplatino) per 3 cicli seguiti da GEM sistemica settimanale per 3 mesi

10.2 Chemioterapia neoadiuvante (malattia resecabile)

Per trattamento chemioterapico neoadiuvante si intende una terapia effettuata in un paziente con tumore

resecabile. Ha come principale obiettivo quello di aumentare l’OS rispetto alla sola chirurgia e di evitare la

chirurgia demolitiva a quel gruppo di pazienti ad elevata probabilità di recidiva precoce.
L’OS dei pazienti sottoposti a sola chirurgia è inferiore a 20 mesi, mentre è attorno a 24 mesi, se

l’intervento è seguito da una chemioterapia adiuvante. La malattia occulta metastatica è stimata tra il 20%

ed il 30% nei pazienti con malattia resecabile ed è responsabile delle recidive precoci post-resezione.
Attualmente, non vi sono studi di fase III che abbiano dimostrato un vantaggio di sopravvivenza in pazienti

sottoposti ad un trattamento chemioterapico pre-operatorio rispetto alla sola chirurgia.
Studi di fase II hanno dimostrato che circa il 25-35% dei pazienti resecabili sottoposti a trattamenti

neoadiuvanti combinati di radiochemioterapia non vengono operati per progressione di malattia; il tempo

medio che intercorre tra l’inizio del trattamento combinato e la chirurgia è di 4 mesi circa. Inoltre, nei

pazienti sottoposti a chirurgia si osservano mediane di sopravvivenza > 30 mesi con oltre il 30% di

pazienti vivi e liberi da malattia a 5 anni, mentre le mediane di sopravvivenza nei pazienti non operati sono

risultate < 12 mesi (11,12).
La sola chemioterapia pre-operatoria con GEM e Cisplatino si è dimostrata ben tollerata con OS di 26

mesi (13). La combinazione GEM e Cisplatino sembra avere una maggiore efficacia rispetto alla sola

GEM (14).

In conclusione:
– la terapia standard nei pazienti operabili è la chirurgia
– non esiste un trattamento standard pre-operatorio
– la terapia neoadiuvante può selezionare i pazienti da non sottoporre a chirurgia
– un trattamento sistemico con GEM e Cisplatino è fattibile, ma con maggiore incidenza di recidive locali

rispetto alla chemio/radioterapia
– la terapia neoadiuvante è da considerare all’interno di studi clinici controllati

10.3 Chemioterapia della malattia localmente avanzata

La sopravvivenza a 5 anni nei pazienti resecati è compresa tra il 10-20%, mentre è uguale a zero in quelli

non resecati (1,2).
L’obiettivo principale di un trattamento nella malattia localmente avanzata è di ottenere un down-staging,

così da renderla resecabile. In generale, si può affermare che un trattamento chemioterapico sistemico

può determinare sia un controllo locale di malattia sia un controllo a distanza, prevenendo lo sviluppo di

micrometastasi; il trattamento radioterapico può impattare maggiormente sul controllo locale della

malattia.
L’associazione radiochemioterapia è il trattamento più utilizzato. La strategia che sembra garantire un

miglior controllo locale della malattia ed una miglior sopravvivenza consiste in un trattamento

chemioterapico sistemico a base di GEM per 3 mesi seguito, nei pazienti che non hanno manifestato una

rapida progressione di malattia, da un trattamento radio/chemioterapico (15). I farmaci radiosensibilizzanti

più impiegati sono il 5FU in infusione continua e GEM.

In conclusione:
– l’associazione radiochemioterapia è quella più utilizzata
– la sequenza ottimale è rappresentata da: chemioterapia a base di GEM per 3 mesi seguita da

radiochemioterapia nei pazienti non in progressione
– è possibile l’uso della GEM come radio-sensibilizzante.

10.4 Chemioterapia della malattia metastatica

L’OS dei pazienti con malattia metastatica oscilla tra 4 e 6 mesi. L’obiettivo primario del trattamento è

rappresentato dal prolungamento dell’OS. E’ stato documentato che la chemioterapia migliora l’OS

rispetto alla miglior terapia di supporto.
La GEM è diventata il farmaco di riferimento in seguito ad uno studio randomizzato, che ne ha dimostrato

la superiorità in termini di OS rispetto al 5FU (5.65 vs 4.41 mesi p=0.025) (16).
Tuttavia, un altro studio randomizzato in cui GEM è stata confrontata con 5FU/AF e due meta-analisi non

confermano il vantaggio (17-19).

5FU verso GEM
Studio randomizzato a due bracci di 126 pazienti (5FU a bolo settimanale verso GEM settimanale): l’OS è

risultata a favore della GEM (5.65 vs 4.41 mesi, p=0.025) con una sopravvivenza ad un anno del 2% nel

braccio con 5FU e del 18% in quello con GEM. L’obiettivo primario dello studio era il Clinical Benefit che

nel braccio dei pazienti trattati con GEM era significativamente superiore (23.8% vs 4.8%). La tossicità

ematologica (neutropenia) è risultata significativamente più alta nel gruppo trattato con GEM, senza

peraltro un aumento di neutropenie febbrili (16).
Studio randomizzato a tre bracci condotto su 175 pazienti: 5FU/AF schema Machover, contro GEM

settimanale, contro FLEC intra-arterioso (5FU, AF, Epirubicina, Carboplatino). L’OS per il gruppo trattato

con 5FU/AF è risultata di 6.4 mesi e quella con GEM di 5.8 mesi (p=0.82) (17).
Una meta-analisi della Cochrane non segnalava alcuna differenza significativa nell’OS a 6 e 12 mesi tra

GEM e 5FU (18).
Una seconda meta-analisi concludeva che non era presente alcun vantaggio significativo sull’OS con GEM

verso 5FU (19).

GEM verso regimi senza GEM
Studio randomizzato in cui GEM è stata confrontata con FLEC per via intra-arteriosa. L’OS è risultata di

5.8 vs 7.9 mesi a favore del FLEC (p=0.036), il tempo alla progressione di 4.2 vs 5.3 mesi a favore del

FLEC (p=0.013). La tossicità di grado 3-4 (ematologica) era significativamente più elevata nel braccio

FLEC (17).

Prime Linee senza GEM
Studio randomizzato di fase II a tre bracci: Capecitabina e GEM (CAP-GEM), verso GEM e Oxaliplatino

(mGEMOXA), verso CAP e OXA (CAPOX). Non è stata osservata nessuna differenza significativa sull’OS

e sul tempo alla progressione (20).
Studio di fase II prospettico: FOLFIRI-3 (Irinotecan, 5FU, AF). L’OS è 12.1 mesi, la sopravvivenza a 1 anno

51% (21).

GEM verso GEM + analoghi del Platino
Nessuno studio randomizzato ha mostrato un vantaggio in sopravvivenza della doppietta GEM e platini

rispetto a GEM in monoterapia (22-25).

GEM verso GEM + CAP
Due studi randomizzati hanno prodotto risultati contrastanti: il primo non ha mostrato differenze significative

sull’OS quando ha considerato i pazienti nella globalità (7.2 vs 8.4 mesi nella doppietta, p=0.23), ma ha

evidenziato un vantaggio significativo di OS nel sottogruppo di pazienti trattati con la combinazione con

performance status secondo Karnofsky di 90-100% (7.4 vs 10.1 mesi, p=0.014). Il profilo di tossicità è

stato sovrapponibile: la neutropenia di grado 3-4 è stato l’evento avverso più frequente in entrambi i bracci

(26).
Il secondo studio ha mostrato un vantaggio significativo dell’OS considerando tutti i pazienti (6 vs 7.4 mesi,

p=0.026) (27).
Due meta-analisi concludono che esiste un vantaggio significativo in OS nei pazienti trattati con doppiette

GEM e derivati del platino o CAP, con hazard ratio oscillanti tra 0.85 e 0.91, rispetto a GEM in

monoterapia (19,28).
Una meta-analisi conferma un significativo incremento delle risposte, ma questo non si traduce in aumento

significativo dell’OS in pazienti trattati con platino e fluoropirimidine; in questa meta-analisi non sono

compresi gli studi di associazione con la CAP (18).

GEM verso regime a quattro farmaci
Studio randomizzato, in cui si dimostra un vantaggio significativo in termini di DFS a 4 mesi e di OS a 2

anni nei pazienti trattati con regime a 4 farmaci (Cisplatino, Epirubicina, 5FU, GEM) verso GEM in

monoterapia, a costo di una maggiore tossicità ematologica (29).

In conclusione:
– il ruolo della GEM in monochemioterapia in pazienti con malattia sistemica andrebbe limitato a pazienti

con performance ridotto;
– regimi a 2 farmaci con GEM associata a derivati del platino o CAP rappresentano schemi utilizzabili in

tutti i Centri oncologici;
– regimi a 3 farmaci intra-arteriosi o 4 farmaci sistemici possono essere tenuti in considerazione in Centri

specializzati ed in pazienti con buon performance status;
– regimi di prima linea non contenenti GEM possono essere tenuti in considerazione.

10.5 Chemioterapia di seconda linea

Esiste una crescente evidenza che, in pazienti selezionati, una seconda linea di chemioterapia dopo

fallimento di un regime contenente GEM dia un vantaggio clinico.
L’OS in pazienti in progressione dopo GEM sottoposti a terapia di supporto è di 2 mesi, mentre quella in

pazienti sottoposti a diversi regimi di chemioterapia in studi di fase II varia da 3 a 10 mesi (30-34).

CONKO-003
Studio di fase III a tre bracci in pazienti in progressione dopo GEM, randomizzati a ricevere: A –

OXA/5FU/AF; B – 5FU/AF; C – miglior terapia di supporto. E’ stato documentato un vantaggio sia in termini

di sopravvivenza libera da progressione (PFS) (13 vs 9 settimane, p=0.012) sia di OS (28 vs 13

settimane) nel braccio contenente OXA (30,31).
Il performance status è stato identificato come fattore prognostico indipendente di PFS e OS in pazienti in

progressione dopo GEM (32).
Il PFS maggiore a 6 mesi dopo chemioterapia di prima linea in un’ampia casistica multi-istituzionale

italiana è risultato il più importante fattore prognostico (35).

In conclusione:
– una chemioterapia di seconda linea è raccomandata in pazienti con PFS > 6 mesi alla prima linea, con

buon performance status;
– non esistono regimi standard. I farmaci suggeriti sono derivati del platino, fluoropirimidine, Irinotecan e

ancora la GEM.

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[/column][/box][box][column collapse_spacing=”yes” vertical_align=”top” auto_height=”yes” css=”border-top-width: medium; border-top-style: none; border-top-color: initial; border-right-width: medium; border-right-style: none; border-right-color: initial; border-bottom-width: medium; border-bottom-style: none; border-bottom-color: initial; border-left-width: medium; border-left-style: none; border-left-color: initial; padding-top: 0; padding-right: 0; padding-bottom: 0; padding-left: 0; ” width=”24″ last]

11.0 RADIOTERAPIA

11.1 Radioterapia post-operatoria
11.2 Radiochemioterapia pre-operatoria
11.3 Radioterapia intraoperatoria (IORT)
11.4 Radiochemioterapia esclusiva
11.5 Tecniche di radioterapia

11.1 Radioterapia post-operatoria

Le opzioni di trattamento adiuvante per il carcinoma pancreatico (CP) sono rappresentate

dall’associazione radiochemioterapica e dalla chemioterapia esclusiva. In particolare, il ruolo della

radioterapia adiuvante non è stato ancora chiarito ed è tuttora argomento di vivace dibattito, essendo

presenti in letteratura risultati discordanti.

Studi randomizzati di fase III
I principali studi randomizzati sulla radioterapia adiuvante sono sintetizzati in Tabella 1.

Tabella 1 Studi randomizzati: neoplasie resecabili

Lo studio del Gastrointestinal Tumor Study Group (GITSG) è stato il primo di fase III volto a valutare il ruolo

delle terapie adiuvanti nei pazienti con diagnosi di neoplasia pancreatica operati radicalmente. Questo

studio statunitense, condotto tra il 1974 ed il 1982, ha mostrato un vantaggio in termini di sopravvivenza

globale (OS) (20 vs 11 mesi, p=0.03) nei pazienti sottoposti a radiochemioterapia adiuvante e

chemioterapia sequenziale, rispetto ai pazienti sottoposti a chirurgia esclusiva (1). La radioterapia

prevedeva 2 cicli con intervallo di 2 settimane per una dose totale di 40 Gy. Il 5-Fluorouracile (5FU) era

somministrato a bolo (500 mg/ m2) durante i primi 3 giorni di ciascun ciclo di radioterapia.

