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Carcinoma gastrico

Carcinoma gastrico

EPIDEMIOLOGIA E FATTORI DI RISCHIO

1.1 Epidemiologia descrittiva in Europa
1.2 Fattori di rischio

Premessa
Il carcinoma gastrico è al quarto posto nella graduatoria mondiale d’incidenza dei vari tipi di cancro ed è al secondo posto quale causa di morte correlata a tumore. Esiste tuttavia una forte asimmetria fra Paesi Asiatici ad alta incidenza (Corea, Giappone, Cina con tassi di incidenza standardizzata per età superiore o vicina a 50 casi per 100.000) e Paesi Occidentali a bassa incidenza.
In Europa, il tumore dello stomaco è stato il più frequente fino alla metà del secolo scorso; negli ultimi decenni, ha registrato costanti diminuzioni nei tassi d’incidenza e mortalità. In termini assoluti, nell’ultimo decennio, tali diminuzioni si sono mostrate maggiori nei Paesi dell’Europa dell’Est rispetto a quelli dell’Europa dell’Ovest, dove si osservano, tuttavia, tassi di mortalità con valori più bassi. In particolare, nel 2004 i tassi di mortalità per tumore gastrico hanno raggiunto i valori più bassi in Svezia ed in Svizzera, con meno di 5/100.000 uomini e meno di 3/100.000 donne (1). Diminuzioni meno marcate si sono osservate in Russia ed in Bielorussia, con tassi di mortalità intorno a 27/100.000 negli uomini e 11/100.000 nelle donne, così come in altri Paesi dell’Europa dell’Est ed alcuni Paesi dell’Europa del Sud, dove questa patologia rimane un problema maggiore di sanità pubblica (1,2). Di conseguenza, il tumore dello stomaco rappresenta ancora la quarta causa di morte per tumore in Europa (2) e la seconda nel mondo, dopo il tumore del polmone (3).
In Italia, il tasso di mortalità è intorno a 10/100.000 negli uomini e 5/100.000 nelle donne (4), collocandosi a livello intermedio in Europa. Vi sono inoltre alcune aree del Centro-Nord con incidenza e mortalità del tumore dello stomaco ancora elevate.
Nel periodo 2003-2005, in Italia, il tasso standardizzato di incidenza per cancro gastrico si è attestato intorno a 18 casi per 100.000 (Figura 1). Questo cancro rappresenta il quinto tumore per frequenza e la quarta causa di morte per tumore in entrambi i sessi (5.2% di tutti i tumori negli uomini, 4.6% nelle donne). Incidenza e mortalità sono più elevate nell’Italia Centrale, seguita dal Nord e quindi dal Sud e dalle Isole. Sebbene, con l’eccezione di alcune aree geografiche della Lombardia prealpina, sia consolidato il trend discendente dell’incidenza e della mortalità osservato nel corso degli ultimi decenni in Italia, come negli altri Paesi Occidentali, il cancro dello stomaco resta epidemiologicamente rilevante a causa del progressivo invecchiamento della popolazione, che espone ad un rischio più elevato di malattia (circa 170 casi per 100.000 nei maschi di età > 70 anni e circa 85 per 100.000 nelle donne della stessa fascia di età). Inoltre, la sopravvivenza a 5 anni rimane bassa (non superiore al 25%). Si stima che nel corso del 2010 saranno diagnosticati in Italia 7.621 nuovi casi di cancro gastrico tra gli uomini e 4.583 tra le donne (5).

Figura 1 Incidenza e mortalità per cancro gastrico in Italia (periodo ’98-’05), per genere e fascia d’età (AIRTUM ’09)

Allo scopo di fornire un quadro globale aggiornato dell’epidemiologia del tumore dello stomaco in Europa, sono stati rivisti gli andamenti di mortalità di lungo periodo, dal 1970 al 2007, nei Paesi che hanno fornito le informazioni, oltre che nell’intera Unione Europea (UE), utilizzando appositi modelli di regressione joinpoint, allo scopo di identificare le variazioni significative nelle tendenze di mortalità (6).

1.1 Epidemiologia descrittiva in Europa

Sono stati analizzati gli andamenti della mortalità per il tumore gastrico in 37 diversi Paesi Europei selezionati.
I dati ufficiali di mortalità per tumore gastrico sono stati ottenuti dalla banca dati di mortalità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), disponibile su supporto elettronico, per gli anni dal 1970 al 2007, quando disponibili (7). I dati di certificazione di morte nei vari Paesi sono stati riclassificati secondo la Decima Revisione della Classificazione Internazionale delle Malattie (C16) (8).
Le stime delle popolazioni residenti per ogni Paese sono state ricavate dai censimenti ufficiali provenienti anch’essi dalla banca dati OMS, per lo stesso periodo.
Le disponibilità dei dati forniti riguardano Ungheria, Slovacchia e Spagna fino al 2005; Bulgaria, Croazia, Danimarca, Germania, Lussemburgo, Portogallo, Federazione Russa e Ucraina fino al 2006. Inoltre, i dati di Portogallo e Spagna sono disponibili dal 1971; quelli di Germania dal 1973; quelli di Federazione Russa dal 1980; quelli di Ucraina dal 1982, eccetto i dati relativi agli anni 1983 e 1984. Infine, i dati della Repubblica Ceca sono disponibili dal 1986.
Per ogni Paese, sulla base delle matrici della certificazione di morte e della popolazione residente, sono stati calcolati i tassi di mortalità età-specifici per ogni anno e per ogni quinquennio di età, (dalle fasce 0, 1-4 anni, fino all’ultima fascia di età 85 anni e più). Sono stati poi calcolati i tassi standardizzati di mortalità per 100.000 uomini e donne per il tumore dello stomaco, utilizzando il metodo diretto sulla base della popolazione mondiale standard per ogni fascia di età (9), a scopo di confronto tra diversi Paesi e periodi temporali.
Successivamente, sono stati raggruppati i dati dei 27 Paesi appartenenti all’UE, che hanno fornito dati coerenti ed uniformi nel periodo in studio, escluso Cipro, i cui dati non erano disponibili.
Infine, per 23 Paesi selezionati e l’UE è stato applicato un modello statistico di regressione di tipo joinpoint (10) per identificare i periodi temporali nei quali si erano verificati cambiamenti significativi degli andamenti di mortalità (6).
La Tabella 1 mostra i tassi standardizzati di mortalità per tumore gastrico in uomini e donne nei diversi Paesi Europei, nei periodi 1985-89, 1995-99 e 2005-07 e le corrispondenti variazioni percentuali.

Tabella 1 Tassi standardizzati per età (popolazione mondiale) per tumore dello stomaco per 100.000 uomini e donne in diversi Paesi Europei nei quinquenni 1985-89, 1995-99 e 2005-07 e corrispondenti variazioni percentuali

In generale, per entrambi i sessi, i Paesi che mostrano i tassi di mortalità più bassi sono quelli dell’Europa del Nord e dell’Ovest, ovvero Svizzera, Svezia, Danimarca, Norvegia, Francia, Lussemburgo, Regno Unito, Islanda, Finlandia e Paesi Bassi. I valori nel periodo 2005-07 variano da circa 4 a 6/100.000 uomini e da circa 2 a 3/100.000 donne. I valori più alti si osservano nei Paesi dell’Europa dell’Est. Tra questi, i tassi di mortalità più elevati si sono osservati in Russia (con un tasso pari a circa 26/100.000 uomini e circa 10/100.000 donne, nel periodo 2005-07) ed in Bielorussia (con un tasso pari a circa 24/100.000 negli uomini e circa 9/100.000 nelle donne). Nel complesso, nell’UE si sono osservate diminuzioni tra il 28% ed il 30% nel periodo considerato, sia negli uomini sia nelle donne, raggiungendo un tasso di mortalità pari a circa 8/100.000 uomini e 4/100.000 donne, nel periodo 2005-07.
La Figura 2 mostra i risultati dell’analisi di regressione joinpoint degli andamenti di mortalità per tumore dello stomaco dal 1970 al 2007, quando disponibili, in 23 Paesi selezionati e nell’UE.

Figura 2 Analisi di regressione joinpoint dal 1970 al 2007, quando disponibile, della mortalità per tumore dello stomaco in diversi Paesi Europei selezionati.

In entrambi i sessi, si osservano diminuzioni costanti nella mortalità per tumore gastrico, sebbene con tassi più elevati negli uomini rispetto alle donne. Tali diminuzioni risultano più marcate fino alla metà degli anni ’90, per poi iniziare un livellamento nell’ultimo decennio, in particolare per i giovani, nei Paesi con tassi più bassi.
La diagnosi di carcinoma gastrico non pone particolari difficoltà ed i dati di certificazione di morte per questa patologia sono sufficientemente affidabili da lungo tempo, in modo da permettere di effettuare analisi inferenziali degli andamenti nella maggioranza dei Paesi Europei (2).
Gli andamenti sono stati analizzati attraverso l’applicazione di modelli di regressione joinpoint (6), un modello statistico sempre più utilizzato per descrivere gli andamenti dei tassi di mortalità nei diversi Paesi ed individuare, nel corso degli anni, eventuali cambiamenti significativi di tendenza. I risultati di queste analisi mostrano, da una parte, la considerevole e continua diminuzione osservata in tutte le aree geografiche d’Europa, dall’altra, un’indicazione di livellamento di tali diminuzioni negli anni più recenti, una volta raggiunti tassi di mortalità bassi. La tendenza attesa è quella di osservare diminuzioni sempre più lievi nel futuro.
Nel corso degli anni ’90, il tumore gastrico, insieme al tumore del colon-retto e del polmone, ha contribuito maggiormente alla diminuzione della mortalità complessiva per tumori in Europa (11), con oltre 20.000 morti evitate ogni anno, rispetto ai tassi registrati alla fine degli anni ’80. Anche assumendo una persistente diminuzione della mortalità per questo tumore nel prossimo decennio, come suggerito dalla presente analisi, il numero di morti evitate nel primo decennio di questo secolo non sarà superiore a 15.000. Questo numero rimarrà più alto nei Paesi dell’Europa centrale ed orientale e, soprattutto, nella Federazione Russa, dove il tumore gastrico rimane ancora una priorità a livello di sanità pubblica (1,12).

1.2 Fattori di rischio

Le ragioni della costante diminuzione della mortalità per tumore dello stomaco in Europa sono complesse e non del tutto comprese. Tra queste, quasi con certezza, vi è il miglioramento dell’alimentazione, sia per quanto riguarda l’ampia varietà della dieta, sia per quanto riguarda la conservazione degli alimenti, in particolare, in seguito al diffondersi       della refrigerazione (13-15), così come la diminuita prevalenza dell’infezione da Helicobacter pylori (H.pylori) nelle generazioni più recenti (16) e la riduzione del fumo di sigarette, almeno per gli uomini (17).
In molti Paesi del mondo, si osserva una forte correlazione tra il consumo di sale ed alimenti salati e l’incidenza di tumore gastrico (15,18). Numerosi studi hanno esaminato questa relazione ed hanno generalmente trovato un aumento di 2 volte del rischio di tumore gastrico. Tale relazione è anche biologicamente plausibile, dato che il sale può causare danni allo strato protettivo della mucosa dello stomaco. Altri metodi di conservazione degli alimenti, così come gli alimenti affumicati, sono stati associati al tumore dello stomaco, anche se con scarsa evidenza.
L’infezione da H.pylori è associata al rischio di tumore gastrico. La plausibilità di un’associazione causale è supportata da una forte associazione tra questo batterio e lesioni precancerose, incluse gastriti croniche atrofiche e displasie. A livello mondiale, la prevalenza di infezione è molto alta soprattutto nei Paesi in via di sviluppo e, nelle coorti più vecchie, il batterio H.pylori può spiegare oltre il 50% di tutti i nuovi casi di tumore gastrico ed oltre il 5% di tutti i casi di tumore globale (19). L’eradicazione dell’H.pylori porta, nell’arco di alcuni anni, ad una sostanziale riduzione del rischio di carcinoma gastrico. In uno studio Finlandese, il rischio relativo scendeva a 0.14 (intervallo di confidenza, IC al 95%: 0.00-0.75), 5 anni o più dopo l’eradicazione. Tuttavia, rimane ancora qualche incertezza riguardo alla quantificazione di questa associazione nelle diverse popolazioni e gruppi di età. Inoltre, diversi ceppi di H.pylori mostrano differenze nella patogenesi ossia nell’abilità di generare una malattia. Infatti, la presenza del batterio H.pylori nelle biopsie gastriche, la gravità delle lesioni cancerose e, quindi, il rischio di tumore gastrico sembrano essere specifici dei ceppi batterici che possiedono il gene CagA (20,21).
Un altro importante fattore di rischio per il tumore gastrico è il fumo di sigarette. I fumatori hanno un rischio di contrarre questo tumore maggiore del 50-60% rispetto ai non fumatori. Questo indicherebbe che il fumo è responsabile di circa il 10% di tutti i casi di tumore gastrico (22) e la recente diminuzione della prevalenza di fumo nei maschi nei Paesi sviluppati potrebbe essere responsabile della diminuzione dei tassi di mortalità per tumore gastrico (17). In particolare, il fumo di sigaretta, sembra essere associato allo sviluppo di neoplasie del carcinoma del cardias.
L’alta prevalenza del batterio H.pylori, i diversi aspetti della conservazione degli alimenti, la dieta, così come il fumo di sigaretta spiegano ampiamente le diminuzioni più lievi nei tassi di mortalità per tumore gastrico nei Paesi dell’Europa orientale, rispetto a quelli dell’Europa occidentale ed altre aree sviluppate nel mondo. In Russia ed altri Paesi ex socialisti, la refrigerazione si è diffusa più tardi, ci sono state grandi carenze nella disponibilità e nella distribuzione degli alimenti ed il fumo di tabacco era più comune, soprattutto negli uomini (23).
Alcuni aspetti della dieta sono stati inoltre associati al tumore dello stomaco. In particolare, una dieta ricca in frutta e verdura è risultata favorevole ed una ricca in amidi e carni (conservanti) sfavorevole nei confronti del rischio di tumore dello stomaco (15,18). In uno studio caso-controllo condotto in Nord Italia, è stata presa in considerazione la dieta nel suo complesso (dietary pattern) sul rischio di tumore dello stomaco. Sono stati identificati tre pattern dietetici associati al tumore dello stomaco, uno definito “Dieta ricca in prodotti animali” con un rischio relativo di 2.13 (IC al 95%: 1.34-3.40), uno definito “Ad alto contenuto di amidi” con un rischio relativo di 1.67 (IC al 95%: 1.01-2.77) ed uno definito “Vitamine e fibre” con un rischio relativo di 0.60 (IC al 95%: 0.37-0.99) (Tabella 2).