Successivamente, i pazienti erano sottoposti a ulteriori 2 anni di chemioterapia sequenziale con 5FU

somministrato settimanalmente a bolo. Il disegno dello studio prevedeva l’arruolamento di 100 pazienti,

ma in considerazione del significativo miglioramento della sopravvivenza osservato in un’analisi

preliminare nel braccio della terapia adiuvante, l’arruolamento è stato interrotto dopo i primi 43 pazienti.
Lo studio condotto dall’European Organization for Research and Treatment of Cancer (EORTC) è uno

studio di fase III, che analogamente a quello del GITSG, ha valutato il ruolo della radiochemioterapia

adiuvante. In questo studio, tuttavia, sono stati arruolati anche pazienti con diagnosi di ampulloma con

margini di resezione positivi (25%) ed una quota maggiore di pazienti con coinvolgimento linfonodale

(28%). Complessivamente, sono stati arruolati 218 pazienti, di cui 114 con diagnosi di neoplasia

pancreatica. La radioterapia prevedeva una dose totale di 40 Gy, somministrati in 2 cicli con 2 settimane

di pausa, in associazione con la chemioterapia con 5FU (25 mg/kg in infusione continua per 24 ore),

somministrato durante i primi cinque giorni di ciascun ciclo. In questo protocollo di studio non era prevista

la chemioterapia di mantenimento. La sopravvivenza mediana è stata di 19 mesi per il gruppo di pazienti

sottoposti a sola chirurgia e 24.5 mesi per i pazienti sottoposti a radiochemioterapia adiuvante (p=0.208).

Nel sottogruppo di pazienti affetti da neoplasia pancreatica il tasso di sopravvivenza a 2 anni è stato del

34% rispetto al 26% nel gruppo di confronto (p=0.099) (2). Il trend di significatività statistica osservato in

questo studio non è stato confermato ad una successiva re-analisi dei dati con un follow-up maggiore

(p=0.165) (3).
Recentemente, Garofalo et al. hanno pubblicato i dati relativi ad una re-analisi statistica dei dati dello

studio dell’EORTC, mostrando una significatività statistica (p=0.049) in termini di incremento della

sopravvivenza a 2 anni per i pazienti affetti da neoplasia pancreatica sottoposti a radiochemioterapia

adiuvante (4).
Lo studio dell’European Study for Pancreatic Cancer (ESPAC-1), ha confrontato diverse terapie adiuvanti:

chemioterapia esclusiva, radiochemioterapia e radiochemioterapia adiuvante seguita dalla chemioterapia

sequenziale. Questo studio multicentrico ha arruolato 73 pazienti nel braccio della radiochemioterapia, 75

pazienti nel braccio della chemioterapia esclusiva, 72 pazienti nel braccio della radiochemioterapia e

chemioterapia di mantenimento e 69 pazienti nel braccio della chirurgia esclusiva. La radioterapia

prevedeva 20 Gy in 2 settimane in associazione a 5FU a bolo (500 mg/ m2 durante i primi 3

giorni di ciascun ciclo della radioterapia). La chemioterapia prevedeva 6 cicli di Leucovorin a bolo (20 mg/

m2) associato a 5FU a bolo (425 mg/ m2). Il trattamento combinato

(radiochemioterapia seguita da chemioterapia) abbinava questi due schemi di trattamento. Non sono

state osservate differenze statisticamente significative tra i quattro bracci di trattamento analizzati

singolarmente. Risultati statisticamente significativi sono stati invece ottenuti realizzando un’analisi

statistica di raggruppamento con disegno bi-fattoriale che ha confrontato separatamente i pazienti

sottoposti a chemioterapia con i pazienti che non l’avevano ricevuta ed i pazienti trattati o meno con

radiochemioterapia. La chemioterapia ha prodotto un vantaggio, in termini di sopravvivenza mediana,

statisticamente significativo (20.6 vs 15.5 mesi; p=0.009). Al contrario, la sopravvivenza a 2 e 5

anni dei pazienti sottoposti a radiochemioterapia adiuvante, rispetto agli altri pazienti, è stata

rispettivamente del 29% contro il 41% e del 10% contro il 20%. Sulla base di questi risultati, gli autori

hanno concluso che la radiochemioterapia post-operatoria non solo non è efficace, ma ha un effetto

negativo (5).
Lo studio del Radiation Therapy Oncology Group (RTOG) condotto da Regine et al. è uno studio di fase III

volto a stabilire quale chemioterapia adiuvante associare alla radiochemioterapia con 5FU. La

radioterapia prevedeva una dose totale di 50.4 Gy in 28 frazioni ed era associata a 5FU somministrato in

infusione continua (250 mg/ m2) per tutta la durata del trattamento radiante. Duecentotrenta

pazienti sono stati sottoposti a chemioterapia con 5FU (250 mg/ m2 in infusione continua

giornaliera) e 221 a chemioterapia con Gemcitabina (GEM) (1.000 mg/ m2 settimanale)

durante le 3 settimane precedenti e le 12 settimane successive alla radiochemioterapia. Questo studio ha

mostrato un incremento in termini di OS nei pazienti con tumori della testa del pancreas inclusi nel braccio

della GEM (sopravvivenza mediana 20.5 vs 16.9 mesi; sopravvivenza a 3 anni 31% vs 22%; p=0.09).

Questo risultato è stato confermato all’analisi multivariata (HR: 0.8; p=0.05) (6).

Meta-analisi
Per valutare l’impatto della radioterapia adiuvante sono state condotte anche due meta-analisi.
La meta-analisi di Khanna et al. (7) ha valutato l’efficacia della radiochemioterapia adiuvante rispetto alla

chirurgia esclusiva. Questa analisi, che ha incluso 5 studi prospettici, ha documentato un vantaggio in

termini di sopravvivenza a 2 anni del 12% (p=0.022) nei pazienti sottoposti a radiochemioterapia.
La meta-analisi di Stocken et al. (8) ha incluso 5 studi randomizzati che valutavano sia la chemioterapia

sia la radiochemioterapia adiuvante. Dall’analisi è risultato che la chemioterapia era associata ad una

riduzione del 25% del rischio di morte (HR=0.75; p=0.001) con una sopravvivenza mediana di 19 mesi nei

pazienti sottoposti a chemioterapia rispetto ai 13.5 mesi del resto della popolazione in studio. Da questa

analisi la radiochemioterapia non risulta associata a riduzioni statisticamente significative del rischio di

morte (HR=1.09; p=0.43). Infatti, la sopravvivenza mediana nei pazienti sottoposti a radiochemioterapia è

stata di 15.8 mesi rispetto a 15.2 mesi negli altri pazienti. Tuttavia, la radiochemioterapia si è dimostrata

più efficace rispetto alla chemioterapia nei pazienti con margini di resezione chirurgica positivi (R1).

 

Studi retrospettivi
Sono stati inoltre pubblicati i risultati di alcune analisi retrospettive che hanno mostrato un miglioramento

del decorso clinico nei pazienti trattati con la radiochemioterapia adiuvante rispetto alla sola chirurgia ed

hanno documentato l’impatto negativo di alcuni fattori prognostici (positività linfonodale, positività dei

margini di resezione chirurgica, alto grado di differenziazione istologica e dimensioni del tumore). Alcuni di

questi studi sono stati eseguiti sulla base dei registri del Surveillance Epidemiology and End Results

(SEER).
Lim et al. hanno riportato i risultati relativi a 396 pazienti di età superiore ai 65 anni affetti da

adenocarcinoma pancreatico, sottoposti ad intervento chirurgico con intento radicale dal 1991 al 1996.

La radiochemioterapia adiuvante è risultata associata ad un prolungamento della sopravvivenza (9).
Greco et al. recentemente hanno rianalizzato i dati del SEER, relativi a 2.600 pazienti trattati tra il 1988 ed

il 2003 con radiochemioterapia adiuvante. In questi pazienti, affetti da neoplasie cefalopancreatiche, la

radioterapia era associata ad un prolungamento della sopravvivenza mediana (18 vs 11 mesi; p<0.01)

(10).
Risultati similari provengono da studi mono-istituzionali. In particolare, sono stati recentemente pubblicati i

risultati di pazienti operati radicalmente e sottoposti o meno a radiochemioterapia presso la Mayo Clinic

(sopravvivenza mediana: 25.2 vs 19.2 mesi; p=0.01) (11) e la John Hopkins University (sopravvivenza

mediana: 21.2 vs 14.4 mesi; p<0.01) (12).

11.2 Radiochemioterapia pre-operatoria

Neoplasie resecabili
Sono stati condotti diversi studi sulla radioterapia pre-operatoria (neoadiuvante) nelle neoplasie del

pancreas potenzialmente resecabili (13-16), anche se mancano studi randomizzati. Il razionale nell’utilizzo

della radioterapia pre-operatoria si basa sui vantaggi teorici rispetto ai trattamenti post-operatori:

possibilità di agire su tessuti dotati di migliore ossigenazione (con maggiore efficacia della radioterapia),

sterilizzazione del campo operatorio prima dell’intervento, riduzione delle dimensioni della neoplasia e

conseguente incremento del tasso di interventi radicali. Il ritardo nell’esecuzione del trattamento chirurgico

è invece considerato uno svantaggio.
Un’analisi retrospettiva condotta alla M.D. Anderson Cancer Center da Spitz et al. non ha confermato

tuttavia questo svantaggio teorico nei pazienti con neoplasia resecabile. Infatti, il trattamento

pre-operatorio ha mostrato una migliore compliance rispetto a quello post-operatorio, dal momento che

quest’ultimo non è stato eseguito in circa un quarto dei pazienti a causa delle complicanze post-operatorie

(13).
Hoffman et al. hanno pubblicato i risultati di uno studio prospettico di fase II multi-istituzionale che ha

valutato l’efficacia della radiochemioterapia pre-operatoria (dose totale 50.4 Gy in 28 frazioni con 5FU

1.000 mg/ m2 in infusione continua e Mito C 10 mg/ m2) in 53 pazienti affetti da

neoplasia pancreatica localizzata. Dodici pazienti non sono stati sottoposti ad intervento chirurgico, di cui

3 per progressione locale. La sopravvivenza mediana complessiva è stata di 9.7 mesi, mentre la

sopravvivenza mediana dei pazienti resecati è stata di 15.7 mesi (14).
Breslin et al. hanno condotto uno studio retrospettivo volto a confrontare diversi schemi di

radiochemioterapia neoadiuvante. Sono stati analizzati 132 pazienti sottoposti a radiochemioterapia

neoadiuvante (45-50 Gy in 25-28 frazioni o 30 Gy in 10 frazioni variamente associate con 5FU, GEM o

Paclitaxel)
La sopravvivenza mediana complessiva è stata di 21 mesi (intervallo: 19-26 mesi) e non sono state

evidenziate differenze significative tra diversi schemi di radiochemioterapia (15).
Recentemente, Evans et al. hanno riportato i risultati di uno studio di fase II condotto su 86 pazienti affetti

da neoplasia pancreatica agli stadi I e II, trattati con GEM (400 mg/ m2 settimanale) per 5

settimane, e successiva radiochemioterapia pre-operatoria (30 Gy in 10 frazioni) con GEM (400 mg/

m2 settimanale). Degli 86 pazienti arruolati, 13 non sono stati sottoposti a chirurgia a causa di

una progressione della malattia a distanza (9%) o di una diminuzione del performance status (3%). Il 74%

dei pazienti è stato sottoposto ad intervento chirurgico radicale. La sopravvivenza mediana complessiva è

stata di 22.7 mesi con il 27% dei pazienti vivo a 5 anni. La sopravvivenza mediana è stata di 7 mesi per i

pazienti non sottoposti a chirurgia e 34 mesi per quelli sottoposti alla resezione (p=0.001). Sulla base di

questi risultati, gli autori hanno concluso che la radiochemioterapia pre-operatoria con GEM è in grado di

selezionare i pazienti che potrebbero non beneficiare di una resezione chirurgica a causa della spiccata

tendenza alla metastatizzazione precoce (16).

Neoplasie non resecabili
Alcuni studi hanno valutato il ruolo della radiochemioterapia pre-operatoria al fine di rendere resecabili i

tumori inoperabili alla diagnosi (down-staging).
Ammori et al. hanno eseguito un’analisi retrospettiva su 67 pazienti affetti da neoplasia pancreatica non

resecabile sottoposti dal 1996 al 2001 a radiochemioterapia con GEM. Di questi pazienti, 9 (13%) sono

stati successivamente sottoposti ad intervento chirurgico presentando una sopravvivenza mediana

prolungata rispetto agli altri pazienti (17.6 vs 11.9 mesi; p=0.013) (17).
Massucco et al. hanno pubblicato i dati relativi a 28 pazienti con neoplasia pancreatica non resecabile

(n=10) o borderline resectable (n=18) sottoposti a radiochemioterapia con GEM. Solo un paziente con

malattia non resecabile è stato sottoposto ad intervento chirurgico, a fronte di 7 pazienti con malattia

borderline. La sopravvivenza mediana riportata è stata di 21 mesi per i resecati rispetto a 10 mesi per i

non resecati (p<0.01) (18).
Morganti et al. hanno condotto una revisione sistematica degli studi pubblicati a partire dal 2000 per

valutare il tasso di resecabilità, dopo radiochemioterapia pre-operatoria, nelle neoplasie non resecabili

alla diagnosi. Sono stati inclusi nell’analisi 13 studi per un totale di 510 pazienti. I criteri di non

resecabilità erano diversi nelle diverse casistiche. Il tasso di pazienti resecati dopo terapia mirata al

down-staging è stato del 26.5% (57.1% di resezioni R0). La sopravvivenza mediana nell’intero gruppo di

pazienti analizzato è stata di 13.3 mesi. La sopravvivenza mediana nei pazienti sottoposti a resezione è

stata di 23.6 mesi (19).

11.3 Radioterapia intraoperatoria (IORT)

La IORT prevede l’irradiazione del letto tumorale durante l’intervento chirurgico. Alcuni studi hanno

suggerito che la IORT sarebbe in grado di ridurre l’incidenza di recidive locali (20-24) nelle neoplasie

pancreatiche (vedi cap. 9.4).
Zerbi et al. hanno pubblicato i dati relativi a 90 pazienti sottoposti a intervento chirurgico per neoplasia

pancreatica dal 1985 al 1993. La IORT è stata eseguita in 43 pazienti. Il tasso di recidive locali nei pazienti

sottoposti a IORT è stato del 27% rispetto al 56.4% dei pazienti sottoposti alla sola resezione chirurgica

(p<0.01) (20).
Una successiva analisi dei dati condotta su un campione maggiore di 101 pazienti sottoposti dal 1985 al

1994 ad intervento chirurgico per neoplasia pancreatica ha mostrato che i pazienti sottoposti a IORT (54)

presentavano un tasso di recidiva locale del 38% rispetto al 54% degli altri pazienti (p<0.01) (21).
Reni et al. hanno confrontato 127 pazienti sottoposti ad intervento chirurgico associato a IORT con 76

pazienti sottoposti a sola chirurgia. La mortalità peri-operatoria è stata simile nei pazienti trattati o meno

con IORT. Nei pazienti con malattia allo stadio I e II (n=49) la IORT ha ridotto il tasso di recidive locali e

prolungato l’intervallo libero da malattia. Nei pazienti con malattia allo stadio III e IVA la IORT ha ridotto il

tasso di recidiva locale quando eseguita con fasci di elettroni superiori ai 6 MeV (22).
Alfieri et al. hanno condotto uno studio retrospettivo su 46 pazienti sottoposti a

duodenocefalopancreasectomia (DCP) dal 1985 al 1995. Di questi, 21 sono stati sottoposti a IORT e

radioterapia adiuvante. Il tasso di controllo locale a 5 anni in quest’ultimo gruppo di pazienti è stato del

58.4% rispetto al 29.8% negli altri pazienti (p<0.01) (23).
Swartz et al. hanno pubblicato i dati relativi a 61 pazienti sottoposti a pancreasectomia parziale o totale dal

1989 al 1999 per neoplasie periampollari. Di questi, 30 sono stati sottoposti a IORT (dose mediana 15 Gy;

range 10-20) e radioterapia adiuvante (n=24). Il tasso di recidive locali ed a distanza complessivo è stato

del 54%; 6 pazienti hanno avuto una recidiva esclusivamente locale e di questi solo 1 era stato sottoposto

a IORT (p=0.05) (24).
Recentemente, Valentini et al. hanno pubblicato i risultati di una pooled analysis condotta da 5 diversi

Centri europei al fine di valutare l’impatto della IORT sul controllo locale e l’OS nei pazienti con neoplasia

pancreatica. Sono stati inclusi nell’analisi 270 pazienti trattati dal 1985 al 2006 sottoposti a chirurgia

radicale e IORT, variamente associate a radioterapia a fasci esterni (pre-operatoria, post-operatoria). In

particolare, la IORT in combinazione con la radioterapia pre-operatoria ha migliorato il controllo locale e la

OS rispetto alla sola IORT o alla IORT in associazione a radioterapia post-operatoria (25).
In conclusione, la IORT nell’ambito delle neoplasie pancreatiche è principalmente indicata come

trattamento adiuvante alla chirurgia. Dati clinici hanno dimostrato un suo ruolo nell’aumentare il controllo

locale di malattia, senza però ottenere un miglioramento della OS.

11.4 Radiochemioterapia esclusiva

I principali studi randomizzati sulla radiochemioterapia esclusiva nei CP localmente avanzati sono riassunti

nella Tabella 2.

Studi randomizzati di fase III

Tabella 2 Studi randomizzati: neoplasie localmente avanzate

Moertel et al. hanno confrontato l’efficacia della radiochemioterapia rispetto alla radioterapia esclusiva nei

pazienti con CP localmente avanzato.
Sono stati arruolati 194 pazienti, sottoposti a:

1. radioterapia esclusiva (dose totale di 60 Gy con due pause programmate a 20 e 40 Gy; n=25);

2. radiochemioterapia con 5FU (500 mg/ m2 a bolo durante i primi 3 giorni di ciascun ciclo della

radioterapia; dose totale di 40 Gy, n=83 o 60 Gy, n=86) e successiva chemioterapia adiuvante con 5FU

(500 mg/ m2 a bolo settimanale sino a progressione).

Nel braccio della radiochemioterapia è stato registrato un netto e significativo miglioramento della

sopravvivenza mediana (42.2 vs 22.9 settimane) (26).
Hazel et al. hanno condotto uno studio randomizzato che confrontava la chemioterapia con 5FU (500 mg/

m2 a bolo) e metil-CCNU (100 mg/ m2), con la radiochemioterapia (dose totale: 46

Gy in 23 frazioni) con 5FU (520 mg/ m2 a bolo settimanale) seguita dallo stesso schema di

chemioterapia, in pazienti affetti da neoplasie pancreatiche e gastriche. La sopravvivenza mediana, nei

pazienti con neoplasia pancreatica (n=30), è stata simile nei due bracci di trattamento (7.8 mesi vs 7.3

mesi, rispettivamente) (27).
Klaassen et al. hanno pubblicato i risultati di uno studio di confronto tra chemioterapia con 5FU (600 mg/

m2 a bolo) e radiochemioterapia (dose totale: 40 Gy) con 5FU (600 mg/ m2 durante i

primi 3 giorni della radiochemioterapia) e successiva chemioterapia sequenziale (5FU: 600 mg/

m2 a bolo) sino a progressione, nei pazienti affetti da neoplasia pancreatica e gastrica. La

sopravvivenza mediana nei pazienti con neoplasia pancreatica (n=91) è stata simile nei due bracci di

trattamento (8.2 mesi vs 8.3 mesi, rispettivamente) (28).
Uno studio del GITSG su pazienti con CP localmente avanzato ha valutato uno schema polichemioterapico

(SMF: Streptomicina 1 g/ m2 + Mito C 10 mg/ m2 + 5FU 600 mg/ m2 a

bolo) confrontandolo con un braccio di radiochemioterapia (dose totale: 54 Gy in 30 frazioni) con 5FU (350

mg/ m2 a bolo) seguita dallo stesso schema di chemioterapia. Sono stati arruolati 43 pazienti,

21 nel braccio della polichemioterapia e 22 nel braccio della radiochemioterapia. In quest’ultimo è stato

registrato un miglioramento della sopravvivenza mediana (42 vs 32 settimane) e della sopravvivenza ad 1

anno (41% vs 19%; p<0.02) (29).
Cohen et al. hanno pubblicato i dati di uno studio di fase III che ha confrontato radioterapia esclusiva (59.4

Gy in 33 frazioni) con radioterapia (59.4 Gy in 33 frazioni) associata a chemioterapia con 5FU (1.000

mg/ m2 in infusione continua) e Mito C (10 mg/ m2). Non sono state documentate

differenze statisticamente significative in termini di intervallo libero da progressione di malattia (5 mesi vs

5.1 mesi; p=0.19) od OS (7.1 mesi vs 8.4 mesi; p=0.19) (30).
Lo studio 2000-01 FFCD/SFRO pubblicato da Chauffert et al. è uno studio di fase III che ha confrontato la

radiochemioterapia (dose totale 60 Gy in 30 frazioni) con 5FU (300 mg/ m2 in infusione

continua) e Cisplatino (20 mg/ m2) con la chemioterapia esclusiva con GEM (1.000 mg/

m2). I pazienti di ciascun braccio dello studio erano sottoposti a chemioterapia di mantenimento

con GEM (1.000 mg/ m2) sino a progressione. La sopravvivenza mediana nel braccio della

radiochemioterapia è stata inferiore rispetto a quella dei pazienti trattati con GEM esclusiva (8.6 mesi vs

13 mesi, p=0.03). Inoltre, nel braccio della radiochemioterapia è stato registrato un maggiore tasso di

tossicità G3-G4 (36% vs 22%, RTOG). Sulla base di questi risultati gli autori hanno considerato questo

schema di radiochemioterapia più tossico e meno efficace della GEM in monoterapia (31).
Lo studio ECOG 4201, pubblicato come riassunto nel 2008, ha confrontato la monoterapia con GEM

(1.000 mg/ m2) con la radiochemioterapia (dose totale 50.4 Gy in 28 frazioni) con GEM (600

mg/ m2) e successiva chemioterapia con GEM di mantenimento (1.000 mg/ m2) per 5

cicli. Nonostante l’arruolamento inferiore al previsto (74 su 316 pazienti), i pazienti sottoposti a

radiochemioterapia hanno presentato un miglioramento della sopravvivenza mediana (11 vs 9.2 mesi;

p=0.034). Tuttavia il tasso di tossicità severa gastrointestinale o ematologica è stato maggiore nel braccio

della radiochemioterapia (41.2% vs 5.7%; p<0.001) (32).

Meta-analisi e revisioni sistematiche della letteratura
Al fine di valutare l’efficacia delle diverse soluzioni terapeutiche nei pazienti affetti da CP localmente

avanzato sono state eseguite una meta-analisi e due revisioni sistematiche della letteratura.
La meta-analisi, condotta dal Cochrane Collaboration Group, ha incluso 50 studi per un totale di 7.043

pazienti. La chemioterapia, a confronto con la terapia di supporto, ha documentato una riduzione

statisticamente significativa del rischio di morte ad un anno (OR 0.37; p<0.00001). Anche la

radiochemioterapia è risultata associata ad un prolungamento della sopravvivenza ad un anno rispetto alla

terapia di supporto (58% vs 0, p=0.001). Gli autori hanno concluso che non vi sono sufficienti evidenze per

preferire un approccio terapeutico rispetto all’altro (33).
Sultana et al. hanno eseguito una revisione sistematica della letteratura che ha incluso 11 studi per un

totale di 794 pazienti. La sopravvivenza dei pazienti sottoposti a radiochemioterapia è stata superiore a

quella dei pazienti sottoposti a sola radioterapia (HR=0.69). Pazienti sottoposti a chemioterapia e pazienti

sottoposti a radiochemioterapia e successiva chemioterapia hanno presentato sopravvivenze simili

(HR=0.79) (34).
Huguet et al. hanno recentemente condotto una revisione sistematica della letteratura sulla radioterapia del

CP localmente avanzato. Questa revisione ha incluso 21 studi, di cui 2 meta-analisi, 13 studi randomizzati

e 6 non randomizzati. Alla radiochemioterapia è associata una sopravvivenza significativamente più lunga

(p<0.01) rispetto alla terapia di supporto o alla sola radioterapia. Tuttavia, la sopravvivenza mediana dei

pazienti sottoposti a radiochemioterapia non è superiore a quella dei pazienti sottoposti a sola

chemioterapia (35).