Tabella 2 Odds ratios (OR) di tumore dello stomaco e corrispondenti intervalli di confidenza al 95% (IC) secondo il grado di appartenenza ai pattern dietetici

Questi dati riassumono quindi un effetto sfavorevole di una dieta ricca in carni, grassi animali ed amidi, ed uno protettivo di un pattern dietetico ricco in frutta e verdura, sul rischio di tumore dello stomaco.
La prevenzione primaria del tumore gastrico potrebbe quindi essere potenzialmente possibile attraverso la dieta, incoraggiando le popolazioni ad alto rischio a diminuire il consumo di carni affumicate, insaccati ed alimenti conservati col sale e ad aumentare il consumo di frutta e verdura (24). La prevenzione può anche essere fatta attraverso l’eradicazione dell’infezione da H.pylori, in particolare nell’infanzia e nell’adolescenza.

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ANATOMIA PATOLOGICA

2.1 Distribuzione anatomica
2.2 Aspetti macroscopici
2.3 Campionamento
2.4 Aspetti microscopici
2.5 Il carcinoma in fase iniziale (Early Gastric Cancer)
2.6 Il ruolo dell’immunoistochimica nella definizione di HER2
2.7 La valutazione della neoplasia intraepiteliale (displasia)
2.8 Adenocarcinoma della giunzione gastroesofagea

2.1 Distribuzione anatomica

I carcinomi dello stomaco che originano nello stomaco distale (antro e corpo) presentano alcune caratteristiche differenti rispetto a quelli che insorgono nella regione cardiale. Nelle ultime decadi, si è assistito ad una progressiva diminuzione dell’incidenza del carcinoma dello stomaco distale nei Paesi Occidentali: essa consegue verosimilmente alla riduzione della prevalenza dell’infezione da H.pylori (1). Al contrario, l’incidenza del carcinoma della regione cardiale è in aumento, analogamente a quanto osservato per l’adenocarcinoma del III inferiore dell’esofago; le ragioni di questo aumento sono controverse. E’ difficile stabilire la sede esatta del cardias da un punto di vista topografico, altrettanto difficoltoso pertanto risulta essere la definizione di neoplasie dello stomaco con sede cardiale. Il principale motivo di incertezza riguarda la definizione stessa di carcinoma della regione cardiale; mentre è infatti agevole definire la sede di insorgenza sia del carcinoma dello stomaco distale sia di quello limitato al III esofageo inferiore, soprattutto se associato ad esofago di Barrett, risulta invece difficile definire quella del carcinoma del cardias. Soprattutto nelle neoplasie in fase avanzata, è spesso impossibile riconoscere la sede di origine e quindi separare i carcinomi dell’esofago distale che si estendono allo stomaco da quelli dello stomaco prossimale che si estendono all’esofago: per queste neoplasie, il termine di carcinoma della giunzione gastroesofagea appare più appropriato (2). Questo problema rende difficile interpretare i dati epidemiologici dei trend del carcinoma del cardias, soprattutto in termini retrospettivi. Da un punto di vista istopatologico e molecolare, il carcinoma della giunzione gastroesofagea appare più simile all’adenocarcinoma esofageo (3,4). In particolare, il carcinoma del cardias, oltre a mostrare un trend d’incidenza crescente, non appare significativamente associato all’infezione da H.pylori ne’ alla gastrite atrofico-metaplastica e si correla con la presenza di malattia da reflusso gastroesofageo (5); raramente presenta istotipo diffuso (sec. Lauren), essendo spesso un adenocarcinoma a struttura tubulare o papillare. Non sono infine note alterazioni molecolari che consentano di differenziare il carcinoma del cardias (o della giunzione gastroesofagea) da quello del III esofageo inferiore. Appare quindi opportuno separare i carcinomi della regione cardiale/giunzione gastroesofagea rispetto a quelli dello stomaco distale. La classificazione TNM AJCC/UICC 2010 recepisce questa distinzione e classifica i carcinomi della giunzione gastroesofagea insieme a quelli dell’esofago differenziandoli nettamente dai carcinomi dello stomaco (6) (vedi sottocap. 2.8); la trattazione che segue si riferisce esclusivamente a quest’ultimi.

2.2 Aspetti macroscopici

La descrizione degli aspetti macroscopici del carcinoma gastrico in fase iniziale (Early Gastric Cancer, EGC) ed in fase avanzata fanno riferimento a due classificazioni distinte. L’EGC è una neoplasia maligna epiteliale dello stomaco confinata alla mucosa o che infiltra anche la sottomucosa; viene classificata secondo il suo aspetto superficiale, come definito da una classificazione macroscopica endoscopica (Tabella 1), proposta dalla Japanese Gastroenterological Endoscopic Society (7).

Tabella 1 Classificazione macroscopica dell’EGC

Per quanto l’aspetto macroscopico mostri qualche correlazione con il tipo istologico, esso non fornisce alcuna informazione prognostica significativa. La maggioranza degli EGC di tipo II insorge sulla piccola curva a livello angolare ovvero nella zona di transizione tra mucosa antrale ed ossintica. Esiste inoltre una classificazione degli EGC proposta da Kodama et al. (8), che prende in considerazione aspetti macro- e microscopici e che sarà trattata successivamente. La maggioranza degli EGC presenta una limitata estensione superficiale, di regola compresa tra 1 e 4 cm: sono tuttavia osservabili anche forme superficialmente più estese (superficial spreading EGC) e lesioni < 5 mm (minute cancers).
L’aspetto macroscopico del carcinoma in fase avanzata viene definito secondo la classificazione di Borrmann (9): essa prevede neoplasie polipoidi (tipo I), esofitiche/fungiformi (tipo II), ulcerate (tipo III) e diffusamente infiltranti (tipo IV). Gli aspetti polimorfi del carcinoma gastrico richiedono che la loro classificazione possa prevedere anche la combinazione di più tipi macroscopici. Quando un carcinoma di tipo IV infiltra ampiamente le pareti dello stomaco, riducendolo ad un organo senza peristalsi, la lesione viene anche definita “linite plastica”. Analogamente a quanto citato per il carcinoma in fase iniziale, anche per il carcinoma avanzato l’aspetto macroscopico presenta una significativa correlazione con l’istotipo, ma non fornisce quelle informazioni prognostiche applicabili nella pratica clinica riconducibili alla stadiazione TNM (vedi cap. 10.0). Peraltro, i tipi I e II di Borrmann corrispondono spesso a neoplasie a struttura ghiandolare (di tipo intestinale sec. Lauren), mentre il tipo IV di regola corrisponde ad un carcinoma a cellule non-coese (di tipo diffuso sec. Lauren).

2.3 Campionamento

Una corretta descrizione macroscopica ed un campionamento adeguato del materiale chirurgico costituiscono la base per un’esatta definizione della neoplasia sia in termini di stadiazione sia di istotipo. Dato che il ruolo del patologo in questa fase è quello di fornire una diagnosi istologica accurata che comprenda tutti i dati necessari per definire la prognosi e la necessità di ulteriori trattamenti, il campionamento del materiale e la scelta dei blocchetti rappresentano un momento cruciale. Sono disponibili in proposito accurate linee guida edite dal Royal College of Pathologists e dal Cancer Committee of the College of American Pathologists (10-12). Per quanto una completa descrizione dei requisiti del campionamento macroscopico sia al di là dei limiti di questo documento, vengono riassunti di seguito gli elementi più importanti:

– idealmente, il campione dovrebbe essere esaminato a fresco, aperto di regola lungo la grande curvatura, fissato su un supporto di sughero e lasciato fissare per > 24 ore. Il tipo di campione (gastrectomia parziale o totale) e la sede della neoplasia devono essere indicate nel report anatomo-patologico;

– per quanto sia difficile definire il minimo numero di blocchetti di neoplasia necessari, il campionamento deve consentire di definire il massimo livello di invasione della neoplasia. In genere, 4 blocchetti di neoplasia sono sufficienti. Negli EGC è consigliabile includere tutta la lesione;

– qualsiasi altra lesione (polipi, erosioni ecc.), oltre alla neoplasia, deve essere sottoposta ad indagine microscopica;

– poiché l’interessamento della sierosa influenza il criterio T del TNM, è opportuno marcare con china la superficie sierosa nell’area di massima invasione, in modo da renderne agevole il riconoscimento microscopico;

– tutti i linfonodi presenti nel campione devono essere sottoposti ad analisi microscopica. E’ possibile suddividere i linfonodi regionali per sede, ma questo non è strettamente necessario, poiché il TNM definisce la categoria N sulla base del solo numero di linfonodi metastatici. Per quanto non esista un consenso universale sul minimo numero di linfonodi richiesto, è opinione condivisa che debbano essere reperiti almeno 15 linfonodi per una stadiazione accurata (12). La chemioterapia neoadiuvante rende particolarmente difficoltoso il reperimento dei linfonodi;

– occorre definire la distanza minima tra la neoplasia ed i margini chirurgici distale e prossimale. L’esame microscopico dei margini chirurgici può essere condotto su sezioni traversali, se la neoplasia è distante dal margine. Per neoplasie contigue al margine di sezione, l’effettiva distanza dal margine ed il suo eventuale coinvolgimento si apprezzano meglio su sezioni longitudinali multiple, previa chinatura del margine. Lo studio del margine circonferenziale è da riservare alle sole neoplasie della giunzione gastroesofagea;

– lo studio della mucosa gastrica ha fornito informazioni importanti per la comprensione del processo di cancerogenesi gastrica. E’ opportuno quindi esaminare anche campioni di mucosa non-neoplastica per definire il background mucosale sul quale è insorta la neoplasia. Laddove le dimensioni della neoplasia lo consentano, l’esame della mucosa di piccola e grande curva con la tecnica degli swiss rolls fornisce un quadro completo della topografia ed estensione delle lesioni cancro-associate (13);

– i moderni software di refertazione consentono di compilare un “blocco note” nel quale mantenere traccia del campionamento eseguito e della numerazione dei blocchetti, elementi essenziali per eventuali revisioni successive.

2.4 Aspetti microscopici

Il carcinoma gastrico è caratterizzato da ampia eterogeneità intratumorale e non è raro osservare casi in cui coesistono aspetti citologici ed architetturali differenti. Questa eterogeneità costituisce il principale ostacolo per la classificazione istologica del carcinoma gastrico. Le classificazioni di gran lunga maggiormente utilizzate sono quelle della WHO (2) e quella di Lauren (14).
La classificazione WHO si basa sul riconoscimento del tipo istologico predominante: essa prevede 4 tipi istologici più frequenti (carcinoma tubulare, papillare, mucinoso ed a cellule ad anello con castone, dette anche cellule a sigillo) ed alcune varianti rare (carcinoma epatoide, carcinoma con stroma linfoide, corioncarcinoma, carcinoma adenosquamoso, squamoso, indifferenziato ed a piccole cellule). Oltre a questi istotipi, sono stati descritti carcinomi misti endocrini-esocrini, carcinomi a cellule parietali, carcinomi epatoidi, carcinomi embrionali, corioncarcinomi e tumori del seno endodermico: tutti di eccezionale rarità.

– Il carcinoma tubulare è caratterizzato dalla presenza di formazioni ghiandolari di dimensioni variabili, distorte, con dilatazioni e ramificazioni, a configurazione tubulare od acinare; le cellule che le rivestono sono tra loro “coesive”, più frequentemente colonnari o cubiche, possono contenere mucine intra-citoplasmatiche più o meno abbondanti, fino ad assumere un aspetto caliciforme. Anche i lumi ghiandolari possono contenere muco e risultarne dilatati. Alcuni tumori sono costituiti da cellule con citoplasma chiaro: quando esse sono prevalenti, la neoplasia corrisponde al cosiddetto carcinoma piloro-cardiale della classificazione di Mulligan (15). Una variante poco differenziata del carcinoma tubulare è rappresentata dal carcinoma solido, in cui la formazione di ghiandole è molto ridotta e prevalgono gli aspetti di tipo midollare. Alcuni carcinomi a struttura solida si accompagnano ad un rilevante infiltrato linfoide costituito in prevalenza da linfociti T CD8+ e molti di essi presentano espressione nucleare di EBV (16).

– Il carcinoma papillare è costituito da strutture arborizzate caratterizzate da un core fibrovascolare rivestito da cellule epiteliali coesive, che presentano caratteristiche citologiche analoghe a quelle dei carcinomi tubulari. Il grado di atipia citologica è variabile e può raggiungere gradi elevati. Sono possibili commistioni tra strutture papillari e tubulari. Spesso i carcinomi papillari sono estesamente angioinvasivi.

– Il carcinoma mucinoso è caratterizzato dalla presenza di mucine extracellulari in > 50% della neoplasia. Tali accumuli producono la formazione di laghi di muco nell’interstizio e questo li distingue ad esempio dai carcinomi tubulari o papillari con produzione di muco all’interno delle strutture ghiandolari. Se ne riconoscono una forma ben differenziata, in cui strutture simil-ghiandolari incomplete costituite da cellule colonnari coesive flottano in laghi di muco ed una forma poco differenziata, in cui cellule mucosecernenti isolate o in piccoli aggregati sono disperse nei laghi di muco. Da un punto di vista strutturale, si possono distinguere neoplasie con un pattern di crescita di tipo “espansivo”, a basso grado di malignità (carcinoma muconodulare) (17), da neoplasie che presentano un pattern di crescita di tipo “infiltrativo”, ad alto grado di malignità.

– Il carcinoma con cellule a sigillo è caratterizzato dalla presenza di cellule non-coesive, il cui citoplasma è disteso dalla presenza di muco ed il nucleo compresso e dislocato eccentricamente dai granuli di mucina. Possono coesistere strutture microghiandolari, ma la formazioni di ghiandole differenziate non è una caratteristica di tali tumori. Le cellule possono formare cordoni od aggregati e presentano un pattern di crescita tipicamente “infiltrativo”. Nella loro componente infiltrante, queste neoplasie spesso evocano una reazione desmoplastica di entità variabile, la cui espressione più tipica è costituita dalla cosiddetta “linite plastica”. Le cellule della componente invasiva possono perdere la capacità di produrre mucine e presentarsi come elementi di piccole dimensioni, a volte simili alle cellule non-epiteliali della reazione desmoplastica ed infiammatoria. Questo fenomeno può rendere difficoltosa la valutazione del reale grado di invasione e dello stato dei margini chirurgici; in questi casi è consigliabile utilizzare anticorpi anti-citocheratine nella valutazione microscopica. I carcinomi a cellule a sigillo producono tipicamente un pattern metastatico linfonodale di tipo “sinusale embolico”, del tutto simile a quello osservabile nel carcinoma lobulare della mammella, il cui riconoscimento può risultare problematico nei casi meno eclatanti e che si giova delle colorazioni per le mucine o dell’immunoistochimica con anticorpi anti-citocheratine.

La descrizione delle varianti “rare” del carcinoma gastrico, precedentemente elencate, va oltre le finalità di questo documento. E’ comunque opportuno ricordare che i carcinomi a struttura solida, poco differenziati ed a piccole cellule possono risultare di natura endocrina: tale differenziazione può essere evidenziata utilizzando anticorpi anti-cromogranina A ed anti-sinaptofisina.
La classificazione di Lauren (14) ha trovato grande diffusione ed applicazione, soprattutto per la sua semplicità. Essa distingue due tipi principali di carcinoma, quello di “tipo intestinale” e quello “diffuso”. I casi che non rientrano nelle caratteristiche delle due forme principali, quali ad esempio il carcinoma indifferenziato sec. WHO, vengono definiti “inclassificabili”. Le neoplasie che presentano entrambi gli aspetti vengono classificate come “tipo misto”. Le caratteristiche principali del carcinoma di tipo intestinale sono la formazione di strutture ghiandolari differenziate (tubulari o papillari), costituite da cellule coesive che infiltrano la parete gastrica in forma discreta e con un pattern di crescita prevalentemente espansivo (Figura 1A): esempi principali di carcinomi di “tipo intestinale” sono i carcinomi tubulari, papillari e mucinosi ben differenziati della classificazione WHO. Il termine di “tipo intestinale” si riferisce non tanto al tipo di differenziazione od istotipo, ma al fatto che la maggior parte di tali neoplasie insorge in un contesto di gastrite atrofico-metaplastica (cosiddetta environmental gastritis secondo Correa) (18), la cui principale caratteristica è l’estensione della metaplasia intestinale nello stomaco. Infatti, studi successivi (19,20) hanno chiaramente dimostrato la frequente espressione di marcatori di differenziazione sia gastrica sia intestinale in entrambi i tipi di Lauren: i carcinomi di “tipo intestinale” e quelli “diffusi”. Il carcinoma “diffuso” è invece caratterizzato dalla presenza di cellule non o poco coesive, che infiltrano la parete gastrica con un pattern di tipo “infiltrativo” (Figura 1B).
Partendo dalla classificazione di Lauren, Carneiro et al. (21) separano, nell’ambito delle forme intestinali, un tipo ghiandolare da quello solido e considerano, oltre al carcinoma a cellule isolate (simile al diffuso di Lauren), un tipo misto.

Figura 1A-B Istotipi del carcinoma gastrico sec. Lauren. Il carcinoma di tipo intestinale è caratterizzato da cellule coese che formano ghiandole ed invadono in modo espansivo (A). Il carcinoma di tipo diffuso è caratterizzato da cellule non-coese che non formano ghiandole e mostrano un pattern infiltrativo (B)

L’associazione con la metaplasia intestinale diffusa è infrequente. Esempi principali di carcinoma “diffuso” sono rappresentati dal carcinoma a cellule a sigillo e dal carcinoma mucinoso poco differenziato della classificazione WHO. Inoltre, considerato l’approccio semplice di questa classificazione, la definizione di Lauren ha trovato conforto nei dati epidemiologici, che hanno dimostrato la maggior prevalenza delle forme di “tipo intestinale” nelle regioni ad elevata incidenza di carcinoma gastrico (18) e dal differente pattern di diffusione metastatica, prevalentemente epatica per il carcinoma di “tipo intestinale” e la diffusione peritoneale (comprendente il tumore di Krukenberg) per il tumore “diffuso”. La possibilità che tumori a struttura ghiandolare e con cellule coesive (ovvero di tipo intestinale sec. Lauren) presentino un pattern di crescita di tipo infiltrante ha indotto Ming (22) a proporre una classificazione basata su questo tipo di diffusione. Questa classificazione distingue i carcinomi con crescita di tipo “espansivo” dai carcinomi di tipo “infiltrante”: i primi crescono longitudinalmente rispetto alle pareti dello stomaco, sostituendosi alle strutture proprie della parete gastrica e presentando una netta demarcazione periferica rispetto ai tessuti circostanti, mentre i secondi mostrano una crescita tentacolare che permea, ma non sostituisce le strutture invase ed i cui margini sono scarsamente definiti.
Per quanto sia la classificazione WHO sia quella di Lauren e quella di Ming siano utili per definire le caratteristiche microscopiche prevalenti del carcinoma gastrico, il loro contributo alla definizione prognostica è assai limitato. Alcuni studi hanno dimostrato ad esempio una peggiore prognosi per i carcinomi a cellule a sigillo rispetto a quelli tubulari e papillari sec. WHO ed una più elevata mortalità per i carcinomi diffusi (sec. Lauren) ed “infiltranti” (sec. Ming) rispetto a quelli di “tipo intestinale” ed a quelli “espansivi”, ma lo score       prognostico predittivo di tali classificazioni è generalmente ritenuto poco attendibile e certamente assai inferiore alla stadiazione sec. TNM.
Un tentativo di differenziare forme ad alta e bassa malignità è stato recentemente proposto da Solcia et al. (17,23,24) combinando aspetti strutturali e citologici. Vengono identificate alcune varianti istologiche a basso grado di malignità (carcinomi con ricco infiltrato linfoide CD8+ intra- o peri-tumorale, carcinomi tubulari ben differenziati, carcinomi muconodulari e carcinomi diffusi desmoplastici di basso grado) ed altre varianti con prognosi altamente sfavorevole (carcinomi anaplastici e mucinosi infiltrativi), che appaiono caratterizzate da un comportamento prognostico significativamente differente rispetto ai più comuni carcinomi a cellule coesive e di tipo diffuso “ordinari” (Figura 2).
Considerando pari a 1 l’hazard ratio delle forme a basso grado, quello dei carcinomi a cellule coesive e di tipo diffuso “ordinari” è risultato 6 volte e quello delle forme ad alto grado 17 volte maggiore. Per quanto tale proposta classificativa richieda ulteriori conferme e validazione, sia per quanto riguarda l’effettivo impatto prognostico sia per la reale consistenza numerica delle forme a basso ed alto grado di malignità, l’approccio di ricercare piccoli sottogruppi a comportamento biologico differente rispetto alle forme assai più comuni, cosiddette “ordinarie”, appare interessante.

Figura 2 Sopravvivenza in base alla classificazione in forme a bassa ed alta malignità, rispetto a quelle cosiddette “ordinarie”, a malignità intermedia
(da Solcia et al. 2009 mod.)

2.5 Il carcinoma in fase iniziale (Early Gastric Cancer)

I principali fattori che determinano la prognosi del carcinoma gastrico sono rispettivamente la presenza di metastasi linfonodali ed il livello di invasione della parete gastrica. L’EGC corrisponde ad una neoplasia confinata alla mucosa o che infiltra anche la sottomucosa, indipendentemente dalla presenza di metastasi linfonodali (25). Tuttavia, l’inclusione tra gli EGC dei casi con interessamento linfonodale è stata oggetto di critiche (26), in considerazione del fatto che il termine di EGC implica un’elevata curabilità, mentre i casi di EGC N+ mostrano sopravvivenze inferiori a quelle dei carcinomi T2N0 (27). L’EGC è caratterizzato da un tasso di sopravvivenza migliore rispetto al carcinoma avanzato, compreso tra 80% e 90%. Tuttavia, gli EGC che interessano la sottomucosa in profondità mostrano un comportamento biologico diverso rispetto alla generalità degli EGC, in termini di maggiore frequenza di metastasi linfonodale e di minore sopravvivenza. Per questo motivo, Kodama (8) ha proposto di suddividere gli EGC secondo una serie di caratteristiche istologiche che sono riassunte in Tabella 2: si distinguono carcinomi small mucosal e superficially spreading, la cui invasione è limitata alla mucosa o alla porzione superficiale della sottomucosa, e forme penetranti (Pen A e B), in cui l’invasione neoplastica interessa gli strati profondi della sottomucosa.

Tabella 2 Classificazione dell’EGC secondo le modalità di crescita

Tale classificazione è importante in quanto consente di distinguere e separare una variante di EGC (Pen A), il cui comportamento biologico è sostanzialmente diverso dagli altri. Gli EGC tipo Pen A mostrano infatti sia una maggiore frequenza di metastasi linfonodali rispetto agli altri EGC (37% vs 7%) sia una peggiore sopravvivenza: 74% e 67% a 5 e 10 anni, rispettivamente (28). La classificazione secondo Kodama (Pen) della neoplasia dovrebbe quindi essere descritta nel report istologico degli EGC.

2.6 Il ruolo dell’immunoistochimica nella definizione di HER2

Numerosi anticorpi sono stati utilizzati per studiare le caratteristiche differenziative (MUC 1-6, pepsinogeni, CAR-5, Cdx2, CD10 ecc.) e le alterazioni molecolari del carcinoma gastrico (p53, E-cadherina, β-catenina, Smad4, VEGF, ecc.); la variabile espressione di tali molecole ha consentito di conoscere meglio gli aspetti differenziativi e le alterazioni di espressione molecolare che caratterizzano la cancerogenesi gastrica (vedi cap. 4.0). Tuttavia, nessuno di essi ha sinora fornito dati realmente utilizzabili nella pratica clinica per una definizione prognostica e predittiva. Recentemente, è stato concluso uno studio clinico che ha dimostrato un significativo miglioramento della sopravvivenza libera da progressione per i pazienti che presentavano carcinomi gastrici o della giunzione esofago-gastrica con iperespressione e/o amplificazione di HER2 e sottoposti a terapia con Trastuzumab (29). L’iperespressione/amplificazione di HER2 è presente in una minoranza di carcinomi gastrici (circa il 20%), è limitata agli istotipi “intestinali” sec. Lauren (circa il 30%), essendo del tutto rara nel carcinoma di tipo diffuso (< 5%).
Avendo l’European Medicines Agency (EMEA) recentemente approvato l’uso di Trastuzumab nel carcinoma gastrico (30), è verosimile che la valutazione dello stato di HER2 rientrerà tra i requisiti richiesti per la valutazione diagnostica morfologico/molecolare del carcinoma gastrico, almeno nei casi in fase localmente avanzata o metastatica. I parametri per la valutazione dell’iperespressione di HER2 nel carcinoma della mammella sono ben codificati, invece quelli da utilizzare nel carcinoma gastrico sono attualmente in fase di definizione (31,32). Le principali differenze nelle modalità di valutazione del carcinoma dello stomaco rispetto a quello mammario sono legate alla maggiore eterogeneità dell’espressione di HER2 nello stomaco ed al fatto che la valutazione viene generalmente richiesta su biopsie endoscopiche, nei casi di carcinomi localmente avanzati o metastatici, con evidenti problematiche legate alla quantità di tessuto neoplastico disponibile ed al suo grado di espressione.
Attualmente, nella valutazione dell’espressione di HER2 viene utilizzato come criterio di positività una percentuale >= 10% di cellule neoplastiche positive, in campioni chirurgici, oppure un cluster >= 5 di cellule coese HER2-positive, in campioni bioptici.
A differenza del carcinoma mammario, le cellule HER2-positive del carcinoma gastrico presentano una colorazione di membrana di regola incompleta e limitata alle zone basolaterali. E’ stata recentemente pubblicata una serie di raccomandazioni pratiche per la valutazione dell’espressione di HER2 nello stomaco (32). Per la definizione di un caso HER2-positivo viene richiesto un elevato grado di espressione in immunoistochimica (+++) od un grado di espressione intermedia (++), confermato dall’amplificazione genica ovvero da un esame FISH positivo. In conclusione, la valutazione dello stato di HER2 richiede prima l’utilizzo dell’immunoistochimica e successivamente, solo in alcuni casi, la conferma con FISH. Il beneficio della terapia con Trastuzumab sembra limitato ai casi con espressione immunoistochimica +++ o con espressione ++ e positività alla FISH, ma non ai casi con positività alla FISH e senza una espressione significativa dell’immunoistochimica (29).

2.7 La valutazione della neoplasia intraepiteliale (displasia)

Il significato della neoplasia intraepiteliale (Non Invasive Neoplasia, NIN) o displasia nella storia naturale del carcinoma gastrico verrà trattato nel sottocap. 5.1. Con il termine di NIN ci si riferisce ad una proliferazione ghiandolare caratterizzata da atipie citologiche ed alterazioni strutturali, che non presenta aspetti invasivi nei confronti della tonaca propria (33,34). Gli aspetti istologici della NIN a livello gastrico ed i criteri per diagnosticarla non sono sostanzialmente differenti rispetto a quelli della NIN in altre sedi del tratto gastroenterico e, in particolare, rispetto alla displasia su esofago di Barrett ed alla displasia in corso di malattie infiammatorie croniche intestinali. Rispetto al colon-retto, in cui la displasia si presenta in prevalenza in forma polipoide/adenomatosa, la maggior parte delle NIN a livello gastrico si presenta in forma piatta. La NIN viene classificata in forme a basso ed ad alto grado: l’uso di tali categorie consente una maggiore riproducibilità diagnostica interosservatore (34). Per una corretta valutazione della NIN è necessario eseguire un campionamento bioptico multiplo secondo protocollo (35).