Studi di confronto tra radiochemioterapia con 5FU e radiochemioterapia con GEM
Tre studi hanno paragonato la radiochemioterapia con 5FU con la radiochemioterapia con GEM (36-38).
Crane et al. hanno confrontato 114 pazienti sottoposti a radiochemioterapia (dose totale: 30 Gy in 10

frazioni) con 5FU (200-300 mg/ m2) o con GEM (250-500 mg/ m2). Sopravvivenza e

controllo locale sono risultati sovrapponibili (36).
Li et al. hanno condotto uno studio prospettico di fase III che ha documentato un beneficio in termini di

sopravvivenza (14.5 vs 6.7 mesi; p=0.027) nei pazienti trattati con radioterapia e GEM concomitante (600

mg/ m2) e sequenziale (1.000 mg/ m2) rispetto ai pazienti trattati con 5FU (500 mg/

m2 a bolo) e successiva chemioterapia sequenziale con GEM (1.000 mg/ m2). In

entrambi i bracci la radioterapia aveva previsto una dose totale di 50.4-61.2 Gy in 28-34 frazioni) (37).
Wilkowski et al. hanno confrontato il 5FU (350 mg/ m2 in infusione continua) con l’associazione

di Cisplatino e GEM (rispettivamente 30 mg/ m2 e 300 mg/ m2) in associazione alla

radioterapia (dose totale 50.4 Gy in 28 frazioni). La sopravvivenza nei due bracci è stata simile (38).

 

Chemioterapia d’induzione e radiochemioterapia
Il Groupe Cooperateur Multidisciplinaire en Oncologie (GERCOR) ha pubblicato i risultati di uno studio

sulla radiochemioterapia dopo chemioterapia d’induzione nei pazienti affetti da CP localmente avanzato.

Sono stati analizzati retrospettivamente i dati su 181 pazienti arruolati in studi prospettici di fase II e III,

confrontando il decorso dei pazienti sottoposti o meno a radiochemioterapia dopo chemioterapia

d’induzione. L’intervallo libero di malattia e la sopravvivenza sono risultati significativamente prolungati

(10.8 vs 7.4 mesi, p=0.005; 15 vs 11.7 mesi, p<0.0009) nei pazienti sottoposti a radiochemioterapia dopo

chemioterapia d’induzione (39).
Krishnan et al. hanno condotto uno studio retrospettivo di confronto tra pazienti trattati con chemioterapia

d’induzione e radiochemioterapia rispetto ai pazienti sottoposti a sola radiochemioterapia. Sono stati

complessivamente analizzati i risultati di 323 pazienti trattati dal 1993 al 2005 con radiochemioterapia

(dose totale 30 Gy in 10 frazioni o 50.4 Gy in 28 frazioni) con 5FU (41%; 300 mg/ m2 in

infusione continua) o GEM (39%; 350-400 mg/ m2) o Capecitabina (CAP) (20%; 800-900 mg/

m2). Di questi, 76 pazienti sono stati sottoposti a chemioterapia d’induzione con GEM

(450-1.000 mg/ m2) esclusiva o associata a Cisplatino (25-30 mg/ m2) per una durata

di circa 2.5 mesi. La sopravvivenza mediana dell’intero gruppo di pazienti è stata di 9 mesi. Nel gruppo

sottoposto a chemioterapia d’induzione sono stati rilevati una sopravvivenza mediana ed un intervallo

libero da progressione di malattia prolungati (rispettivamente, 11.9 vs 8.5 mesi; 6.4 vs 4.2 mesi; p<0.001)

(40).
Ko et al. hanno pubblicato i risultati di uno studio prospettico di fase II che ha arruolato 25 pazienti

sottoposti a 6 cicli di GEM (1.000 mg/ m2) e Cisplatino a basse dosi (20 mg/ m2) e

successiva radiochemioterapia (dose totale 50.4 Gy in 28 frazioni) con CAP orale concomitante (800 mg/

m2). La sopravvivenza mediana è stata di 17 mesi per i pazienti che hanno completato le due

fasi di trattamento e di 13.5 mesi per gli altri pazienti (41).

11.5 Tecniche di radioterapia

L’irradiazione delle neoplasie del distretto addominale superiore è stata per lungo tempo gravata da

tossicità severa. In particolar modo, la maggior parte degli studi sopra riportati ha utilizzato una tecnica di

radioterapia bidimensionale (2D) con campi di irradiazione estesi e definiti sulla base di punti di

riferimento ossei. Al fine di limitare la tossicità, è stato frequentemente adottato uno schema di trattamento

con pausa intermedia (split course). Tuttavia, questo prolungamento della durata del trattamento ha il

teorico svantaggio di favorire il ripopolamento delle cellule tumorali e, di conseguenza, una scarsa

probabilità di controllo locale di malattia. Con l’avvento della radioterapia conformazionale tridimensionale

(3D), i trattamenti radioterapici sono stati collimati su target meno estesi e definiti con maggior precisione

grazie all’impiego del TC-simulatore. Il rischio di tossicità rilevante si è quindi ridotto e pertanto lo schema

split course è stato abbandonato.
Altre tecniche di trattamento sono state utilizzate per le neoplasie pancreatiche, quali la radioterapia

stereotassica extracranica (SBRT) e la radioterapia ad intensità modulata (IMRT). Entrambe le tecniche

hanno il potenziale vantaggio di consentire l’impiego di dosi biologicamente più efficaci di quelle

convenzionali. Tuttavia, tutte le tecniche di trattamento devono confrontarsi con il limite intrinseco della

radioterapia in questo distretto, rappresentato dalla vicinanza anatomica tra tumore e duodeno. A questo

aspetto va aggiunta la presenza, in questa sede, di estesi movimenti d’organo legati alle escursioni

respiratorie del diaframma. La presenza di questi spostamenti rende necessaria, per la definizione del

target radioterapico, l’aggiunta di un margine intorno al tumore. Questo margine, nella maggior parte dei

casi, comprende parte del volume del duodeno.
La SBRT prevede la somministrazione di dosi elevate di radiazioni a piccoli volumi nell’arco di un breve

periodo (1-5 frazioni circa). L’elevato gradiente di dose permette di somministrare dosi ablative al tumore

limitando la dose agli organi adiacenti. Il rischio principale nelle neoplasie pancreatiche è legato al rischio

di tossicità duodenale (ostruzione, ulcerazione, perforazione) per i motivi sopra esposti. Esperienze

preliminari sono state condotte su neoplasie non resecabili sia come unico trattamento sia come dose

aggiuntiva (boost) dopo trattamento convenzionale a fasci esterni. In alcuni di questi studi è stata utilizzata

la Cyberknife, sistema che consiste di un acceleratore compatto lineare montato su un braccio robotico.

Tale tecnologia consente un elevato grado di conformità nell’erogazione della dose ed il suo utilizzo non

richiede particolari sistemi di immobilizzazione.
I principali studi sulla SBRT nelle neoplasie pancreatiche sono riassunti nella Tabella 3 (42-48).
Da questi risultati preliminari, la SBRT sembra essere associata ad un soddisfacente controllo locale

quando impiegata nelle neoplasie pancreatiche localmente avanzate. Tuttavia, in considerazione

dell’esiguità delle casistiche nonché dei brevi tempi di osservazione, non è ancora possibile valutare

l’impatto di questa metodica sulla OS. Inoltre, sulla base degli elevati tassi di tossicità tardiva riportata

negli studi sopra esposti, potrebbe essere utile ottimizzare le dosi totali ed i frazionamenti impiegati.
La IMRT è una tecnica che permette di somministrare in maniera non uniforme la dose di radiazioni

all’interno del paziente. Studi di confronto dosimetrici hanno mostrato significativi vantaggi rispetto alla

tecnica 3D, soprattutto in termini di riduzione della dose agli organi sani (49,50). Ne è nato un interesse

per la sperimentazione clinica di questa tecnica.
Come precedentemente accennato, qualunque sia la tecnica utilizzata, la presenza di escursioni

respiratorie richiede l’impiego di margini di trattamento relativamente estesi. Ne consegue la necessità di

irradiare almeno in parte il duodeno e, pertanto, un limite alla dose massima somministrabile. Quindi, per

sfruttare al massimo le attuali possibilità dei trattamenti di precisione, questi dovranno fare ricorso a

tecniche volte alla riduzione di questi spostamenti (ad esempio: tecniche di gating respiratorio) od a

sistemi di alta precisione per la verifica della posizione del target (ad esempio: tecniche di Image Guided

Radiotherapy, IGRT).

Tabella 3 SBRT nelle neoplasie del pancreas

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12.0 FOLLOW-UP

12.1 Complicanze del trattamento
12.2 Recidiva del tumore pancreatico

La pianificazione del follow-up dei pazienti sottoposti a terapia
chirurgica o medica per un carcinoma pancreatico (CP) ha come obiettivi
principali:
– prevenzione e gestione delle eventuali complicanze successive alla dimissione;
– identificazione delle eventuali recidive;
– monitoraggio della risposta al trattamento.

12.1 Complicanze del trattamento

Compito del chirurgo è di gestire le complicanze correlate alla recente
procedura chirurgica, così come è compito dell’oncologo e del
radioterapista gestire le complicanze in corso di chemioterapia e
radioterapia. Gli interventi chirurgici demolitivi e le tecniche di
ricostruzione possono avere delle implicazioni significative sulla
qualità di vita di questi pazienti e, per neoplasie così aggressive,
queste implicazioni sono da tenere assolutamente in considerazione.
I ricoveri in ospedale successivi ad intervento chirurgico di resezione
pancreatica sono frequenti. In uno studio su 280 pazienti dimessi dopo
duodenocefalopancreasectomia (DCP) (la maggior parte per neoplasia
maligna), 47 (17%) sono stati riammessi in ospedale per una complicanza
legata alla procedura chirurgica (ascesso, fistola, occlusione
intestinale) con un intervallo mediano di 6 mesi (range 1-57) (1). Uno
studio del John Hopkins Hospital condotto su 1.643 pazienti sottoposti a
DCP dimostra che 308 pazienti (18.7%) sono stati ricoverati in ospedale
entro 1 anno dall’intervento (2). Il ricovero era dovuto a ripresa di
malattia nel 23% dei casi, ad infezione addominale (15%), a colangite
(12%) o, infine, a problemi di transito alimentare (23%). Un recente,
ampio studio condotto dal California Cancer Registry (3) su 2.023
pazienti sottoposti a DCP per CP evidenzia che il 59% dei pazienti è
stato riammesso in ospedale entro 1 anno dall’intervento per
progressione di malattia (24%), complicanze chirurgiche (14%), infezioni
(13%), problemi di malnutrizione (6.2%). Cause minori di ricovero sono
stati l’embolia polmonare da TVP (3%), il dolore (1.5%) e il diabete
(1.4%). I problemi nutrizionali (in parte dovuti alla procedura
chirurgica, in parte alla malattia), il dolore e la condizione
psico-sociale introducono il concetto di qualità di vita (QoL) del
paziente affetto da CP. Vari studi riportano come la QoL peggiori dopo
l’intervento chirurgico e ritorni ai livelli prechirurgici dopo 6 mesi,
nei pazienti liberi da malattia (4-6). Il follow-up dei pazienti operati
richiede quindi presidi idonei ad evitare i problemi dell’insufficienza
pancreatica, l’eventuale difficoltà di transito gastrointestinale o il
dolore, che possono essere presenti anche durante la terapia adiuvante
(vedi cap. 8.5). Una stretta collaborazione tra il chirurgo che ha
operato il paziente, l’oncologo ed il gastroenterologo è oltremodo
necessaria.

12.2 Recidiva del tumore pancreatico

La maggior parte dei tumori pancreatici recidiva anche dopo chirurgia
apparentemente radicale e la maggior parte delle recidive insorge entro 2
anni dall’intervento chirurgico (7-10). Circa il 94% delle recidive
insorge nella cavità addominale (locale, epatica, peritoneale): solo in
una minima percentuale dei casi la ripresa di malattia avviene al di
fuori dell’addome, sostanzialmente nei polmoni (7,10). La recidiva di CP
rappresenta un importante problema clinico, visto che una chirurgia di
salvataggio è generalmente considerata improponibile e che l’impatto
della chemioterapia e della radioterapia sulla ripresa di malattia è
scarso (11,12).
Vista la persistente negatività della prognosi di questi pazienti, come
in altre neoplasie del tratto digestivo, sorgono spontanee alcune
domande:

1. Il follow-up dei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico con intento curativo migliora la sopravvivenza?