2.8 Adenocarcinoma della giunzione gastroesofagea

La maggioranza degli adenocarcinomi dello stomaco e dell’esofago hanno origine in contesti di malattia, che sono differenti in termini eziologici e patogenetici. Il carcinoma gastrico (distale) è, in genere, una complicazione dell’infezione da H.pylori e segue un percorso patogenetico, che prevede la sequenza gastrite-atrofia-metaplasia intestinale-displasia. Tale sequenza è caratteristica del carcinoma di tipo “intestinale” sec. Lauren e meno frequente nel carcinoma di tipo “diffuso”. Al contrario, l’adenocarcinoma dell’esofago rappresenta di regola una complicanza della malattia da reflusso gastroesofageo e si sviluppa secondo una sequenza che prevede la comparsa di metaplasia colonnare (esofago di Barrett) e di displasia.
Mentre la letteratura è ragionevolmente chiara nel definire in termini differenziali l’adenocarcinoma dell’esofago tubulare rispetto a quello dello stomaco, essa diventa assai più confusa nel caso dell’adenocarcinoma della giunzione gastroesofagea ovvero del tumore che origina in prossimità del cardias e spesso si estende all’esofago distale e/o allo stomaco sottocardiale. Lo stesso termine di “adenocarcinoma della giunzione gastroesofagea” sottolinea la nostra incapacità di definire l’esatta sede della neoplasia e la confusione è conseguente ai diversi criteri utilizzati da anatomici, radiologi, gastroenterologi e chirurghi nel definire la giunzione gastroesofagea. La Classificazione Internazionale delle Malattie (36) include l’adenocarcinoma della giunzione gastroesofagea tra le neoplasie dello stomaco: ne consegue che un certo numero di neoplasie che insorgono nella parte più distale dell’esofago vengano erroneamente classificate come carcinomi dello stomaco; questo comporta una sottostima della reale prevalenza dell’adenocarcinoma esofageo. Al contrario, i più recenti criteri di stadiazione del TNM (6) includono gli adenocarcinomi della giunzione tra i tumori dell’esofago e li definisce come quei tumori “il cui epicentro è localizzato entro 5 cm dalla giunzione e che si estendono all’esofago”. I tumori dello stomaco il cui epicentro dista più di 5 cm dalla giunzione e quelli che distano meno di 5 cm dalla giunzione, ma non si estendono all’esofago distale, non vengono più considerati della giunzione gastroesofagea, ma classificati e stadiati come carcinomi dello stomaco.
I dati epidemiologici e morfologici dimostrano che la maggior parte degli adenocarcinomi della giunzione gastroesofagea presenta elementi che li accomunano all’adenocarcinoma dell’esofago. Nelle ultime decadi, i tumori della giunzione hanno mostrato un incremento di incidenza simile a quello dell’adenocarcinoma esofageo ed opposto a quello del carcinoma gastrico, che risulta invece in diminuzione (37). Uno studio di popolazione condotto in Svezia ha dimostrato che i carcinomi della giunzione mostrano una significativa associazione con i sintomi della malattia da reflusso (5) ed analoghi risultati provengono dagli Stati Uniti (38); inoltre, più dell’85% dei tumori della giunzione non si associa ad infezione da H. pylori e metaplasia intestinale dello stomaco (39). La maggior parte dei carcinomi della giunzione presenta una differenziazione ghiandolare, mentre i carcinomi a cellule non-coese/a sigillo sono poco comuni a tale livello rispetto alla loro prevalenza nello stomaco distale (2).
La classificazione proposta da Siewert (40) distingue tre tipi di adenocarcinomi della giunzione: il tipo I interessa l’esofago distale ed insorge su esofago di Barrett, il tipo II è limitato alla regione cardiale ovvero ristretto alla giunzione esofago-gastrica ed il tipo III insorge nella regione sottocardiale e si estende alla giunzione ed all’esofago distale. Per quanto non siano state dimostrate significative differenze morfologiche o molecolari tra i tre diversi tipi, si ritiene che le neoplasie di tipo I richiedano un approccio chirurgico analogo al carcinoma esofageo, mentre quelle di tipo II e III siano da considerare come neoplasie proprie dello stomaco (41).
In conclusione, allo stato attuale le somiglianze tra l’adenocarcinoma dell’esofago e quello della giunzione sono largamente superiori rispetto alle differenze; non sono inoltre note alterazioni molecolari che consentano di delineare un pattern specifico dell’adenocarcinoma della giunzione gastroesofagea rispetto alle neoplasie dello stomaco e dell’esofago (2,3).

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SCREENING

3.1 Incidenza e mortalità
3.2 Screening per il CG
3.3 Screening nei Paesi ad alta incidenza di CG
3.4 Screening nei Paesi a bassa incidenza di CG

3.1 Incidenza e mortalità

Il carcinoma gastrico (CG) costituisce tuttora un importante problema di Sanità Pubblica in vari Paesi, nonostante la notevole e diffusa riduzione dell’incidenza registrata negli ultimi anni (1) (vedi cap. 1.0).
L’alta mortalità del CG è legata alla storia naturale della malattia, con manifestazioni cliniche che si evidenziano solo tardivamente, in uno stadio spesso già avanzato, quando l’estensione loco-regionale e/o la metastatizzazione a distanza rendono la malattia inoperabile. In questi casi, le terapie al momento disponibili (chirurgia e/o chemioterapia) hanno un impatto modesto sulla prognosi. La sopravvivenza a 5 anni è del 10-20% (2), mentre nei casi in cui la malattia è diagnosticata in uno stadio iniziale il tasso di sopravvivenza a 5 anni è > 90% (3).
Pertanto, solo la diagnosi di tumori in uno stadio iniziale, cioè quando sono ancora confinati alla mucosa od infiltrano anche la sottomucosa (Early Gastric Cancer), offre la possibilità di adottare trattamenti terapeutici realmente curativi. Sono disponibili, attualmente, anche metodiche quali la resezione endoscopica della mucosa o la dissezione endoscopica della sottomucosa, che assicurano una sopravvivenza elevata nelle casistiche giapponesi. D’altra parte, l’identificazione dell’infezione da Helicobacter pylori quale fattore di rischio per lo sviluppo del CG offre la possibilità di nuove strategie di prevenzione primaria (4).

3.2 Screening per il CG

In generale, un programma di screening efficace nel ridurre morbilità e mortalità di una specifica malattia dovrebbe avere le seguenti caratteristiche: 1) la malattia dovrebbe avere un’alta prevalenza nella popolazione con importanti conseguenze in termini di salute pubblica ed essere caratterizzata da un periodo asintomatico, durante il quale è possibile la diagnosi; 2) dovrebbe essere disponibile un test diagnostico sufficientemente sensibile da individuare la malattia durante il periodo asintomatico, sufficientemente specifico da minimizzare i falsi-positivi e, inoltre, non invasivo, semplice e ben tollerato dai soggetti da sottoporre allo screening; 3) dovrebbe infine essere disponibile un efficace trattamento terapeutico.
Nel caso del CG, queste diverse condizioni non sono pienamente rispettate nelle diverse aree del mondo e, pertanto, gli screening di popolazione non appaiono essere un approccio praticabile per la prevenzione di questa neoplasia, soprattutto nelle popolazioni “a basso rischio” di CG (5). Dall’altra parte, risulta essere più appropriato uno screening selezionato, in specifici gruppi di soggetti considerati “ad alto rischio” di sviluppare il CG oppure lo screening ed il trattamento dell’infezione da H.pylori nelle popolazioni ad alta incidenza di CG (5).
Nel 2007, la terza Consensus Conference sull’infezione da H.pylori tenutasi a Maastricht (Olanda) ha concluso che l’eradicazione dell’infezione ha la potenzialità di ridurre il rischio di sviluppare il CG, ha indicato le categorie di soggetti a rischio ed ha puntualizzato la necessità di identificare il periodo migliore per l’eradicazione, possibilmente prima dello sviluppo delle lesioni precancerose (6). Nel 2008, sono state pubblicate le linee guida dell’Asian-Pacific Consensus Conference sulla prevenzione del CG, tenutasi a Bangkok (Thailandia), che indicano quale strategia per la riduzione del rischio di CG lo screening e l’eradicazione dell’infezione da H.pylori nelle popolazioni “ad alto rischio”, soprattutto prima che si siano sviluppate lesioni precancerose. Tale strategia può essere raccomandata anche nelle popolazioni “a rischio intermedio” di CG (Malesia, Singapore, Taiwan), mentre non è indicata per le popolazioni “a basso rischio” (7).
Risulta quindi evidente un diverso approccio riguardo alle possibilità di attuare un programma di prevenzione secondaria del CG, a seconda che si operi in una Paese ad alta incidenza, come Giappone e Corea od in un Paese a bassa incidenza, come l’Europa Occidentale.

3.3 Screening nei Paesi ad alta incidenza di CG

In Giappone, al fine di ridurre i tassi di incidenza e mortalità del CG, è in atto sin dagli anni ’60 un programma di screening di popolazione basato sull’esame radiologico con mezzo di contrasto, la foto-fluorografia (8). Nel 1983, tale programma è stato esteso a tutti gli individui con età > 40 anni. L’efficacia di tale metodica è stata confermata negli anni passati da alcuni studi caso-controllo e di coorte (Tabella 1), che hanno evidenziato una riduzione specifica per CG nel gruppo sottoposto a screening.

Tabella 1 Studi epidemiologici condotti in Giappone sull’efficacia dello screening del CG mediante l’esame radiologico dello stomaco

La sensibilità della foto-fluorografia, valutata sulla base dei dati ottenuti dai Registri Tumori locali, variava dal 60% all’80%, mentre la specificità era dell’80-90%. La sopravvivenza a 5 anni dei pazienti con diagnosi di CG era del 74-80% nel gruppo sottoposto a screening, del 46-56% del gruppo non sottoposto a screening (8). Due recenti studi di coorte hanno confermato l’efficacia della foto-fluorografia in termini di riduzione della mortalità specifica per CG e riduzione dell’incidenza di tumori in fase avanzata (9,10). Comunque, è da tenere presente che l’esame radiologico presenta alcuni svantaggi, in particolare l’esposizione a radiazioni ionizzanti con conseguente rischio, seppure basso, di indurre altri tumori (ad esempio, leucemia) e la necessità di personale tecnico specializzato ed altamente preparato. Infine, l’alta sensibilità riportata nei vari studi epidemiologici era riferita solitamente a tumori in fase avanzata, mentre quella per i tumori in fase iniziale era piuttosto bassa (circa 40%).
In anni recenti, in alcune aree del Giappone, l’esame radiologico dello stomaco è stato sostituito dall’esame endoscopico quale metodica di screening di popolazione (11). L’endoscopia con annesso campionamento in specifiche sedi della mucosa gastrica è considerata una metodica preferibile alla radiografia, in quanto permette una visualizzazione diretta del lume gastrico e la diagnosi di lesioni cancerose protrudenti od incavate, presenta un più alto tasso di individuazione di tumori in fase iniziale e, quindi, una maggiore sensibilità. D’altra parte, l’esame endoscopico risulta più costoso (circa 4 volte) rispetto all’esame radiologico, richiede l’impegno di personale tecnico specializzato ed esperto ed è, soprattutto, un esame invasivo non sempre ben tollerato e con possibili complicanze, che possono richiedere il ricovero ospedaliero (12).
Pochi sono gli studi disponibili ad oggi che riportino un’effettiva riduzione della mortalità per CG in seguito allo screening endoscopico (13,14). Pertanto, l’endoscopia non è al momento raccomandata in Giappone quale metodica di screening di popolazione (8) ed infatti non esiste un programma di screening endoscopico esteso all’intera Nazione (12).
In Corea, il programma di screening endoscopico è risultato essere più efficace che in Giappone grazie al maggior tasso di individuazione di tumori in fase iniziale rispetto all’esame radiologico ed il relativo basso costo dell’esame (12). Dal 1999, è in atto un programma di screening per individui con età > 40 anni, che raccomanda un esame biennale radiologico od endoscopico. Una recente indagine ha riportato la preferenza della popolazione censita per l’endoscopia come metodo di screening (15). Rispetto al Giappone, in Corea c’è un alto numero di esperti endoscopisti, membri della Società Coreana di Endoscopia Gastrointestinale e si ritiene che l’esame endoscopico venga effettuato con maggiore diligenza ed accuratezza. L’endoscopia viene così ritenuta più efficace dell’esame radiologico in termini di diagnosi di tumori in fase iniziale, nonostante il rischio di falsi positivi, che comporta un successivo non necessario approfondimento diagnostico-terapeutico e quello di una sovra-diagnosi, con conseguente trattamento di tumori che, in assenza dello screening, non sarebbero stati diagnosticati (12). Nonostante sia un esame altamente efficace, l’endoscopia non raggiunge comunque una sensibilità del 100%. Non sono ancora disponibili per la Corea dati relativi all’efficacia a lungo termine dello screening endoscopico. Si è comunque registrata nell’ultima decade una diminuzione dell’incidenza e della mortalità per CG, ma, nonostante ciò, lo screening per il CG continua a rappresentare in questo Paese un problema di sanità pubblica, a causa della persistenza di elevati tassi di incidenza e mortalità.
Recentemente, sono state sviluppate nuove metodiche di endoscopia, più accurate rispetto all’esame endoscopico standard. Questo, infatti, può presentare alcuni limiti nella diagnosi e nella localizzazione di alcune lesioni preneoplastiche e di minute lesioni neoplastiche in stadio iniziale. Nuove metodiche, quali l’endoscopia a magnificazione od ad alta risoluzione o la cromoendoscopia, si sono rivelate superiori all’esame endoscopico standard nell’identificazione di lesioni precancerose o di piccole lesioni maligne, stimandone l’esatta localizzazione ed estensione superficiale e l’aspetto macroscopico (16,17). Non sono ancora disponibili dati da studi clinici randomizzati, che ne confermino l’effettiva superiorità.
In anni recenti, la misurazione della concentrazione sierica di Pepsinogeno (PG) è stata valutata in termini di test di screening per il CG. Il test del PG è basato sulle correlazioni esistenti tra gastrite cronica atrofica e sviluppo del CG, da una parte e tra gastrite cronica atrofica e bassi livelli di PG, dall’altra. E’ noto che i livelli sierici di PG riflettono lo stato funzionale e morfologico della mucosa gastrica. Nel corso della gastrite cronica atrofica, man mano che si riduce la massa delle ghiandole della mucosa fundica (produttrici del PGI), i livelli di PGI diminuiscono gradualmente, mentre quelli di PGII rimangono elevati e, di conseguenza, si riduce il rapporto PGI/PGII. La progressiva riduzione di tale rapporto viene considerato strettamente correlato con la progressione mucosa gastrica normale → atrofia gastrica estesa (18). Sin dal 1990, il test del PG quale marker di gastrite cronica       atrofica è stato introdotto in Giappone nei programmi di screening per il CG al fine di identificare i soggetti “ad alto rischio” che potrebbero maggiormente beneficiare dello screening endoscopico. Vari studi, negli anni passati, hanno suggerito che il test del PG potrebbe essere utile nella diagnosi di CG in fase iniziale. Una recente meta-analisi condotta su 42 studi individuali, che utilizzano il test del PG, ha concluso che i valori soglia di PGI <= 70 ng/ml e PGI/PGII <= 3 hanno una sensibilità dell’80% ed una specificità del 70% (19). Tali valori cut-off sono attualmente ampiamente utilizzati in Giappone ed il test del PG è comunemente utilizzato non tanto come metodica di screening per il CG quanto per identificare soggetti con estesa atrofia gastrica e, quindi, “ad alto rischio” di sviluppare il CG (18). Il test può essere utile nella diagnosi di piccoli tumori asintomatici, di morfologia non ulcerata, ben differenziati dal punto di vista istologico ed a sede disparata, che risultano essere difficilmente individuabili con gli esami standard (radiologia e/o endoscopia) (19). Peraltro, questo test risulta essere più semplice, meno pericoloso e più economico rispetto agli altri metodi diagnostici. D’altra parte, però, esso non risulta efficace nella diagnosi di tumore con assente o lieve atrofia gastrica o nei casi di tumore ad origine pilorica, inclusi quelli in stadio avanzato.
Pertanto, soggetti sintomatici o negativi al test del PG dovrebbero essere ulteriormente controllati con altri metodi (radiologia e/o endoscopia). Infine, il test del PG potrebbe risultare utile per lo screening di soggetti positivi all’infezione da H.pylori, che risultano essere a maggior rischio di sviluppare il CG per l’alta prevalenza di lesioni precancerose (atrofia gastrica, metaplasia intestinale) (20). Soltanto uno studio, peraltro criticato per alcuni suoi limiti (selection bias), ha riportato una riduzione della mortalità specifica per CG utilizzando il test del PG (21). Recentemente, sono stati pubblicati alcuni studi che hanno dimostrato l’efficacia del test del PG da un lato quale metodo di screening in termini di un alto tasso d’individuazione di CG insieme ad un’alta proporzione di tumori in fase iniziale (22) e dall’altro quale metodo di pre-screening per individuare selezionati gruppi di soggetti “ad alto rischio” di sviluppare il CG (23,24).
Il ruolo causale dell’H.pylori nello sviluppo del CG è supportato da evidenze epidemiologiche e cliniche (4). Negli anni passati, l’associazione tra H.pylori e CG è stata ben definita (25,26). Recentemente, uno studio caso controllo nested nell’ambito di un ampio studio prospettico europeo (EPIC) ha confermato la relazione causale tra l’infezione da H.pylori, in particolare di ceppi CagA (Cytotoxic associated gene-A) positivi, e lo sviluppo di CG anche in popolazioni europee (27). D’altra parte, già nel 1994 l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro di Lione (IARC) aveva classificato l’H.pylori tra i cancerogeni di gruppo I. Una recente meta-analisi su 7 studi randomizzati, tutti condotti in aree ad alta incidenza di CG, perlopiù in Asia, ha suggerito che l’eradicazione dell’infezione da H.pylori riduce il rischio di tumore gastrico (28). Questa meta-analisi prende in considerazione due diversi outcomes a seconda dello studio in esame (incidenza del CG e progressione di lesioni precancerose). Questo risultato supporta comunque le linee-guida internazionali del 2008 stipulate dall’Asian-Pacific Consensus Conference, che indicano quale strategia per la riduzione del rischio di CG lo screening e l’eradicazione dell’infezione da H.pylori nelle popolazioni “ad alto rischio”, soprattutto prima che si siano sviluppate lesioni precancerose (7). Il potenziale effetto dell’eradicazione dell’infezione da H.pylori nel ridurre il rischio di CG può essere considerato indirettamente dagli studi che hanno valutato il suo effetto sulle lesioni precancerose, sebbene in alcuni casi si abbiano risultati contrastanti e direttamente dagli studi che hanno invece valutato il suo effetto sullo sviluppo del CG (Tabella 2) (7).

Tabella 2 Studi epidemiologici sull’efficacia dell’eradicazione dell’infezione da H.pylori sull’incidenza di CG e/o sulla progressione di lesioni precancerose

I risultati contrastanti degli studi sulla reversibilità delle lesioni precancerose sono in parte dovuti al fatto che alcuni di essi sono studi non randomizzati, non controllati, con un breve periodo di follow-up e con un limitato numero di pazienti. Comunque, il dato certo è che, una volta che si sono sviluppate specifiche lesioni precancerose (atrofia gastrica, metaplasia intestinale), la prevenzione dell’ulteriore progressione tramite l’eradicazione dell’H.pylori è meno probabile. L’eradicazione dell’infezione non garantisce la prevenzione dello sviluppo del tumore nei pazienti con avanzate lesioni precancerose, il CG può ancora svilupparsi, nonostante il successo della terapia eradicante. Ciò suggerisce che probabilmente esiste nella cancerogenesi gastrica un “punto di non ritorno”, oltre il quale l’eradicazione dell’H.pylori è inefficace nel prevenire la progressione a tumore (4,7). Questo aspetto è stato recentemente confermato in uno studio longitudinale condotto in Giappone, che ha riportato il non beneficio dell’eradicazione dell’H.pylori nel prevenire lo sviluppo del CG in una coorte di soggetti con lesioni precancerose, come la gastrite cronica atrofica (20). I soggetti con gastrite cronica atrofica rimangono ad alto rischio di sviluppare il CG anche dopo la completa eradicazione e, pertanto, potrebbero costituire il target di un successivo e regolare programma di follow-up (endoscopico) per un periodo di almeno 10 anni, considerando che la regressione di lesioni precancerose come l’atrofia gastrica o la metaplasia intestinale è un processo molto lento, che richiede numerosi anni liberi dall’infezione dopo l’eradicazione del batterio (29).

3.4 Screening nei Paesi a bassa incidenza di CG

I programmi di screening rivolti alla popolazione generale, come quelli utilizzati in Giappone o Corea, non sono attuabili in Paesi a bassa incidenza di CG, a causa degli elevati costi previsti e della scarsa efficacia in rapporto ai bassi tassi d’incidenza esistenti in queste aree. Già negli anni ’90, l’UICC (Unione Internazionale per la lotta Contro il Cancro) suggeriva che i programmi di screening per CG fossero attuati nei Paesi ad alta incidenza di CG, ma non potevano essere raccomandati in termini di programmi di sanità pubblica nei Paesi a bassa incidenza (30). Il Programma della Comunità Europea del 2003 “Europa contro il Cancro” riportava che non c’erano evidenze certe per supportare lo screening radiologico e/o endoscopico per il CG nei Paesi a basso rischio (European Code Against Cancer, 2003). Nel 2007, a Maastricht è stato affrontato il problema della prevenzione del CG mediante l’eradicazione dell’infezione da H.pylori (6). I dati sull’efficacia dell’eradicazione dell’infezione da H.pylori sull’incidenza di CG provengono da studi condotti su popolazioni dell’Est asiatico con alti tassi d’incidenza del CG. L’evidenza scientifica suggerisce che in queste popolazioni l’approccio screen and treat ha un impatto favorevole sulla riduzione dell’incidenza del CG e risulta efficace, anche in termini economici, in confronto a quanto previsto nelle popolazioni con bassa incidenza di CG (4). Peraltro, tale approccio può risultare efficace in termini di salute pubblica considerando anche la possibile riduzione di sintomi dispeptici e della malattia peptica (4,7). Una strategia simile, effettuata in una popolazione che ha già una bassa incidenza di CG, non risulterebbe efficace e comporterebbe notevoli spese di gestione. In termini di costi/efficacia si rivelerebbe       sicuramente una strategia di bassa qualità (4).
Pertanto, al momento attuale l’approccio screen and treat è raccomandato soltanto nei Paesi ad alta incidenza di CG. Invece, non è raccomandato con lo scopo di diminuire la già bassa incidenza nelle popolazioni a basso rischio (4,7).
Rimane ancora incerto il cut-off di età per dare inizio al trattamento per l’eradicazione dell’infezione da H.pylori e prevenire il CG (7). La scelta di uno specifico cut-off per lo screening di popolazione dovrebbe dipendere da una parte da considerazioni etiche e dall’altra dalle risorse locali e dai fondi disponibili. L’infezione si acquisisce principalmente durante l’infanzia sia nei Paesi industrializzati sia in quelli in via di sviluppo e persiste per tutta la vita, se non trattata (6). Un trattamento in giovane età (intorno ai 20 anni) risulterebbe efficace in termini di riduzione del rischio di CG, mentre non lo sarebbe se effettuato ad un’età più avanzata (4). Per confermare tali stime e verificare l’effettiva efficacia dell’eradicazione dell’infezione in specifici range di età sarebbero necessari studi prospettici randomizzati su ampia scala, che tuttavia sono di difficile realizzazione a causa di vari problemi (logistici, metodologici, finanziari e soprattutto etici). D’altra parte, metà della popolazione mondiale risulta positiva all’H.pylori, ma soltanto pochi soggetti sviluppano il tumore. Pertanto, una massiva campagna di eradicazione dell’H.pylori non è realizzabile né consigliabile.
Secondo le recenti Linee Guida Europee (6), l’eradicazione dell’infezione da H.pylori è fortemente raccomandata in gruppi selezionati di individui, tra cui soggetti con malattie gastroduodenali, come ulcera peptica e linfoma MALT, soggetti con atrofia gastrica e parenti di primo grado di pazienti affetti da CG.
La strategia screen and treat dovrebbe pertanto focalizzarsi, anche all’interno di popolazioni a basso rischio di CG, su gruppi selezionati di individui che possono essere considerati ad un rischio più elevato di sviluppare il tumore a causa di concomitanti fattori individuali quali, ad esempio, la storia familiare o la coesistenza di specifiche lesioni come l’atrofia gastrica e che potrebbero quindi beneficiare della terapia eradicante. In tal senso, la valutazione di questi diversi parametri (storia familiare, infezione da H.pylori, atrofia gastrica) potrebbe essere utilizzata in programmi di prevenzione e diagnosi precoce (radiologia, test del PG, approccio screen and treat) per selezionare gruppi ben definiti di individui ad alto rischio da avviare ad esami più approfonditi quali l’esame endoscopico.

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STORIA NATURALE E QUADRO CLINICO

5.1 Storia naturale e fattori prognostici
5.2 Quadro clinico

5.1 Storia naturale e fattori prognostici

Il carcinoma gastrico in fase avanzata (CGA) è una delle neoplasie del tratto gastroenterico sensibili alla chemioterapia con un tasso di risposte globali di oltre il 50-60%, con un tempo mediano alla progressione (TTP) di 4-5 mesi ed una sopravvivenza mediana che non supera i 7-10 mesi. Solo il 10% ed il 5% dei pazienti sono vivi rispettivamente a 12 e 24 mesi. La prognosi della malattia metastatica e localmente avanzata è differente, con una mediana di sopravvivenza di 7-10 e di 12-15 mesi, rispettivamente (1-4).
La resezione chirurgica della neoplasia primitiva nei pazienti con malattia metastatica potrebbe essere considerata in alcuni casi chirurgia palliativa allo scopo di controllare l’evoluzione della malattia, piuttosto che curare i pazienti. Meno del 50% dei pazienti con malattia metastatica riceve una chirurgia di tipo palliativo e nei pazienti che non ricevono una chirurgia palliativa, la sopravvivenza mediana si riduce di circa 2/3 (5).
Alcuni Autori hanno riportato una sopravvivenza mediana di 9.7 mesi per i pazienti sottoposti a resezione gastrica palliativa e di 7.6 mesi in quelli non resecati (p<0.001) (6).
Molti studi hanno valutato i fattori prognostici nei pazienti con carcinoma gastrico in fase precoce, ma pochi in quelli con CGA.
I pricipali fattori prognostici negativi di sopravvivenza sono considerati il Performance Status (PS), perdita di peso, presenza di malattia misurabile e di masse addominali, vomito, anoressia, ripresa locale di malattia, metastasi epatiche, presenza di sedi metastatiche multiple, leucocitosi, leucopenia, linfopenia, ipoprotidemia e livelli elevati di CEA.
Chau et al. hanno effettuato un’analisi su 1.080 pazienti affetti da CGA per analizzare i fattori prognostici, identificandone quattro negativi: PS >= 2, metastasi epatiche, peritoneali e fosfatasi alcalina >= 100 U/L. Sulla base di tali fattori, è stato costruito un indice prognostico (Royal Marsden Hospital Prognostic Index), che consente di distinguere tre gradi di rischio: basso (senza fattori di rischio), moderato (con 1 o 2 fattori di rischio), alto (con 3 o 4 fattori di rischio). Per i tre sottogruppi di rischio, la sopravvivenza mediana ad un anno è stata rispettivamente del 48.5, 25.7 e 11%. La sopravvivenza globale è stata di 7.9 mesi e per i vari sottogruppi di 11.8, 7.4, e 4.1 mesi, rispettivamente. Inoltre, i pazienti che presentavano metastasi peritoneali, PS >= 2 e fosfatasi alcalina >= 100 U/L mostravano ridotte possibilità di risposta alla chemioterapia. Questo indice prognostico dovrebbe essere usato in futuro in studi di fase III e nelle analisi decisionali (7,8).
Recentemente, il Royal Marsden Hospital Prognostic Index è stato validato sull’analisi di 905 pazienti (90%) dello studio REAL-2.
La fosfatasi alcalina > 100 U/L è risultata essere un fattore prognostico negativo (p=0.005) all’analisi univariata e perdeva di significato all’analisi multivariata, mentre gli altri tre fattori prognostici (PS >= 2, metastasi epatiche e peritoneali) assumevano valore altamente significativo. La mediana di sopravvivenza era rispettivamente di 13.6 mesi nei pazienti a basso rischio, 9.5 mesi in quelli a rischio intermedio e 5.1 mesi in quelli a rischio elevato. L’associazione dei risultati dello studio REAL-2 con la precedente analisi combinata (2.082 pazienti: di questi, 1.721 provvisti di tutti i quattro i fattori prognostici) ha confermato una differenza significativa in sopravvivenza fra i tre gruppi di rischio, in accordo con l’indice prognostico con una mediana di sopravvivenza per i tre gruppi di 12.7, 8.6 e 4.3 mesi, rispettivamente (9). Questi dati confermano il valore e la riproducibilità dell’indice prognostico del Royal Marsden Hospital nel CGA. Lee et al. hanno valutato un modello prognostico di sopravvivenza in uno studio retrospettivo su 1.455 pazienti con cancro gastrico metastatico (6).
Nell’analisi multivariata, il PS (ECOG 2-4), la non precedente gastrectomia, il numero dei leucociti, l’albumina, la fosfatasi alcalina, la calcemia, l’ascite, la malattia misurabile e le metastasi ossee e midollari influenzavano negativamente, in modo statisticamente significativo, la sopravvivenza. Il modello di Cox è stato usato per definire i fattori indicativi di breve sopravvivenza. L’assenza di precedente gastrectomia, l’albumina < 3.6 g/dL, la fosfatasi alcalina > 85 U/L, ECOG PS >= 2, la presenza di metastasi ossee ed ascite sono risultati tutti fattori significativi di più bassa sopravvivenza. Inoltre, gli Autori hanno definito tre gruppi di pazienti: quelli a basso rischio (senza o con 1 fattore di rischio), a rischio intermedio (da 2 a 4 fattori di rischio) ed ad alto rischio (con 5 o 6 fattori di rischio). La sopravvivenza mediana per ciascun gruppo era rispettivamente di 12.5, 7 e 2.5 mesi. I pazienti ad alto rischio presentavano un rischio quadruplicato di morte. I tassi di sopravvivenza ad un anno erano rispettivamente del 52.4%, 27.3% e 8.9%. La presenza di metastasi ossee rappresentava un fattore prognostico indipendente ed i pazienti con metastasi ossee avevano una sopravvivenza mediana di 4 mesi verso gli 8.7 mesi osservata nei pazienti che non avevano metastasi ossee. Questo studio, rispetto a quello di Chau, ha molti potenziali vantaggi, quali l’omogeneità della valutazione clinica, radiologica e patologica ed il fatto che includeva il 97% di pazienti con malattia metastatica e solo lo 0.5% con malattia esofago-gastrica.
Un altro aspetto ancora poco chiaro relativo ai pazienti affetti da CGA ed in trattamento chemioterapico di prima linea è la relazione esistente fra la risposta tumorale e la prognosi intesa come TTP e sopravvivenza.
Ichikava et al. hanno analizzato l’influenza della risposta globale sulla prognosi della malattia, intesa come TTP e sopravvivenza, durante la chemioterapia di prima linea. In questa analisi, in cui sono stati valutati 25 studi clinici, non è emersa un’evidenza conclusiva della risposta tumorale sulla prognosi del CGA metastatico. Nei pazienti che ricevevano nuovi farmaci (Taxani, Irinotecan, Oxaliplatino) non si osservava alcuna associazione fra risposta globale e sopravvivenza, mentre una moderata correlazione esisteva tra risposta globale e TTP. Nel gruppo trattato con farmaci convenzionali, la risposta globale era moderatamente correlata al TTP ed alla sopravvivenza. Tuttavia, gli Autori concludono auspicando studi futuri con nuovi farmaci (10). Recentemente, Pozzo et al. (11), all’interno del progetto GASTRIC, in una meta-analisi condotta su 3.619 pazienti affetti da CGA metastatico per identificare fattori prognostici, hanno osservato che la sopravvivenza è particolarmente influenzata dal PS, dall’estensione di malattia al momento della presentazione, dal numero e tipo di localizzazioni metastatiche.
Un fattore ancora controverso, ma presente in circa il 9-38% dei pazienti, è rappresentato dalla iperespressione di HER-2 (12), che sembrerebbe essere associata più frequentemente al tipo istologico della variante intestinale sec. Lauren (13) (vedi cap. 4.0), alla localizzazione gastroesofagea (24-32%) piuttosto che gastrica (9.5-18%) (12) ed alla presenza di metastasi epatiche (14). Recentemente, è stato pubblicato lo studio ToGA (15), che ha valutato positivamente l’aggiunta dell’anticorpo monoclonale anti-HER-2 (Trastuzumab) ad una chemioterapia con fluoropirimidine, con un incremento del tasso di risposte globali e della progressione libera da malattia (vedi sottocap. 15.2).