2. Abbiamo a disposizione tecniche di imaging o esami bioumorali in grado di evidenziare precocemente la recidiva?

3. La rilevazione precoce ed il relativo trattamento influenzano la prognosi a distanza di questi pazienti?

Purtroppo, non esistono in letteratura dati sufficienti per rispondere a
queste domande, perché non ci sono studi controllati sull’argomento.
In particolare:

1. la consapevolezza della sostanziale mancanza di armi idonee a guarire
i pazienti che sviluppano una neoplasia pancreatica e ancor più una
recidiva di tumore pancreatico, insieme alla necessità di un’attenzione
ai costi di gestione, rende ancora più critico il giudizio sulla reale
efficacia del follow-up del paziente operato per CP. Inoltre, la
modalità e la frequenza dello stesso non sono affatto delineati o
standardizzati (11-13), per cui non è possibile stabilire se un
follow-up intensivo sia più utile di un follow-up minimalista.

2. Pur non essendoci uno standard comunemente accettato, la sorveglianza
post-chirurgica si avvale generalmente dell’esame fisico, della
determinazione ematica del CA19-9 e di procedure radiologiche, in
particolare della tomografia computerizzata (TC) dell’addome ed
eventualmente del torace. La capacità di tali test nell’identificare
precocemente la recidiva neoplastica, in pazienti possibilmente
asintomatici, è praticamente inesistente. L’esame fisico comunemente
eseguito ad ogni controllo pone il sospetto di recidiva solo in presenza
di segni e sintomi, non certo in una fase precoce. Il dosaggio seriato
del CA19-9 ematico post-operatorio ha già dimostrato in passato la sua
utilità sia come fattore prognostico, sia come indicatore di ripresa di
malattia anche in pazienti asintomatici (14-16). Tuttavia, è ben noto
che una certa percentuale di pazienti (circa il 15%) non esprime il
CA19-9 (14) e che falsi positivi sono frequenti, specie in corso di
colestasi (11). L’elevazione del CA19-9 da solo non è sufficiente a
definire una recidiva di malattia, ma richiede l’esecuzione di esami
strumentali per la sua conferma e localizzazione (15). Inoltre, il
dosaggio del CA19-9 da solo è utile, ma non sufficiente a determinare
la risposta al trattamento (radioterapia o chemioterapia). Tuttavia,
nella malattia avanzata, il CA19-9 può essere dosato all’inizio del
trattamento e quindi ogni 1-3 mesi; la sua elevazione indica una
malattia in progressione, ma richiede in ogni caso una conferma con
altri studi (15).

L’indagine radiologica comunemente usata per la sorveglianza dei
pazienti operati e per monitorare la risposta alla terapia è sicuramente
la TC (17). Tuttavia, bisogna sottolineare come sia estremamente
difficile, se non impossibile, differenziare con le sole immagini TC le
recidive locali dalle alterazioni tissutali post-operatorie o
post-radioterapia (18); ne deriva la necessità di valutare le
modificazioni della lesione con il trascorrere del tempo mediante
scansioni TC eseguite a brevi intervalli (18). Altri autori hanno messo
in evidenza come una linfoadenopatia mesenterica persiste durante gli
anni successivi alla chirurgia, anche per patologia benigna, rendendo
quindi impossibile differenziare in questa sede una patologia reattiva
da una metastatica (19).
C’è un crescente interesse in ambito oncologico per lo sviluppo di
tecniche non invasive, accurate, per diagnosticare le recidive
neoplastiche il più precocemente possibile, nella presunzione che la
scoperta precoce della ripresa di malattia, consentendo un tempestivo
trattamento, si traduca in un miglioramento della sopravvivenza. In
questo ambito, la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la più
recente PET/TC sembrano essere metodiche molto promettenti (20). In
alcuni studi preliminari su un limitato numero di pazienti (21,22) è già
stata segnalata l’utilità e la superiorità della PET nei confronti
delle metodiche tradizionali nell’evidenziare le recidive di CP o nel
monitorare la risposta tumorale al trattamento chemioradiante (23). Ruuf
et al. (24) in una revisione di 31 pazienti con recidiva di CP hanno
dimostrato che la PET con acquisizione TC è stata in grado di
diagnosticare il 96% delle recidive locali contro il 23% evidenziato
dalla TC o RM. Tuttavia, l’impatto sul trattamento clinico delle
recidive non è stato valutato e resta pertanto da stabilire in studi
prospettici.
Bourguet et al. (25) e Casneuf et al. (26) a loro volta escludevano l’utilità della PET nella diagnosi di recidiva neoplastica.
Recentemente è stato dimostrato che la PET possiede un’accuratezza
diagnostica molto superiore alla TC nel diagnosticare precocemente la
recidiva neoplastica tanto da localizzare la recidiva in 28 su 63
pazienti in cui la TC era ancora negativa o non diagnostica (27). Si è
trattato della prima dimostrazione, su di una popolazione di pazienti
sufficientemente ampia, che la PET è in grado di anticipare la diagnosi
in una percentuale rilevante di pazienti. Sfortunatamente l’assenza di
terapie efficaci non ha consentito di modificare in modo significativo
anche la sopravvivenza.
Come per altri tumori dell’apparato digerente si è discusso e si discute
sull’utilità ed efficacia in termini di rapporto costo/beneficio del
follow-up dei pazienti operati per CP: la possibilità di trattare con
successo una ripresa di malattia con chirurgia o radiochemioterapia è
estremamente esigua ed insufficienti sono gli studi dedicati su questo
argomento. È molto raro che la recidiva sia unica, localizzata,
suscettibile di terapia chirurgica; casi di sopravvivenza a distanza
dopo resezione di CP recidivo sono riportati sporadicamente in
letteratura. Kleef et al. (28) riportano l’esecuzione di resezione per
recidiva di CP in 15/31 pazienti esplorati chirurgicamente (5 resezioni
R0, 3 R1 e 7 R2); tuttavia, essi concludono che la resezione della
recidiva non offre sostanziali vantaggi in termini di sopravvivenza.
Meyers et al. (29) analizzando 70 pazienti con CP recidivo, riportano
sopravvivenze globali e dopo ripresa di malattia significativamente più
lunghe (p<0.01) nei pazienti trattati con chemioterapia rispetto ai
pazienti trattati con sola terapia di supporto. Il gruppo dei pazienti
non trattati comprendeva però 16 pazienti con basso performance status.
Nel 2006 Wilkowski et al. (30) hanno trattato con radiochemioterapia 18
pazienti con recidiva isolata loco-regionale di adenocarcinoma
pancreatico precedentemente resecato. Essi riportano 6 remissioni
complete, 6 parziali e 4 malattie stabili in 16 pazienti valutabili con
una mediana di sopravvivenza dall’inizio della chemioterapia di 17.5
mesi. Pur con i limiti evidenti di questi studi (numero di pazienti,
studi non controllati) è ragionevole supporre che il trattamento della
recidiva è proponibile nei pazienti in buone condizioni generali. La
ricerca deve incentrarsi sulla possibilità di identificare la recidiva
il più precocemente possibile e su terapie che possano offrire reali
vantaggi di sopravvivenza e di QoL ai pazienti.

Conclusioni
Non vi sono chiare evidenze che un follow-up sistematico sia
effettivamente utile ai pazienti sottoposti a resezione di CP ed
appropriata terapia adiuvante (11).
Non vi è evidenza che un follow-up intensivo (valutazione fisica,
biochimica e radiologica) sia più efficace di un follow-up minimalista
nel diagnosticare recidive “precoci” di malattia, suscettibili di
tempestivo trattamento, chirurgico o medico.
Non vi è evidenza che la diagnosi precoce delle recidive ed il relativo
trattamento si traducano in un prolungamento della sopravvivenza o della
qualità di vita di questi pazienti (11,12).
Non esiste un follow-up standardizzato. Alcuni esperti raccomandano una
sorveglianza ogni 3-6 mesi (esame fisico, CA19-9) e l’esecuzione di
esami strumentali (TC, RM, ecc) su indicazione clinica (11) o TC addome
ogni 6 mesi (12) per i primi 2 anni e poi annualmente (13). Non vi è al
momento indicazione all’uso routinario della PET/TC che va riservato ai
casi in cui la radiologia convenzionale non riesce a sciogliere i dubbi
(27).

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[/column][/box][box][column collapse_spacing=”yes” vertical_align=”top” auto_height=”yes” css=”border-top-width: medium; border-top-style: none; border-top-color: initial; border-right-width: medium; border-right-style: none; border-right-color: initial; border-bottom-width: medium; border-bottom-style: none; border-bottom-color: initial; border-left-width: medium; border-left-style: none; border-left-color: initial; padding-top: 0; padding-right: 0; padding-bottom: 0; padding-left: 0; ” width=”24″ last]

13.0 PROSPETTIVE FUTURE

13.1 Prevenzione
13.2 Farmaci a bersaglio molecolare
13.3 Immunoterapia
13.4 Terapia genica
13.5 Radiofrequenza e fototerapia

13.1 Prevenzione

Prevenzione
Per la difficoltà di una diagnosi precoce e per la sua elevata
aggressività, il cancro del pancreas è tra i più letali e si pone come
la quarta o quinta causa di morte per tumore nei Paesi occidentalizzati
(1).
Sono stati identificati diversi fattori di rischio, che tuttavia
riescono a spiegare solo una ridotta percentuale dei tumori pancreatici
(1). Solo pochi di questi fattori possono realmente influenzare la
prevenzione di questa malattia.

– Il fumo di sigaretta è il fattore di rischio maggiormente accertato ed
è responsabile fino al 25% dei casi di tumore pancreatici. E’ uno dei
pochi fattori di rischio modificabili: dopo aver cessato di fumare, il
rischio diminuisce gradualmente, ma non torna a livelli basali prima di
almeno dieci anni (2).

– Il consumo di alcool rappresenta una delle principali cause di
pancreatite acuta o cronica, in generale non è stato associato ad un
aumento del rischio di tumore del pancreas (1). Recenti studi, tuttavia,
hanno evidenziato un aumento di rischio dei tumori pancreatici nei
forti bevitori (3,4). E’ discutibile se quest’associazione sia dovuta ad
un effetto residuo del fumo di sigaretta, ma limitare il consumo di
alcool potrebbe rappresentare una misura preventiva anche per questa
patologia.

– Tra gli altri potenziali fattori di rischio modificabili relativi allo
stile di vita, l’obesità è stata spesso associata ad un aumento del
rischio per tumore del pancreas (1). Non esistono invece prove
inconfutabili sul ruolo della dieta o dell’attività fisica per quanto
riguarda il rischio di insorgenza di questo tumore. La comunità
scientifica è concorde nell’affermare che la scelta di una “dieta sana”
ed esercizio fisico regolare potrebbe ridurre il rischio complessivo di
insorgenza di tumore.

– Diversi studi hanno indicato che l’uso di alcuni farmaci, tra cui
l’aspirina, i farmaci antinfiammatori non-steroidei, le statine o la
metformina, potrebbe essere associato ad una riduzione del rischio.
Tuttavia, i risultati sono ancora contraddittori e non vi è alcuna prova
che questi farmaci potrebbero essere utilizzati come agenti
chemopreventivi (5-7).

Screening
Il carcinoma pancreatico viene spesso definito come un “killer”
silenzioso, poiché generalmente non causa alcun sintomo riconoscibile
fino a quando è in stato avanzato ed ormai diffuso al di fuori del
pancreas. Per questo motivo, la maggior parte dei tumori pancreatici
viene diagnosticata solo quando ha raggiunto stadi avanzati e pertanto è
incurabile. La posizione del pancreas all’interno del corpo rende
inoltre difficile individuare eventuali neoplasie nei check-up di
routine. Attualmente, non vi sono test di screening per la diagnosi
precoce del tumore del pancreas in soggetti asintomatici.
Tuttavia, alcuni Centri hanno sviluppato dei protocolli di ricerca per
individuare neoplasie pancreatiche in stadio precoce in individui ad
alto rischio per motivi genetici (ad esempio, soggetti con pancreatite
ereditaria o familiarità per tumore pancreatico) (8-10).
In assenza di dati provenienti da studi clinici randomizzati, vi sono
stati alcuni tentativi di sviluppare linee guida per la consulenza
genetica e la sorveglianza dei pazienti ad alto rischio. Purtroppo, non è
stato raggiunto un consenso in merito ad un approccio specifico per lo
screening del tumore pancreatico in questi individui (11).

Conclusioni
Anche se non vi è alcuna definitiva evidenza scientifica per una
prevenzione del tumore del pancreas, l’astensione dal fumo di tabacco o
la cessazione, il moderato consumo di alcool ed il mantenimento del
giusto peso corporeo sono misure elementari, che possono ridurre il
rischio di cancro del pancreas.
Al di fuori dei protocolli di ricerca, non vi sono specifiche
raccomandazioni per lo screening di persone ad alto rischio di tumore
pancreatico.

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13.2 Farmaci a bersaglio molecolare

Il carcinoma pancreatico (CP) è caratterizzato da una cattiva prognosi,
con una sopravvivenza media a 5 anni < 5% (1). Tale prognosi è
sostanzialmente rimasta uguale nell’ultima decade, nonostante le più
ampie conoscenze sulla biologia tumorale con l’identificazione di
numerosi potenziali bersagli molecolari. La carcinogenesi delle cellule
pancreatiche duttali rimane non completamente conosciuta e sicuramente
complessa. La più comune alterazione genetica consiste nell’attivazione
dell’oncogene K-ras e l’inattivazione dei geni oncosoppressori
p16/CDKN2, p53 e SMAD4/DPC4 (2). Le proteine prodotte da tali geni hanno
un ruolo chiave da una parte nella regolazione della proliferazione e
differenziazione cellulare, dall’altra nella fase di metastatizzazione.
Un’aumentata espressione dell’Epidermal Growth Factor Receptor (EGFR) e
dei suoi ligandi è stata dimostrata nel CP ed è stata correlata ad una
prognosi peggiore (3). Il Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF) ed i
suoi recettori sono co-espressi nel CP. VEGF ha un effetto autocrino
sulle cellule tumorali che esprimono VEGF-R e paracrino sulle cellule
endoteliali microvascolari. Valori sierici elevati di VEGF correlano con
stadi avanzati e peggior prognosi (4). Le metalloproteinasi sono enzimi
che svolgono un ruolo importante nella crescita, differenziazione e
riparazione di tessuti normali; metalloproteinasi aberranti
contribuiscono alla crescita ed alla diffusione del CP.

Inibitori delle metalloproteinasi
Il Marimastat è stato il farmaco utilizzato per inibire le
metalloproteinasi, ma in uno studio randomizzato di associazione alla
Gemcitabina (GEM) non ha mostrato vantaggi sulla sopravvivenza globale
(OS) rispetto alla sola GEM (5).

Inibitori della farnesil transferasi
L’oncogene K-ras è attivato nella maggioranza dei CP. L’enzima in grado
di catalizzare la sintesi delle proteine ras è la farnesil transferasi;
Tipifarnib è un inibitore orale della farnesil transferasi, ma in uno
studio randomizzato quando associato alla GEM non ha dimostrato vantaggi
sull’OS rispetto alla sola GEM (6).

Inibitori dell’EGFR
L’Erlotinib è una piccola molecola inibitrice dell’attività
tirosin-chinasica dell’EGFR. Agisce sul dominio intracellulare del
recettore EGFR1 prevenendo la sua attivazione ed inibendo la trasduzione
del segnale e quindi la proliferazione cellulare. Uno studio
randomizzato multicentrico, in cui GEM (al dosaggio di 1.000 mg/m2
settimanale) veniva confrontata con GEM associata ad Erlotinib al
dosaggio di 100 o 150 mg per os sino a progressione o tossicità, ha
mostrato un vantaggio, ma non significativo, dell’OS con 6.4 contro 6.0
mesi (p=0.28). Tale vantaggio statistico è in realtà quantizzabile in un
aumento di sopravvivenza di meno di 15 giorni e quindi non rilevante
dal punto di vista clinico. Non sono stati identificati fattori
predittivi di risposta (7). Il Cetuximab è un anticorpo monoclonale
chimerico contro EGFR, di cui blocca il dominio extracellulare e quindi
la trasduzione del segnale. La sua combinazione con GEM non si è
dimostrata vantaggiosa sull’OS rispetto alla GEM da sola (8). Anche
l’aggiunta del Cetuximab alla combinazione GEM e platino non ha dato
vantaggi sull’OS rispetto alla doppietta senza Cetuximab; anche in
combinazione con la doppietta GEM-Oxaliplatino, il Cetuximab non sembra
aggiungere vantaggi in termini di risposta (9,10).

Inibitori dell’angiogenesi
Il Bevacizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato anti-VEGF. La sua
combinazione con GEM non si è dimostrata vantaggiosa sull’OS rispetto
alla GEM da sola (11). Anche il Sorafenib, inibitore della Raf-1 chinasi
e del recettore 2 del VEGF, non è risultato attivo quando aggiunto alla
GEM (12).

Combinazioni di più agenti target
La limitata efficacia clinica di strategie terapeutiche basate su un
singolo bersaglio molecolare sono imputabili alla complessità
dell’interrelazione tra i numerosi sistemi di trasduzione del segnale
cellulare all’interno delle cellule del CP. Per questo, la ricerca
clinica si è orientata al blocco contemporaneo di diversi bersagli
molecolari associati ad agenti chemioterapici.
L’associazione di Bevacizumab ed Erlotinib o Cetuximab con la GEM in uno
studio di fase II randomizzato non ha mostrato un’attività sufficiente
per passare ad una fase randomizzata (13).
L’associazione di Bevacizumab ed Erlotinib con GEM non aumenta l’OS rispetto alla combinazione senza Bevacizumab (14).
Sono attualmente in corso studi clinici di fase I-II (randomizzati) di
associazione di vari farmaci a bersaglio molecolare con vari
chemioterapici (15).

Possibilità future e conclusioni
Sebbene siano stati compiuti numerosi passi avanti nello studio della
carcinogenesi dell’adenocarcinoma duttale pancreatico, i meccanismi
molecolari risultano complessi, spesso convergenti e non ancora del
tutto conosciuti. Numerose proteine nucleari e citoplasmatiche sembrano
essere validi marcatori prognostici e promettenti target terapeutici,
anche se il blocco selettivo di una sola proteina non sembra essere
sufficiente per la cura di tale patologia.

BIBLIOGRAFIA

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13.3 Immunoterapia

Evidenze dell’esistenza d’immunosorveglianza nei confronti dei tumori
nell’uomo derivano da: 1) aumentata incidenza di neoplasie in pazienti
immunodepressi dopo trapianto d’organo in confronto alla popolazione
generale immunocompetente, 2) presenza d’infiltrati linfo-monocitari
all’interno dei tumori e 3) sviluppo di risposte immunitarie spontanee
nei confronti di antigeni associati al tumore in pazienti neoplastici.
Di particolare rilevanza è uno studio recente (1), in cui il profilo
d’espressione genica e l’analisi immunoistochimica delle cellule del
sistema immunitario infiltranti il tumore del colon retto hanno
dimostrato come i dati immunologici (i.e., il tipo, la densità e la
localizzazione delle cellule immunitarie all’interno dei campioni
tumorali) costituiscano un fattore predittivo di sopravvivenza superiore
ai criteri istopatologici correntemente utilizzati per la stadiazione.
Tuttavia, anche se per alcuni tumori è stato possibile verificare il
rigetto da parte del sistema immunitario (2) od almeno il suo controllo
(3), nella maggioranza dei casi i tumori crescono indipendentemente dal
sistema immunitario indicando che la risposta è insufficiente o il
tumore ed il suo microambiente sviluppano delle strategie d’evasione dal
controllo del sistema immunitario stesso.
La manipolazione del sistema immunitario, intesa come sviluppo di
strategie atte da un lato ad amplificare le risposte immunitarie
spontanee e dall’altro ad inibire i meccanismi di immunosoppressione
adottati dal tumore, costituisce un’interessante approccio terapeutico
con caratteristiche di specificità e riduzione degli effetti
collaterali.
Nel corso degli anni, sono stati sviluppati diversi approcci
d’immunoterapia tra cui l’immunoterapia adottiva, con il trasferimento
in vivo di cellule citotossiche espanse in vitro, l’immunoterapia attiva
con varie strategie di vaccinazione e l’immunoterapia passiva con
l’utilizzo di anticorpi monoclonali che riconoscono strutture espresse
alla superficie delle cellule tumorali. Tali approcci sono stati testati
in pazienti con diverse patologie con risultati che, considerando le
condizioni cliniche dei pazienti arruolati, sono complessivamente da
ritenere incoraggianti (4).
Lo sviluppo di strategie d’immunoterapia nel carcinoma del pancreas (CP)
è particolarmente auspicabile, data la scarsa efficacia delle terapie
attualmente disponibili. Di seguito, sono riportati i risultati degli
studi clinici finora condotti e delineate possibili strategie future per
implementare terapie combinate.

Risposte immunitarie spontanee
La valutazione della presenza di risposte immunitarie spontanee, cioè
indotte dalla presenza del tumore, specifiche per antigeni tumorali è un
prerequisito importante per lo sviluppo di strategie atte ad
indurre/amplificare o correggere una risposta immunitaria antitumorale
deficitaria.
Importante è anche valutare la qualità della risposta: infatti, risposte
antitumorali efficaci contemplano l’attivazione di linfociti T
pro-infiammatori di tipo Th1/Tc1 che producono Interferone-γ (IFN-γ),
mentre risposte sostenute da linfociti anti-infiammatori Th2/Tc2, che
producono l’Interleuchina(IL)-4, IL-5 e IL-13, sono associate a malattia
avanzata.
Per quanto riguarda il CP, pochi sono gli studi condotti allo scopo di
chiarire tale aspetto. Gli antigeni tumorali descritti nel CP sono pochi
e derivano per lo più da proteine del self overespresse o mutate (5).
Uno studio (6) ha descritto la presenza di linfociti T con attività
proliferativa specifica nei confronti di peptidi della proteina p21
mutata di ras in circa il 40% di pazienti con CP, ma la qualità della
risposta non è stata indagata. Un altro studio (7) ha dimostrato la
presenza di linfociti T con attività effettrice (i.e., produzione di
IFN-γ) verso il tumore autologo e/o l’antigene tumorale mucina 1 (MUC1)
nel midollo osseo di quasi la totalità di pazienti con CP, mentre nel
sangue periferico solo nel 40%.
Più recentemente uno studio, che ha valutato la risposta verso
l’antigene carcinoembrionale (CEA) (8), ha dimostrato
un’immunodeviazione di tipo anti-infiammatorio Th2 verso CEA, ma non
verso antigeni virali, suggerendo che i pazienti con CP non hanno
un’immunosoppressione generalizzata, ma specifica verso antigeni
espressi dal tumore. Tale immunodeviazione era confermata a livello del
sito tumorale, dove le cellule linfoidi infiltranti lo stroma
esprimevano in modo preponderante il fattore di trascrizione dei
linfociti Th2 (GATA-3) e non dei linfociti Th1 (T-bet) (8).
Complessivamente, questi studi suggeriscono che il sistema immunitario
dei pazienti con CP, almeno negli stadi più precoci, è in grado di
riconoscere antigeni tumorali e di attivare una risposta immunitaria T
specifica, ma che tale risposta a livello locale è precocemente deviata
verso un tipo Th2 anti-infiammatorio e quindi non efficace per la
risposta antitumorale.