Istogenesi
Le variazioni istologiche attraverso le quali si sviluppa il carcinoma gastrico sono estremamente complesse. Le conoscenze attuali sui precursori del carcinoma di tipo intestinale-espansivo consentono di ricostruirne l’istogenesi, confermando nella maggior parte dei casi la sequenza atrofia-metaplasia-displasia-neoplasia.
Per quanto concerne il carcinoma diffuso-infiltrativo, sono stati compiuti vari tentativi allo scopo di verificarne i precursori (displasia globoide e distorsioni citoarchitetturali) (16,17), ma non si è in possesso di dati sicuri. In questo capitolo, saranno prese in considerazione le modificazioni istologiche e strutturali che portano alla formazione del carcinoma intestinale, passando attraverso i processi di metaplasia e displasia.

a) Metaplasia
Nelle normali ghiandole gastriche mucose, il compartimento cellulare proliferativo è situato nella regione del colletto, subito al di sotto della superficie delle foveole (18). Le modifiche metaplasiche precoci si verificano in questa zona e si estendono dapprima alle cellule della base e, progressivamente, a tutte le altre cellule della ghiandola provocandone l’iperplasia. La metaplasia è caratterizzata dalla sostituzione delle cellule epiteliali gastriche di tipo ghiandolare e di superficie con cellule simili a quelle della mucosa intestinale. La sua frequenza aumenta con l’età ed interessa soprattutto l’area pilorica, mentre si presenta in forma molto grave a livello del fondo nei portatori di anemia perniciosa. La metaplasia intestinale viene attualmente divisa in due tipi: completa (o di tipo I), se sono presenti tutti gli enzimi contenuti normalmente nella mucosa intestinale ed incompleta (o di tipo II), se è presente solo una limitata quantità degli stessi enzimi.

b) Displasia
Poco si conosce su come s’instaura e si sviluppa la displasia e quali fattori cancerogeni siano coinvolti in questo processo. Per porre diagnosi di carcinoma intramucoso è richiesta l’invasione della lamina propria da parte di cellule neoplastiche. E’ verosimile che l’induzione al cambiamento in senso neoplastico sia incrementata dallo stato iperproliferativo indotto dalla metaplasia intestinale (19). Istologicamente, la displasia è per lo più di tipo adenomatoso: le ghiandole displasiche possono presentarsi in forma piatta o protrudere verso il lume, formando polipi adenomatosi. La displasia è ritenuta una lesione dinamica, con caratteristiche evolutive dai gradi lievi a quelli più severi (20). Viene classificata in due gradi (basso ed alto grado) in base alla severità delle alterazioni citologiche ed architetturali (21,22).

c) Trasformazione ed evoluzione neoplastica
Generalmente, la neoplasia si sviluppa su un’area molto vasta coinvolgendo simultaneamente un ampio numero di strutture ghiandolari della mucosa senza una vera diffusione attraverso la parete (23). L’inizio dell’istogenesi in senso neoplastico ha luogo nella zona proliferativa delle ghiandole gastriche, situata nel colletto, in cui avvengono le prime modificazioni in senso metaplasico e displasico.
Nel caso del carcinoma intestinale-espansivo, il tumore si sviluppa in ghiandole gastriche con marcati segni di atrofia e, soprattutto, di metaplasia intestinale e la zona proliferativa si estende inizialmente verso la base della ghiandola, interessandola successivamente in modo completo. L’infiltrazione inizia nella zona proliferativa con estensione all’esterno della ghiandola, verso lo stroma, le ghiandole adiacenti e la lamina propria. L’infiltrazione della membrana basale segna il passaggio da carcinoma preinvasivo a carcinoma intramucoso (24). Alcuni tumori a crescita espansiva sono caratterizzati da un denso infiltrato infiammatorio stromale con costituzione di follicoli linfatici e centri germinativi, che s’intersecano con nidi di cellule neoplastiche, ascrivendo una prognosi particolarmente favorevole per queste varianti istologiche (25).
Nel caso del carcinoma indifferenziato lo sviluppo della neoplasia avviene sempre nella zona proliferativa, ma a carico dell’istmo della ghiandola, in quanto non è presente la metaplasia intestinale e l’iperplasia dell’epitelio rigenerativo. L’espansione del tumore avviene sempre nella zona proliferativa con tendenza delle ghiandole ad anastomizzarsi fra loro. Le cellule sono estremamente indifferenziate, con ampi nuclei e Figure mitotiche (26,27). Anche in questo caso, l’infiltrazione della membrana basale avviene in modo precoce e massivo e, molto spesso, è difficile da riconoscere.
E’ stato calcolato, sulla base del tempo di raddoppiamento del tumore gastrico, che un tumore per diventare di alcuni millimetri può impiegare fino ad oltre cinque anni e nel momento in cui inizia ad interessare la parete gastrica, la velocità di crescita aumenta fino a trenta volte con un tempo di raddoppiamento delle metastasi di circa 3 mesi (19). Questo comportamento biologico, di crescita lenta all’inizio e di successiva rapida accelerazione, è un fattore di grande rilevanza clinica per la programmazione terapeutica.

d) Modalità di diffusione
Il cancro gastrico, nelle sue fasi iniziali (EGC), tende a diffondersi nella lamina propria, infiltrando la muscularis mucosae, la sottomucosa ed i vari strati della parete gastrica, diventando un carcinoma avanzato. L’invasione linfatica è precoce in questa neoplasia ed è legata all’anatomia normale della distribuzione dei vasi linfatici nella sottomucosa, che costituiscono un ricco plesso situato appena al di sopra della muscularis mucosae, all’interno ed al di sotto di essa. I linfatici sono spesso in vicinanza delle ghiandole gastriche più profonde e non si estendono al di sopra del terzo inferiore di esse; sono infatti completamente assenti nel terzo medio e superiore della mucosa normale (28). Durante la gastrite atrofica, la mucosa si assottiglia e si assiste alla diminuzione del numero delle ghiandole e/o ad una loro sostituzione metaplastica. In questo nuova situazione anatomica i vasi linfatici penetrano fino al terzo superiore della lamina propria (29).
Nei carcinomi di tipo intestinale-espansivo che insorgono su mucosa atrofico/metaplastica, la zona proliferativa viene a trovarsi a contatto con i capillari linfatici; nelle forme ulcerate, sono stati osservati fenomeni di stasi linfatica nel tessuto circostante con capillari linfatici, mentre le forme depresse tendono ad infiltrare e distruggere precocemente la muscularis mucosae, consentendo alle cellule neoplastiche di penetrare nei vasi linfatici.
L’infiltrazione duodenale avviene attraverso la tonaca muscolare per infiltrazione diretta ed attraverso i vasi linfatici sottosierosi; mentre la diffusione all’esofago è quasi esclusivamente dovuta alla permeazione dei linfatici sottomucosi e può avvenire anche con mucosa sovrastante sana. Nel caso di neoplasie gastriche a localizzazione prossimale, è stata evidenziata una maggiore frequenza d’interessamento linfonodale nella regione perigastrica superiore, mentre quelli a localizzazione distale hanno una più bassa incidenza di metastasi linfonodali nella regione paracardiale.
La diffusione per via ematica è abbastanza frequente con metastasi a distanza nel fegato, nei polmoni e, in misura minore, nelle ossa e nel midollo osseo. I vasi sanguigni sono infatti presenti a tutti i livelli, nella lamina propria della mucosa e nella sottomucosa.
Frequenti sono le metastasi per via peritoneale, soprattutto nei tumori affioranti alla superficie del viscere, con estensione a tutta la sierosa peritoneale ed alle ovaie.
Infine, la neoplasia può estendersi per contiguità alla superficie anteriore del pancreas (soprattutto nei tumori del terzo medio dello stomaco), al mesocolon trasverso ed al lobo sinistro del fegato.

5.2 Quadro clinico

I sintomi sono vaghi ed aspecifici (30), di solito sottovalutati per molto tempo o trattati come “gastrite” od ulcera benigna: i più comuni sono il calo ponderale, il dolore, la nausea, l’anoressia, l’anemia, talora la disfagia e la sazietà precoce. I sintomi possono essere assenti fino a che il tumore non raggiunge dimensioni tali da dare stenosi od emorragie. La dispepsia organica in soggetti ad alto rischio (31) può essere associata a reflusso gastroesofageo, ulcera peptica ed a dispepsia funzionale, che sono presenti nei soggetti che si rivolgono ai medici di medicina generale, ma anche nella popolazione generale. Soltanto in pochi casi, la dispepsia è causata da neoplasie gastroesofagee (32).
Devono essere considerati sintomi di allarme tali da giustificare l’indicazione all’endoscopia immediata (33): perdita di peso, disfagia, segni e sintomi di sanguinamento gastrointestinale, anemia e vomito persistente. Tuttavia, l’uso precoce di terapia antisecretoria non sembra modificare l’outcome nel caso di diagnosi ritardata di neoplasia (34). Circa il 30% degli EGC presenta dispepsia, che risulta indistinguibile dalla malattia cronica dell’ulcera peptica. La presenza di masse addominali clinicamente palpabili tende ad indicare l’estensione regionale della malattia. Manifestazioni cliniche di estensione metastatica sono la comparsa di dolori addominali, l’aumento di volume del fegato, la comparsa di ascite, l’ittero e i linfonodi palpabili (quelli della regione sopraclaveare sinistra vengono identificati come il segno di Troiser).
Talvolta, la malattia metastatica si estende a livello peritoneale con interessamento delle ovaie (tumore di Krukenberg) e successiva diffusione allo sfondato pre-rettale e retro-vescicale.
Talvolta, coesistono manifestazioni paraneoplastiche di tipo cutaneo (dermatomiosite o acantosis nigricans), anemia microangiopatica emolitica, coagulazione intravascolare disseminata (CID) arteriosa e trombosi a livello venoso (sindrome di Trousseau).

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DIAGNOSTICA DI LABORATORIO

6.1 Biomarcatori circolanti
6.2 Biomarcatori tessutali

6.1 Biomarcatori circolanti

I biomarcatori circolanti svolgono un ruolo marginale nella diagnosi del carcinoma dello stomaco, per le ancora scarse conoscenze disponibili. Infatti, nessuna delle linee-guida prodotte dalle più autorevoli Agenzie Nazionali ed Internazionali (SIGN, NICE, AHRQ, CMA, NCCN, PNLG, NZGG) e dalle principali Società Scientifiche gastroenterologiche ed oncologiche (AIGO, SIGE, SIED, AGA, ACG, BSG, ASCO, AIOM, ESMO) (1-10) fa riferimento ai biomarcatori circolanti non solo per lo screening e la diagnosi, ma anche per la previsione del decorso della malattia e per il monitoraggio post-operatorio. Lo stesso discorso vale per i GIST. Anche il NACB (National Academy Clinical Biochemistry), nell’aggiornamento sull’utilizzo dei biomarcatori nei tumori del fegato, vescica, cervice uterina e stomaco, pubblicato nel marzo 2010 (11), ribadisce che ad oggi nessun biomarcatore è raccomandabile per l’utilizzo clinico routinario, a causa dell’eterogeneità dei risultati degli studi, della natura retrospettiva della maggior parte dei lavori, della limitata dimensione campionaria e della variabilità delle procedure chirurgiche e diagnostiche usate come riferimento e confronto. In Tabella 1, sono riportati i dati di accuratezza diagnostica dei biomarcatori comunemente utilizzati (12).

Tabella 1 Biomarcatori circolanti comunemente utilizzati nel carcinoma dello stomaco

D’altro canto, le raccomandazioni prodotte da queste Organizzazioni e Società Scientifiche Internazionali riflettono l’approccio prevalente utilizzato per la diagnosi del carcinoma dello stomaco in Occidente, che è rappresentato dalla diagnostica per immagini, al contrario dei Paesi Asiatici, dove anche i biomarcatori trovano largo impiego. Interessante osservare come l’incidenza di questa malattia nei due Paesi sia molto differente (in calo in Europa, tra le prime cause di morte in Asia) (vedi cap. 1.0).
Tuttavia, come riporta il NACB, i biomarcatori circolanti nelle neoplasie dello stomaco (adenocarcinoma, GIST e NETs) sono estesamente studiati; più di 2.500 referenze bibliografiche sono state identificate tra il 2008 ed il 2010 nell’ambito di una ricerca bibliografica in MEDLINE (Pubmed).
Gran parte dei lavori riguarda la capacità dei biomarcatori di fornire, assieme alle metodiche d’indagine tradizionali od ai fattori clinico-patologici noti, un’informazione più precisa sul decorso clinico o, più tempestiva, sulla presenza di una recidiva, in modo da selezionare il trattamento terapeutico ottimale. In Tabella 2 sono elencati i biomarcatori circolanti più comunemente utilizzati assieme alla fase di sviluppo del biomarcatore ed al livello di evidenza.