Meccanismi d’evasione dal sistema immunitario
Meccanismi adottati dai tumori per evadere il sistema immunitario sono
fattori che contribuiscono ulteriormente alla progressione tumorale. Nel
CP sono considerati importanti sia meccanismi operanti a livello del
microambiente tumorale sia fattori sistemici. A livello locale sono
descritti: 1) una diminuita espressione delle molecole del complesso
maggiore d’istocompatibilità che sono responsabili per la presentazione
degli antigeni tumorali ai linfociti T e quindi un diminuito
riconoscimento delle cellule tumorali da parte dei linfociti T stessi, e
delle molecole associate alla presentazione dell’antigene, 2)
l’espressione del recettore di Fas da parte delle cellule tumorali e del
suo ligando e quindi un’attività citotossica mediata dal complesso
Fas-FasL nei confronti dei linfociti T, 3) una ridotta espressione di
molecole co-stimolatorie della famiglia B7, 4) un’aumentata espressione
di molecole co-inibitorie (B7-H1 e B7-H4) da parte delle cellule
tumorali, 5) un accumulo di cellule T di tipo regolatorio (5,9,10).
Ancora, con effetto sia locale sia sistemico, occorre citare la
produzione da parte della componente sia epiteliale sia stromale del
tumore di fattori immunosoppressivi tipo il Transforming Growth Factor
(TGF)- β, IL-10, l’IL-6 ed il Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF)
che agiscono a diversi livelli nell’inibire risposte immunitarie
efficaci (5,9-11).
Infine, come meccanismo d’evasione dal sistema immunitario deve essere
menzionata la reazione desmoplastica presente nella maggior parte dei
carcinomi del pancreas, che costituisce una vera e propria barriera per
l’arrivo delle cellule immunitarie a livello delle cellule epiteliali
tumorali: la maggior parte delle cellule del sistema immunitario
infiltranti il tumore è infatti trattenuta all’interno dello stroma.

Vaccini
I vaccini costituiscono approcci d’immunoterapia attiva. Importanti per
lo sviluppo di un buon vaccino sono: 1) la scelta della molecola
bersaglio, che sia cruciale per la crescita tumorale e preferenzialmente
espressa solo dalle cellule tumorali, 2) la precedente dimostrazione
in vitro della sua immunogenicità e 3) la scelta di un adiuvante
efficace. Di seguito, sono elencate le strategie di vaccinazione fin ad
ora testate od in corso di sperimentazione nei pazienti con CP.

Peptidi sintetici
Peptidi sintetici derivati da antigeni tumorali in associazione ad un
adiuvante costituiscono una delle strategie più utilizzate fino ad ora.
Nella maggioranza degli studi i peptidi vengono somministrati per via
intradermica ed in associazione al Granulocyte-Macrophage Colony
Stimulating Factor (GM-CSF), una citochina in grado di attirare le
cellule dendritiche in sede di inoculo (5,9,10). Sono stati testati
peptidi derivati da ras mutato, gastrina, MUC-1, telomerasi, CEA,
mesotelina e survivina con l’intento di attivare linfociti T sia CD8+ citotossici sia CD4+
helper. In alcuni studi, la somministrazione dei peptidi è avvenuta in
combinazione a chemioterapia con Gemcitabina o Capecitabina (9).

Cellule tumorali
La cellula tumorale in toto irradiata è considerata una fonte
alternativa e più completa d’antigeni tumorali. Per il CP, sono state
sviluppate delle strategie per ingegnerizzare le cellule tumorali a
secernere citochine che sono richieste al sito tumorale per attivare
delle risposte immunitarie anti-tumorali. Dopo il confronto di diverse
citochine immunostimolanti, il GM-CSF è stato identificato come il più
potente e studi clinici che utilizzano cellule tumorali secernenti
GM-CSF come unico trattamento o dopo chemioradioterapia in adiuvante
dopo resezione chirurgica o nella malattia metastatica sono stati
pubblicati e sono in corso di sperimentazione (5,9,10).

Cellule dendritiche
Le cellule dendritiche sono le cellule presentanti l’antigene
responsabili delle risposte immunitarie in vivo. Le strategie di
vaccinazione che utilizzano le cellule dendritiche come adiuvante
contemplano la loro differenziazione in vitro a partire da precursori
del sangue periferico mediante fattori di crescita, caricamento
dell’antigene e loro reinfusione in vivo. Cellule dendritiche sono state
caricate con peptidi sintetici, vettori virali codificanti antigeni
tumorali o RNA codificante antigeni noti o RNA della cellula tumorale in
toto (5,9,10).
Complessivamente, gli studi d’immunoterapia attiva hanno dimostrato
l’induzione di risposte immunitarie dopo la vaccinazione, sebbene
risposte cliniche significative non siano state ancora dimostrate. Negli
studi di combinazione con la chemioterapia, pazienti con una risposta
immunitaria al vaccino avevano una sopravvivenza significativamente
maggiore.

Anticorpi monoclonali
Terapie con anticorpi monoclonali costituiscono approcci d’immunoterapia
passiva. Anticorpi che riconoscono molecole di superficie espresse
dalle cellule tumorali hanno lo scopo di: 1) sopprimerne la funzione, 2)
facilitare la lisi complemento-mediata, 3) veicolare farmaci, isotopi
radioattivi, citochine o tossine. Studi clinici che utilizzano tali
approcci sono stati pubblicati e sono in corso di valutazione e nella
maggioranza dei casi, la terapia con anticorpi monoclonali è associata a
chemioterapia e/o radioterapia.
Tra le molecole bersaglio studiate vanno elencate (5,9,10):

– l’Epidermal Growth Factor Receptor (EGFR), la cui aumentata
espressione in combinazione ad almeno uno dei suoi ligandi è associata a
tumori aggressivi ed è un fattore predittivo negativo per la
sopravvivenza;

– il VEGF, che favorisce la mitogenesi delle cellule endoteliali e la
loro migrazione, induce proteinasi che modellano la matrice
extracellulare ed aumenta la permeabilità vascolare;

– l’α5β1, che serve come recettore per la fibronectina ed è espresso sui vasi di nuova formazione e sulle cellule epiteliali;

– la mesotelina, che è espressa da quasi il 100% di tumori, ma non dal
tessuto pancreatico normale ed è coinvolta nell’adesione cellulare.

Più recentemente il CTLA4, una molecola che limita l’attivazione dei
linfociti T dopo esposizione all’antigene, è anche stato oggetto di
studio perché anticorpi antagonizzanti hanno dimostrato favorire
l’immunità antitumorale (5,9,10).
Complessivamente, gli approcci d’immunoterapia passiva non hanno ancora provato efficacia e tollerabilità.
Per una lista aggiornata degli studi d’immunoterapia attiva e passiva
conclusi ed in corso di reclutamento: http://clinicaltrials.gov/

Prospettive future
Studi futuri dovranno da un lato migliorare l’efficienza
d’immunizzazione dei pazienti e dall’altro contribuire ad una più
esaustiva identificazione dei meccanismi d’immunosoppressione/
regolazione e d’immunodeviazione presenti a livello tumorale per lo
sviluppo di terapie combinate possibilmente anche in associazione a
chemioterapia e radioterapia (12).
Nuovi bersagli antigenici potranno essere testati a partire dalla
recente analisi globale del genoma del CP (13), che ha portato alla
identificazione di alterazioni genetiche, nella maggioranza dei casi
mutazioni puntiformi (vedi cap. 3), che potrebbero quindi creare nuovi
epitopi unici riconosciuti da linfociti T ad alta affinità dei pazienti.

Studi sono anche in corso per una maggiore caratterizzazione delle
cellule tumorali staminali nel CP (14). Le cellule tumorali staminali
sono, infatti, responsabili delle recidive e l’identificazione di
molecole di superficie e/o di antigeni tumorali specificamente espressi
nelle cellule staminali in confronto alla loro controparte di cellule
tumorali differenziate potrebbe portare allo sviluppo di strategie di
immunoterapia specifica per l’eliminazione della malattia residua.

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13.4 Terapia genica

La terapia genica rappresenta un campo emergente nella cura delle
malattie neoplastiche. Attraverso l’espressione, il ripristino o
l’inibizione di un particolare gene d’interesse si cerca di prevenire o
contrastare la crescita delle cellule neoplastiche. Il trasferimento
intracellulare del materiale genetico viene effettuato tramite vettori,
che dovrebbero avere i seguenti requisiti:

1. alta efficienza di trasfezione;
2. distribuzione selettiva del gene;
3. citotossicità controllata;
4. immunogenicità regolata;
5. facilità di manipolazione;
6. applicazione sicura e conveniente (1).

Il trasferimento intracellulare di geni terapeutici si avvale di sistemi
virali e non virali. Attualmente, la maggiore efficienza di
trasferimento genico viene raggiunta con i vettori virali. I vettori
retrovirali, comprendenti anche i lentivirus, sono utilizzati in più di
un terzo degli studi clinici di terapia genica, mentre i vettori
adenovirali (replication incompetent adenovirus, sierotipi 2 e 5) sono
utilizzati in un quarto dei protocolli di terapia genica. I vettori
retrovirali si integrano in maniera stabile nelle cellule in divisione e
sono scarsamente immunogeni. I vettori adenovirali (Ad) sono
particolarmente interessanti in quanto:

1. infettano cellule sia in divisione sia quiescenti;
2. sono virus a DNA a doppio filamento, stabile e facilmente manipolabile;
3. la produzione di preparazioni ad alto titolo è semplice.

Vi sono tre potenziali ostacoli all’utilizzo di Ad nel CP:

1. questa neoplasia non esprime adeguati livelli di CAR, recettore per Ad5;
2. l’espressione di CAR nei tessuti normali può causare tossicità legata al vettore o al gene;
3. la risposta immune innata contro il vettore è dose dipendente e può
causare la neutralizzazione dello stesso ed una risposta infiammatoria
sistemica mortale.

Per questi motivi gli adenovirus utilizzati negli studi clinici sono
stati modificati per ottenere un trasductional targeting (l’adenovirus
riconosce e lega uno specifico ligando espresso sulla cellula bersaglio)
od un translational targeting (l’adenovirus è modificato in modo da
restringere l’espressione del gene solo alla cellula bersaglio).
Adenovirus modificati, in grado di replicare solo in cellule con una
disregolazione delle vie di segnale (p53, p16/RB, RAS/PKR e IFN/PKR)
rappresentano importanti strategie nei protocolli di terapia genica. Il
controllo dell’espressione genica limitatamente alle cellule
neoplastiche può essere ottenuto tramite il trascriptional targeting
grazie all’inserimento nel costrutto genico di elementi regolatori
trascrizionali (promotori condizionali o elementi enhancer) (2).
Gli effetti collaterali più frequenti sono la febbre e sintomi da
raffreddamento, eritema ed infiammazione nel sito di iniezione (3).
Le strategie per la terapia genica del CP includono

– oligonucleotidi antisenso e RNA interference con funzione inibitoria su oncogeni attivati;
– ripristino di funzione di geni onco soppressori;
– gene-directed prodrug activation therapy (geni suicidi);
– virus oncolitici.

Strategie con oligonucleotidi antisenso
Ras: la mutazione puntiforme al codone 12 o più raramente al 13
o al 61 è presente in oltre il 90% dei carcinomi del pancreas, ma anche
nelle lesioni pancreatiche precancerose e benigne, il che fa
presupporre un suo precoce coinvolgimento nella carcinogenesi. K-ras
codifica una proteina (p21) localizzata sul lato interno della membrana
plasmatica, che è attiva quando legata a GTP, mentre diventa inattiva se
legata a GDP. Se mutato, K-ras codifica una proteina costitutivamente
attiva. La trasfezione con plasmidi codificanti RNA antisenso per K-ras
(AS-K-ras-LNSX) inibisce la crescita di molte linee cellulari
neoplastiche pancreatiche e la progressione tumorale nel topo nudo. La
proteina mutata H-ras N116Y previene, per competizione, l’attivazione
della proteina ras. L’utilizzo di ISIS-2503 (inibitore antisenso di
H-ras) in associazione con la Gemcitabina (GEM), in uno studio di fase
II in pazienti con CP localmente avanzato o metastatico, ha presentato
un tasso di risposta del 10.4%, con sopravvivenza media di 6.6 mesi. Per
inibire K-ras sono stati prodotti small interfering RNAs (siRNAs) in
grado di interferire sulla proliferazione in vitro e sulla crescita di
cellule Capan 1 in vivo (4).
PI3/Akt pathway: la via di segnale
fosfatidilinositolo-3-chinasi/Akt gioca un ruolo importante nella
proliferazione cellulare, sopravvivenza e resistenza all’apoptosi anche
nel carcinoma pancreatico. La sovraespressione di mutanti dominanti
negativi per ras inibisce questa via di segnale (RASN17 inibisce a monte
di PI3K mentre AAA-AKT inibisce direttamente Akt) ed induce apoptosi in
linee cellulari pancreatiche. RASN17 inserito in adenovirus è stato
utilizzato con successo anche in modelli animali (4).
Survivina: proteina con funzioni antiapoptotiche e regolatorie
del ciclo cellulare che agisce bloccando sia la via estrinseca sia
quella mitocondriale (caspasi 3, 7 e 9). La survivina è espressa in più
dell’80% dei carcinomi pancreatici e nelle lesioni preneoplastiche, ma
non nel tessuto normale ed è associata a prognosi infausta.
L’espressione di questa molecola viene aumentata dall’irradiazione ed
induce radioresistenza. L’utilizzo di siRNA migliora la radiosensibilità
(4).