Tabella 2 Sensibilità diagnostica dei biomarcatori circolanti comunemente utilizzati

CEA e CA19.9 sono analizzati anche in alcuni recenti lavori per quanto riguarda il significato dei relativi livelli pre- (13) e post-operatori (14) sulla probabilità di recidiva.
Livelli pre- e post-operatori di CA19.9 e CEA elevati (superiori al cut-off) per tutta la durata del follow-up hanno una diversa accuratezza predittiva: in particolare, per il CA19.9 si osserva una sensibilità del 78.9% ed una specificità del 76.5% e per il CEA una sensibilità dell’83.3% ed una specificità del 60% per la predizione della recidiva, mentre in pazienti con livelli pre-operatori negativi la specificità e la sensibilità sono del 92.9% e del 23.4% per il CEA e del 95% e del 18.8% per il CA19.9. Inoltre, il tasso di recidive nei pazienti in cui i biomarcatori sono persistentemente positivi è dell’80% contro il 35% nei pazienti in cui i valori ritornano poi alla normalità.
La bassa sensibilità del CEA e del CA19.9 per la predizione di recidiva dopo intervento curativo è confermato anche in altro studio (sensibilità e specificità di 63% e 77% rispettivamente per la combinazione di biomarcatori) con un tasso di falsi positivi pari al 23% (15), indicando come il monitoraggio con questi biomarcatori non sia sufficientemente       accurato per un utilizzo clinico. Un aumento aspecifico e transitorio dei livelli di questi biomarcatori può verificarsi, infatti, anche a seguito dello stesso intervento di gastrectomia, che causa un deterioramento nel metabolismo del glucosio ed una disfunzione a carico del fegato e della colecisti a causa della recisione del nervo vago od anche della chemioterapia. Infatti, si è visto che in circa il 20% dei pazienti in trattamento, i biomarcatori aumentano mediamente dopo circa 3 settimane dall’inizio e perdurano mediamente anche per 7-9 settimane (16).
Va inoltre ricordato che esistono rare forme di neoplasia gastrica a differenziazione epatoide, che secernono tipicamente alfa-fetoproteina quale marcatore circolante (17).
Altri biomarcatori studiati sono i fattori collegati alla risposta immunitaria, le citochine, partendo dall’idea che la disregolazione del sistema immunitario si accompagna spesso alla diffusione sistemica della malattia e sia quindi associata alla prognosi; le molecole coinvolte sono: VEGF nell’angiogenesi e MMP9, MMP2, TIMP1 nella degradazione della matrice extracellulare durante il processo di metastatizzazione.
Tutti gli studi che analizzano il significato prognostico delle citochine (18-20) hanno osservato che il livello di queste molecole, in particolare di IL6, correla in modo diretto con i principali fattori prognostici (stadio, grado di infiltrazione, presenza di metastasi linfonodali e/o a distanza) e livelli elevati di IL6 sono associati ad una ridotta sopravvivenza libera da malattia e/o tempo alla progressione in analisi univariata, ma non in quella multivariata. Gli stessi studi non trovano alcuna correlazione tra i livelli circolanti di IL10 ed i fattori prognostici noti, mentre mostrano un’associazione significativa nell’analisi sia univariata sia multivariata tra livelli elevati di IL10 e ridotta sopravvivenza libera da malattia. Ciò ha portato gli Autori ad ipotizzare che le due categorie di citochine forniscano informazioni diverse e, in particolare, che IL6 sia legata alle caratteristiche del tumore, mentre IL10 alla condizione dell’ospite quale possibile indicazione di uno stato di immunosoppressione dell’ospite, che spesso si accompagna alla malattia metastatica.
Anche per MMP9 e TIMP1 (21-23) esiste in tutti gli studi una correlazione diretta con i fattori prognostici noti (stadio, presenza di metastasi linfonodali ed a distanza, grado d’infiltrazione), ma sia in analisi univariata sia in multivariata solo i livelli elevati di TIMP1 sono associati ad una ridotta sopravvivenza globale sia in tutti pazienti sia nel sottogruppo di pazienti senza metastasi a distanza, dimostrando che TIMP1 è un fattore prognostico indipendente dagli altri parametri di malattia.
Gli stessi risultati sono stati ottenuti per VEGF, anche se non concordemente in tutti gli studi (24,25).
Un certo numero di studi è stato infine focalizzato sull’identificazione e quantificazione di cellule tumorali circolanti mediante l’analisi dell’espressione di alcuni geni quali CEA (26), CK18,19,20 (27), Survivina (28), VEGFR (29), MT1-MMP, UPAR e VEGFR (30,31) o dell’amplificazione di oncogeni (MYC) (32) e dello stato di metilazione di oncosoppressori (RUNX3) (33), per un’indicazione precoce della presenza di micrometastasi.
Nella maggior parte dei lavori, l’espressione dei marcatori correla con i principali fattori clinico-patologici noti, (stadio, grado d’infiltrazione del tumore, presenza di metastasi linfonodale ed a distanza), ma solo in pochi lavori è stata dimostrata un’associazione tra elevati livelli di espressione di questi marcatori ed una ridotta sopravvivenza libera da malattia.
Degni di nota sono gli studi che hanno analizzato l’espressione di MT1-MMP, UPAR e VEGFR in una casistica numerosa (810 pazienti con carcinoma gastrico). Essi rilevano come l’espressione di VEGFR o di MT1-MMP o di UPAR, oltre a correlare con i fattori prognostici convenzionali, sia associata al rischio di metastasi ematogene sincrone e metacrone.
Complessivamente, oltre alle ridotte casistiche, al limitato tempo di osservazione (2-3 anni) ed al tasso di positività variabile di queste molecole (12-50%), il limite maggiore è la mancanza di un metodo sicuro per distinguere le cellule tumorali da quelle normali, considerato che tutte le molecole misurate come biomarcatori sono espresse, anche se in misura variabile, nei controlli sani.
In conclusione, nessuno dei biomarcatori comunemente utilizzati è raccomandabile per l’uso clinico, perché i valori di sensibilità e specificità non sono adeguatamente accurati per la diagnosi, perché gli studi non concordano sul loro significato prognostico indipendente da altri parametri di malattia ed infine, pur risultando utili nella diagnosi della recidiva, non è ancora chiaro quale biomarcatore sia superiore (il lead time di anticipo diagnostico è variabile da qualche mese fino anche a più di un anno) e se siano utili per il monitoraggio post-operatorio.
Tra le neoplasie dello stomaco, solo nei tumori neuroendocrini (NETs) del tratto gastro-entero-pancreatico (GEP) ed in particolare nel gastrinoma, i biomarcatori circolanti hanno un ruolo nella diagnosi. L’utilizzo degli indicatori biochimici nella diagnostica delle neoplasie endocrine del tratto gastro-entero-pancreatico (GEP) è stato trattato estesamente nell’ambito delle Basi Scientifiche Linee Guida per i Tumori Neuroendocrini del tratto Gastro-Entero-Pancreatico (GEP), sponsorizzato da Alleanza Contro il Cancro, pubblicato nel 2009 e reperibile sul sito www.alleanzacontroilcancro.it. Dopo questa pubblicazione sono state prodotte le linee-guida per il trattamento e la cura dei tumori neuroendocrini dalla Società Europea per i Tumori Neuroendocrini (ENETS) (34-38), le linee guida sulla diagnosi, trattamento e sorveglianza dei NETs-GEP dalla Società Europea di Oncologia Medica (ESMO) (39) e dal National Comprehensive Cancer Network (NCCN) (40), in cui viene considerato il ruolo dei biomarcatori. Le linee guida dell’ESMO, così come alcuni studi recenti, confermano il ruolo della cromogranina plasmatica (CgA) nella diagnosi, nel monitoraggio della risposta alla terapia e nella sorveglianza dei pazienti in follow-up (39,41,42), anche se per la diagnosi i parametri di accuratezza diagnostica sono ancora sub-ottimali e permangono i problemi di standardizzazione delle metodiche di dosaggio (38,41). La capacità diagnostica della CgA nei tumori gastro-entero-pancreatici risulta poi essere correlata allo stadio clinico, all’estensione della malattia ed all’attività secretoria. Di diverso parere sono le linee guida dell’NCCN, che sconsigliano l’utilizzo del biomarcatore per la diagnosi iniziale. Per quanto riguarda il monitoraggio post-operatorio, le linee guida dell’ENETS raccomandano il dosaggio della CgA ogni 3-6 mesi durante la terapia per monitorare la risposta ed invece ogni 6 mesi per i primi 2 anni ed una volta all’anno per i 3 anni successivi per la sorveglianza dei pazienti in follow-up. Sulla stessa linea s’inseriscono le raccomandazioni dell’NCCN per il monitoraggio post-operatorio, che prevedono il dosaggio della CgA ogni 3-6 mesi.
Oltre alla CgA, anche la gastrina risulta elevata nel gastrinoma e, pertanto, andrebbe sempre determinata. A tale riguardo, le linee guida prodotte dall’ENETS raccomandano il dosaggio della gastrina eventualmente in associazione con la CgA per migliorare la diagnosi del gastrinoma, ma non per la sorveglianza dei pazienti in follow-up (37,40). Le linee guida dell’NCCN raccomandano il dosaggio della gastrina nel monitoraggio della risposta al trattamento primario nella malattia non metastatica e nel follow-up, in associazione con la CgA, se ritenuto appropriato (40).
Da segnalare, comunque, sono i dati ottenuti dal Registro tedesco dei tumori neuroendocrini, che hanno messo in evidenza come per più di un terzo dei casi inseriti tra il 2000 ed il 2006 manchi sia una diagnosi istopatologica sia la determinazione dei biomarcatori circolanti (43), nonostante le raccomandazioni prodotte dalle diverse linee guida sull’argomento. Infine, è interessante segnalare che a tutt’oggi in Gran Bretagna si utilizzi ancora la pancreastatina (in disuso dopo la scoperta della CgA), oltre alla CgA per la stadiazione della malattia (44).

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6.2 Biomarcatori tessutali

Si definiscono biomarcatori tessutali una serie di variabili biologiche valutabili su tessuto e che presentano una correlazione con il comportamento biologico clinico della patologia neoplastica. Si tratta, in genere, di molecole coinvolte nei meccanismi di sviluppo e progressione tumorale, quali la proliferazione cellulare, l’angiogenesi, l’invasione locale ed il processo di metastatizzazione.
La conoscenza di tali fattori e del loro ruolo patogenetico non solo può permettere di definire più accuratamente l’andamento della malattia, ma può avere anche un importante impatto terapeutico, facilitando lo sviluppo di terapie mirate, che intervengano specificatamente sui meccanismi patogenetici identificati dai marcatori stessi.
Riguardo al carcinoma gastrico, quanto ad oggi prodotto non è di facile interpretazione e la maggior parte delle molecole studiate come potenziali biomarcatori tessutali non ha avuto successo per problematiche relative alla sensibilità, alla specificità ed all’affidabilità dei marcatori oggetto di studio. Un fattore limitante nell’analisi dei numerosi dati disponibili è rappresentato dalla scarsa omogeneità nei disegni degli studi, nei metodi utilizzati e nell’interpretazione dei risultati ottenuti. Per valutare in maniera opportuna l’apporto fornito dai singoli studi, è necessario che questi vengano progettati e condotti seguendo criteri condivisi, che permettano di confrontare in maniera adeguata i dati riportati (1).
I biomarcatori tessutali possono essere distinti in tre gruppi, a seconda del loro significato diagnostico, prognostico o predittivo di risposta al trattamento.

Biomarcatori diagnostici
Relativamente a questa prima categoria di marcatori, è ormai accertato che la valutazione istopatologica delle lesioni precancerose abbia portato alla diagnosi precoce ed all’aumento della sopravvivenza dei pazienti e che, attualmente, la displasia rappresenta il fattore predittivo di progressione neoplastica migliore e più affidabile (2).
Molti studi sono stati condotti per cercare di definire quali caratteristiche biologiche potessero aumentare le possibilità di diagnosi precoce di questa forma neoplastica.
La mutazione germinale del gene codificante per la E-cadherina (CDH-1) è stata definitivamente associata alla forma ereditaria di tumore gastrico di tipo diffuso ed è quindi usata per lo screening e la diagnosi di questa patologia (3).
La forma sporadica di carcinoma gastrico di tipo intestinale è frequentemente preceduta dalla presenza di gastrite cronica atrofica e di metaplasia intestinale. Quest’ultima rappresenta un fattore di particolare interesse, poiché si tratta di un’alterazione permanente, indicativa di un cambiamento del programma genetico ed epigenetico delle cellule staminali o progenitrici. Alcuni Autori hanno proposto che il riscontro d’instabilità genomica (instabilità dei microsatelliti e perdita di eterozigosi) nella metaplasia intestinale possa rappresentare un potenziale marcatore per il rischio di carcinoma gastrico e per la valutazione clinica del suo potenziale maligno (4). Diversi studi hanno inoltre dimostrato che molti tumori gastrici hanno un profilo d’espressione delle mucine alterato, suggerendo il possibile uso di queste molecole come marcatori diagnostici e prognostici (5).