Ripristino di geni oncosoppressori
p16 INK4A , p21 CIP1/WAF1 , Retinoblastoma (pRb) :
questi geni oncosoppressori regolano il passaggio G1-S del ciclo
cellulare. In risposta ad un segnale mitogenico, viene sovraespressa la
ciclina D che attiva le chinasi ciclina-dipendenti 4 e 6 (CDK4 e 6).
Questo porta alla fosforilazione di pRb, a cui segue il rilascio del
fattore di trascrizione E2F che induce l’espressione dei geni necessari
per la sintesi di DNA. pRb può essere fosforilata anche dalla CDK2. p16 INK4A lega e inattiva CDK4/6 mentre p21 CIP1/WAF1 , indotto da p53, inibisce CDK2. La delezione di p16 INK4A si riscontra nell’85% dei carcinomi pancreatici. Vettori adenovirali, in grado di trasferire p16 INK4A non mutato, (AdexCACSp16) o p21 CIP1/WAF1 (rAd-p21), sono in grado di ridurre la proliferazione delle cellule neoplastiche pancreatiche in vitro (4).
p53: il gene oncosoppressore p53 è mutato in circa il 50-75%
dei casi di CP. In presenza di un danno al DNA, p53 blocca la divisione
cellulare nella fase S, consentendo la riparazione del DNA o, se la
riparazione fallisce, consente l’apoptosi o l’arresto del ciclo
cellulare mediato da p21, un inibitore del complesso ciclina D/CDK4.
Questa inibizione viene meno in caso di mutazioni di p53 e ne deriva uno
stato di iperproliferazione cellulare. Il primo protocollo di terapia
genica per il trattamento del cancro fu approvato in Cina nel 2004 dove
la Gendicina (Ad5 esprimente p53) è stata utilizzata per la cura del
carcinoma squamoso della testa e del collo. Nel CP il trasferimento di
p53 wild type tramite un vettore simile (Ad5/CMV/p53) sopprime la
crescita cellulare sia in linee cellulari sia in modelli animali,
inducendo apoptosi (4).
p73: è un gene pro-apoptotico. La sua espressione è
inversamente correlata alla presenza di metastasi linfonodali ed alle
dimensioni del tumore pancreatico. Agisce arrestando il ciclo cellulare e
inducendo apoptosi p53 legata. Un vettore adenovirale codificante p73
si è dimostrato letale in molte linee cellulari, comprese quelle
resistenti all’apoptosi mediata da p53 (4).
SMAD4/DPC4: un’altra frequente alterazione nel CP, riscontrata
nel 55% dei casi, è la perdita di SMAD4/DPC4, che codifica una proteina
coinvolta nel signalling del TGF beta. La perdita di SMAD4/DPC4, che
avviene negli ultimi stadi della carcinogenesi pancreatica, rende le
cellule tumorali incapaci di rispondere al segnale inibitorio del TGF
beta, potenzia la crescita tumorale, l’angiogenesi e la progressione
tumorale ed è predittiva di minore sopravvivenza. Il ripristino di
SMAD4/DPC4 inibisce solo parzialmente la crescita di linee cellulari
neoplastiche pancreatiche in vitro, mentre risulta più efficace in vivo,
dove verosimilmente inibisce l’angiogenesi (4).

Geni suicidi
Il trattamento è bifasico: nella prima fase vi è il trasferimento
all’interno delle cellule tumorali di un gene che codifica per un enzima
non presente nel genoma umano (virale, batterico, fungino). Nella
seconda fase, un profarmaco somministrato per via sistemica viene
trasformato, da questo enzima, nel corrispondente prodotto tossico per
la cellula. I geni suicidi utilizzati nel CP sono:

sistema Herpes Virus-Timidina Chinasi/Ganciclovir (HSV-TK) :
il gene della timidina-chinasi deriva dall’Herpes Simplex Virus tipo I
(HSV-TK). Il prodotto genico catalizza la trasformazione del Ganciclovir
(GCV), di per sé non tossico, nel suo metabolita trifosfato, tossico
per la cellula in quanto in grado di intercalarsi tra le basi del DNA di
nuova sintesi al posto della guanosina trifosfato. Anche se i risultati
in vitro sembravano inizialmente promettenti, i risultati in vivo sono
non conclusivi e talvolta scoraggianti (4,5).

Sistema Citosina Deaminasi/5-Fluorocitosina: il gene della
citosina deaminasi (CD) può essere di derivazione batterica (E. Coli) o
fungina (S. Cerevisiae). Il prodotto genico è un enzima che catalizza la
conversione della 5-Fluorocitosina (5FC), di per sé non tossica, in
5-Fluorouracile (5FU), che inibisce la sintesi sia del DNA sia dell’RNA.
Questo gene si è dimostrato solo di scarsa utilità terapeutica sia in
vitro sia nel modello animale (4,5).

Sistema Nitroreduttasi/CB1954: l’enzima nitroreduttasi (NTR)
di E. Coli è in grado di ridurre il profarmaco CB1954
[5-(aziridin-1-yl)-2,4-dinitrobenzamide] nei 2 e 4 idrossilamino
derivati, che reagiscono con tioesteri cellulari generando un agente
alchilante in grado di formare cross-links con il DNA. Rispetto agli
altri due sistemi che agiscono inibendo la sintesi di DNA, NTR/CB1954 è
tossico anche per le cellule tumorali quiescenti. L’introduzione con
vettore retrovirale del gene NTR ha sensibilizzato numerose linee
cellulari pancreatiche al CB1954 e ha provocato regressione del tumore
ed aumento della sopravvivenza nel topo nudo (4,5).

Virus oncolitici
I virus oncolitici a replicazione selettiva sono virus ingegnerizzati
per infettare, replicare e distruggere specificamente le cellule
tumorali risparmiando le cellule normali. Questi virus uccidono le
cellule tramite diversi meccanismi: lisi diretta, espressione di
proteine virali tossiche, induzione di citochine infiammatorie e di
risposta immunitaria antitumorale. La prima evidenza di efficacia della
terapia oncolitica è stata descritta da De Pace nel 1912 quando, a
seguito di vaccinazione antirabbica, si verificò la regressione di un
carcinoma della cervice uterina. Da allora, molti tipi di virus
oncolitici sono stati valutati come agenti terapeutici (4,6).
ONYX-015. Si tratta di una chimera tra i sierotipi adenovirali 2
e 5, in cui è deleto il gene E1B. Questo virus è incapace di replicare
nelle cellule normali, mentre replica nelle cellule che hanno perso la
funzionalità di p53, come nel CP. E’ stato dimostrato che la selettività
per le cellule neoplastiche è dovuta all’impossibilità di esportare
l’RNA virale tardivo, funzione che necessita di E1B-55kDa nelle cellule
normali, ma non in quelle neoplastiche. In uno studio clinico di fase I,
ONYX-015 è stato iniettato sotto guida ecografica in 23 pazienti
affetti da neoplasia pancreatica ogni 4 settimane fino alla progressione
del tumore. 6 pazienti hanno presentato un tasso di regressione tra il
25-49%, 11 erano stazionari, mentre in 5 vi è stata progressione della
malattia (7). In un altro studio di fase I/II, ONYX-015 è stato
iniettato all’interno del tumore per via endoscopica in 21 pazienti
affetti da CP avanzato in trattamento sistemico con GEM. A fronte di
effetti collaterali legati alla procedura, si è ottenuta una risposta
parziale in 2 pazienti, stabilizzazione della malattia in 10 e
progressione in 11. Non è stato possibile in questi studi misurare la
replicazione virale su biopsie del tumore (8).
Herpes Simplex Virus e Reovirus. HSV-1 e HSV-2 sono stati
modificati ed utilizzati con successo in linee cellulari ed in modelli
animali di CP. La replicazione di reovirus richiede l’attivazione della
via di segnale di ras. Sono stati ottenuti buoni risultati in linee
cellulari neoplastiche pancreatiche e nell’hamster (4,6).
Adenovirus modificati sono stati inoltre utilizzati nell’uomo, per
pilotare l’espressione di citochine (TNFa e IL-12). Questo trattamento è
risultato ben tollerato, ma scarsamente efficace nei confronti
dell’adenocarcinoma pancreatico (9,10).

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13.5 Radiofrequenza e fototerapia

L’ablazione con radiofrequenze (RFA) rappresenta una metodica di
trattamento locale in grado di indurre morte cellulare attraverso
coagulazione termica e denaturazione proteica. Oggigiorno, è utilizzata
con buoni risultati nel trattamento di tumori solidi, non resecabili, di
organi come fegato, polmone, rene, cervello, mammella, prostata,
surrene, ossa e milza (1-8).
Fondamentale è un’accurata selezione dei pazienti, infatti questo
trattamento può essere preso in considerazione in caso di adenocarcinoma
pancreatico localmente avanzato (stadio III).
Controindicazione all’uso di questo trattamento è quindi la presenza di
metastasi epatiche misconosciute o di carcinosi peritoneale (1-8).
L’applicazione delle RFA presenta diversi aspetti critici legati alla
particolare anatomia della ghiandola, alla biologia della malattia e
alle caratteristiche del parenchima pancreatico. E’ per questo che tutta
la procedura deve essere effettuata sotto guida ecografica. Per
prevenire il danno termico, è necessario mantenere una “distanza di
sicurezza” dalle strutture circostanti e mantenerle ad una temperatura
< 40°C, bagnando l’intera area con soluzione salina fredda. Ulteriori
provvedimenti sono rappresentati dal posizionamento di una garza fredda
sulla vena cava e dal raffreddamento del duodeno tramite perfusione di
soluzione fisiologica fredda attraverso un sondino naso gastrico.
Infine, è stato dimostrato che, riducendo la temperatura di applicazione
da 105°C a 90°C, il suddetto rischio termico viene notevolmente
ridotto.
La RFA deve essere effettuata in associazione al bypass bilio-digestivo, in caso di tumori cefalici.
Possibili complicanze sono rappresentate da: pancreatite acuta, trombosi
della vena porta, sanguinamento gastroduodenale o intra-addominale ed
infine fistola bilio-pancreatica. Comunque, è stato dimostrato che il
rischio di sviluppare una pancreatite acuta od una fistola pancreatica è
molto basso.
Dopo il trattamento, rimane sempre tessuto tumorale residuo che infiltra
le strutture adiacenti (vasi mesenterici, parete duodenale o retro
peritoneo). Per questo motivo, la RFA deve essere considerata come parte
di un trattamento multimodale, associata cioè alla chemio ed alla
radioterapia.
La terapia fotodinamica (PDT) rappresenta, invece, una nuova metodica di
trattamento del carcinoma pancreatico (CP) avanzato. Produce una
necrosi locale del tessuto, sfruttando l’associazione del laser con un
agente fotosensibilizzante, in presenza di ossigeno (9-11). Esperimenti
in vivo ed in vitro hanno dimostrato che la PDT riduce
significativamente la crescita cellulare (12,13), distrugge il CP e
prolunga la sopravvivenza dei pazienti con tumore non resecabile. E’
estremamente efficace nell’eliminare esclusivamente le cellule tumorali,
preservando così il tessuto sano da possibili danni. Se i dati verranno
confermati, potrebbe essere paragonata alle altre opzioni terapeutiche,
ad eccezione della chirurgia demolitiva (14). L’opzione che appare
attualmente ideale è quella di una terapia adiuvante, allorquando la
resezione chirurgica di tumori solidi lasci residui microscopici di
malattia.
In conclusione, la PDT può essere una metodica efficace nel trattamento
della neoplasia pancreatica, sono però necessari ulteriori studi clinici
e preclinici, così da incrementare l’applicazione di questa metodica e
ridurre i suoi eventuali rischi (15).

Figura 1 Esecuzione di RFA sotto guida ecografica: “Nebulizzazione e controllo dell’area ablata”

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