Biomarcatori prognostici
La stadiazione clinico-patologica, basata sul sistema TNM (vedi cap. 10.0), è il migliore indicatore prognostico attualmente disponibile. Lo stato linfonodale, parte integrante del sistema TNM, è di forte significato prognostico ed è stato riportato che anche l’identificazione di cellule tumorali occulte nei linfonodi, mediante metodiche immunoistochimiche, può risultare importante (6). Altre variabili istopatologiche, come la presenza d’invasione vascolare, linfatica, perineurale e l’istotipo, si sono dimostrate di valore prognostico indipendente. Tuttavia, i sistemi classificativi in uso, basati su tecniche d’indagine soggettive, quali l’esame istologico ed immunoistochimico del tessuto, non hanno un significato clinico robusto. Infatti, tumori gastrici con la medesima istologia possono avere decorso clinico completamente differente e richiedere trattamenti diversi; ciò probabilmente sta ad indicare la presenza di un ampio spettro di sottotipi molecolari. Queste osservazioni hanno dato vita a nuove possibilità classificative e stadiative basate su caratteristiche molecolari, incentrate sull’analisi delle alterazioni dei geni correlati al cancro gastrico.
L’applicazione della biologia molecolare in questo settore ha portato alla scoperta di numerosi potenziali indicatori prognostici.
La ridotta espressione di alcuni geni oncosoppressori, quali TP53, APC, p16 e hMLH1 e l’aumentata espressione di alcuni oncogeni, quale ad esempio bcl-2, sono risultate associate a tassi di sopravvivenza ridotti (7,8).
L’iperespressione delle metalloproteinasi di matrice MMP-2 e MMP-7 è frequentemente correlata alla presenza di metastasi linfonodali e alla profondità dell’infiltrazione neoplastica (9,10).
Anche la diminuita espressione di PTEN è stata correlata con caratteristiche prognostiche negative, come la presenza di metastasi, la profondità dell’invasione e lo scarso grado di differenziazione (11,12).
Un simile valore prognostico è stato associato ad alterazioni dell’espressione dei recettori per i glucocorticoidi, IGF-IR, EGFR, HER2, HER3 e VEGFR3, anche se riguardo a quest’ultimo sono stati prodotti risultati discordanti (13-18).
Uno studio concluso da poco, incentrato sull’instabilità cromosomica, ha identificato diverse alterazioni a carico dei geni MYC ed A2BP1, che potrebbero essere utili indicatori prognostici in pazienti con carcinoma gastrico in fase precoce (19).
Alcuni studi hanno inoltre dimostrato che neoplasie gastriche con un elevato livello di instabilità microsatellitare presentano peculiari caratteristiche clinico-patologiche e si associano ad una prognosi più favorevole (20-22).
Recentemente, infine, l’analisi del profilo di espressione dei microRNA in 353 campioni di carcinoma gastrico ha dimostrato non solo che queste molecole sono differenzialmente espresse in diversi istotipi tumorali, ma anche che l’espressione di particolari microRNA (let-7g, miR-433, miR-214) è correlata alla progressione ed alla prognosi (23). Studi sulla proliferazione cellulare e sulla ploidia del DNA hanno fornito risultati discordanti, non ancora applicabili nella pratica clinica (24).

Biomarcatori predittivi
Negli ultimi anni, l’aumento delle conoscenze sui meccanismi della patogenesi tumorale ha permesso lo sviluppo di nuovi farmaci a bersaglio molecolare, che intervengono su alcune vie fondamentali per il mantenimento del fenotipo maligno.
Per quanto riguarda il carcinoma gastrico, le due principali strategie che sono state testate in vitro ed in vivo concernono l’inibizione dei recettori per i fattori di crescita epidermici (EGFR) e per i fattori di crescita vascolare endoteliale (VEGFR); nonostante i molteplici tentativi effettuati, solo di recente si sono avuti i primi successi in termini di aumento della sopravvivenza (25) (vedi sottocap. 15.2).
Numerosi studi hanno dimostrato la presenza di amplificazione del gene HER2 e l’iperespressione della proteina da esso codificata nel carcinoma gastrico. Tali alterazioni rappresentano attualmente l’aspetto clinicamente più rilevante della caratterizzazione biologica di questi tumori. La frequenza d’iperespressione del gene HER2 riportata in letteratura è variabile: in media, si rileva nel 20% dei pazienti e si associa ad una cattiva prognosi. Studi preclinici in vitro ed in vivo hanno dimostrato che alcuni farmaci come il Trastuzumab ed il Lapatinib sono efficaci in diversi modelli tumorali gastrici con iperespressione/amplificazione di HER2. I risultati forniti da tali studi hanno rappresentato le basi scientifiche per l’inizio di studi clinici (26-30).
Nel primo studio di fase III a riguardo, ToGA (Trastuzumab for Gastric Cancer), 594 pazienti con carcinoma gastrico HER2-positivo sono stati randomizzati per ricevere 5-Fluorouracile/Capecitabina e Cisplatino, da soli od in combinazione con il Trastuzumab. Nei pazienti che hanno ricevuto il trattamento combinato, si è osservato un aumento statisticamente significativo della sopravvivenza globale: l’aggiunta di Trastuzumab alla chemioterapia standard allunga in media la vita dei pazienti affetti da carcinoma gastrico (inoperabile, metastatico, localmente avanzato e con iperespressione di HER2) di quasi 3 mesi. Ad avvalersi dei maggiori benefici dall’aggiunta del Trastuzumab sono i tumori che mostrano alti livelli di espressione di HER2, valutata mediante tecniche di immunoistochimica e FISH (31) (vedi sottocap. 15.2). In seguito a questi risultati, la Commissione Europea ha approvato l’uso del Trastuzumab in combinazione con la chemioterapia nei pazienti con carcinoma gastrico metastatico HER2-positivo. Si tratta della prima terapia biologica mirata ad aver mostrato benefici in termini di sopravvivenza per i pazienti portatori di questa patologia.
Anche il Cetuximab, un anticorpo monoclonale anti-EGFR, è stato usato con successo nel carcinoma gastrico metastatico, assieme ad un regime chemioterapico FUFOX, ed è attualmente al centro di uno studio randomizzato di fase III, in combinazione con platino e fluoropiridine. Tuttavia, contrariamente a quanto si è verificato per il carcinoma del colon-retto, non è stata trovata al momento alcuna relazione tra l’attività del Cetuximab ed il livello di espressione di EGFR né, tantomeno, un’associazione con le mutazioni del gene K-ras, che nei pazienti con carcinoma del colon-retto hanno un significato predittivo negativo di risposta al trattamento (32,33).
Il recettore HER3, appartenente alla stessa famiglia di HER2, potrebbe diventare anch’esso un candidato per la terapia mirata, in particolare per l’istotipo diffuso, in cui si osserva spesso iperespressione di questa proteina (34).
Infine, il trattamento con farmaci mirati anti-VEGFR, i cui rappresentanti principali sono il Bevacizumab ed il Vatalanib, ha fornito risultati promettenti. Tuttavia, anche per questi farmaci, al momento non è possibile definire con esattezza quali pazienti possono trarre beneficio dalla terapia (35-37).
Sono molte altre le alterazioni molecolari che potrebbero essere oggetto di terapie mirate e per le quali sono in corso studi clinici; l’amplificazione di KsamII, che codifica per il FGFR2 e l’amplificazione di c-Met, che codifica per l’HGF, sono oggetto di studi clinici di fase II (38-40).

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DIAGNOSTICA DI LABORATORIO

6.1 Biomarcatori circolanti
6.2 Biomarcatori tessutali

6.1 Biomarcatori circolanti

I biomarcatori circolanti svolgono un ruolo marginale nella diagnosi del carcinoma dello stomaco, per le ancora scarse conoscenze disponibili. Infatti, nessuna delle linee-guida prodotte dalle più autorevoli Agenzie Nazionali ed Internazionali (SIGN, NICE, AHRQ, CMA, NCCN, PNLG, NZGG) e dalle principali Società Scientifiche gastroenterologiche ed oncologiche (AIGO, SIGE, SIED, AGA, ACG, BSG, ASCO, AIOM, ESMO) (1-10) fa riferimento ai biomarcatori circolanti non solo per lo screening e la diagnosi, ma anche per la previsione del decorso della malattia e per il monitoraggio post-operatorio. Lo stesso discorso vale per i GIST. Anche il NACB (National Academy Clinical Biochemistry), nell’aggiornamento sull’utilizzo dei biomarcatori nei tumori del fegato, vescica, cervice uterina e stomaco, pubblicato nel marzo 2010 (11), ribadisce che ad oggi nessun biomarcatore è raccomandabile per l’utilizzo clinico routinario, a causa dell’eterogeneità dei risultati degli studi, della natura retrospettiva della maggior parte dei lavori, della limitata dimensione campionaria e della variabilità delle procedure chirurgiche e diagnostiche usate come riferimento e confronto. In Tabella 1, sono riportati i dati di accuratezza diagnostica dei biomarcatori comunemente utilizzati (12).

Tabella 1 Biomarcatori circolanti comunemente utilizzati nel carcinoma dello stomaco

D’altro canto, le raccomandazioni prodotte da queste Organizzazioni e Società Scientifiche Internazionali riflettono l’approccio prevalente utilizzato per la diagnosi del carcinoma dello stomaco in Occidente, che è rappresentato dalla diagnostica per immagini, al contrario dei Paesi Asiatici, dove anche i biomarcatori trovano largo impiego. Interessante osservare come l’incidenza di questa malattia nei due Paesi sia molto differente (in calo in Europa, tra le prime cause di morte in Asia) (vedi cap. 1.0).
Tuttavia, come riporta il NACB, i biomarcatori circolanti nelle neoplasie dello stomaco (adenocarcinoma, GIST e NETs) sono estesamente studiati; più di 2.500 referenze bibliografiche sono state identificate tra il 2008 ed il 2010 nell’ambito di una ricerca bibliografica in MEDLINE (Pubmed).
Gran parte dei lavori riguarda la capacità dei biomarcatori di fornire, assieme alle metodiche d’indagine tradizionali od ai fattori clinico-patologici noti, un’informazione più precisa sul decorso clinico o, più tempestiva, sulla presenza di una recidiva, in modo da selezionare il trattamento terapeutico ottimale. In Tabella 2 sono elencati i biomarcatori circolanti più comunemente utilizzati assieme alla fase di sviluppo del biomarcatore ed al livello di evidenza.

Tabella 2 Sensibilità diagnostica dei biomarcatori circolanti comunemente utilizzati

CEA e CA19.9 sono analizzati anche in alcuni recenti lavori per quanto riguarda il significato dei relativi livelli pre- (13) e post-operatori (14) sulla probabilità di recidiva.
Livelli pre- e post-operatori di CA19.9 e CEA elevati (superiori al cut-off) per tutta la durata del follow-up hanno una diversa accuratezza predittiva: in particolare, per il CA19.9 si osserva una sensibilità del 78.9% ed una specificità del 76.5% e per il CEA una sensibilità dell’83.3% ed una specificità del 60% per la predizione della recidiva, mentre in pazienti con livelli pre-operatori negativi la specificità e la sensibilità sono del 92.9% e del 23.4% per il CEA e del 95% e del 18.8% per il CA19.9. Inoltre, il tasso di recidive nei pazienti in cui i biomarcatori sono persistentemente positivi è dell’80% contro il 35% nei pazienti in cui i valori ritornano poi alla normalità.
La bassa sensibilità del CEA e del CA19.9 per la predizione di recidiva dopo intervento curativo è confermato anche in altro studio (sensibilità e specificità di 63% e 77% rispettivamente per la combinazione di biomarcatori) con un tasso di falsi positivi pari al 23% (15), indicando come il monitoraggio con questi biomarcatori non sia sufficientemente       accurato per un utilizzo clinico. Un aumento aspecifico e transitorio dei livelli di questi biomarcatori può verificarsi, infatti, anche a seguito dello stesso intervento di gastrectomia, che causa un deterioramento nel metabolismo del glucosio ed una disfunzione a carico del fegato e della colecisti a causa della recisione del nervo vago od anche della chemioterapia. Infatti, si è visto che in circa il 20% dei pazienti in trattamento, i biomarcatori aumentano mediamente dopo circa 3 settimane dall’inizio e perdurano mediamente anche per 7-9 settimane (16).
Va inoltre ricordato che esistono rare forme di neoplasia gastrica a differenziazione epatoide, che secernono tipicamente alfa-fetoproteina quale marcatore circolante (17).
Altri biomarcatori studiati sono i fattori collegati alla risposta immunitaria, le citochine, partendo dall’idea che la disregolazione del sistema immunitario si accompagna spesso alla diffusione sistemica della malattia e sia quindi associata alla prognosi; le molecole coinvolte sono: VEGF nell’angiogenesi e MMP9, MMP2, TIMP1 nella degradazione della matrice extracellulare durante il processo di metastatizzazione.
Tutti gli studi che analizzano il significato prognostico delle citochine (18-20) hanno osservato che il livello di queste molecole, in particolare di IL6, correla in modo diretto con i principali fattori prognostici (stadio, grado di infiltrazione, presenza di metastasi linfonodali e/o a distanza) e livelli elevati di IL6 sono associati ad una ridotta sopravvivenza libera da malattia e/o tempo alla progressione in analisi univariata, ma non in quella multivariata. Gli stessi studi non trovano alcuna correlazione tra i livelli circolanti di IL10 ed i fattori prognostici noti, mentre mostrano un’associazione significativa nell’analisi sia univariata sia multivariata tra livelli elevati di IL10 e ridotta sopravvivenza libera da malattia. Ciò ha portato gli Autori ad ipotizzare che le due categorie di citochine forniscano informazioni diverse e, in particolare, che IL6 sia legata alle caratteristiche del tumore, mentre IL10 alla condizione dell’ospite quale possibile indicazione di uno stato di immunosoppressione dell’ospite, che spesso si accompagna alla malattia metastatica.
Anche per MMP9 e TIMP1 (21-23) esiste in tutti gli studi una correlazione diretta con i fattori prognostici noti (stadio, presenza di metastasi linfonodali ed a distanza, grado d’infiltrazione), ma sia in analisi univariata sia in multivariata solo i livelli elevati di TIMP1 sono associati ad una ridotta sopravvivenza globale sia in tutti pazienti sia nel sottogruppo di pazienti senza metastasi a distanza, dimostrando che TIMP1 è un fattore prognostico indipendente dagli altri parametri di malattia.
Gli stessi risultati sono stati ottenuti per VEGF, anche se non concordemente in tutti gli studi (24,25).
Un certo numero di studi è stato infine focalizzato sull’identificazione e quantificazione di cellule tumorali circolanti mediante l’analisi dell’espressione di alcuni geni quali CEA (26), CK18,19,20 (27), Survivina (28), VEGFR (29), MT1-MMP, UPAR e VEGFR (30,31) o dell’amplificazione di oncogeni (MYC) (32) e dello stato di metilazione di oncosoppressori (RUNX3) (33), per un’indicazione precoce della presenza di micrometastasi.
Nella maggior parte dei lavori, l’espressione dei marcatori correla con i principali fattori clinico-patologici noti, (stadio, grado d’infiltrazione del tumore, presenza di metastasi linfonodale ed a distanza), ma solo in pochi lavori è stata dimostrata un’associazione tra elevati livelli di espressione di questi marcatori ed una ridotta sopravvivenza libera da malattia.
Degni di nota sono gli studi che hanno analizzato l’espressione di MT1-MMP, UPAR e VEGFR in una casistica numerosa (810 pazienti con carcinoma gastrico). Essi rilevano come l’espressione di VEGFR o di MT1-MMP o di UPAR, oltre a correlare con i fattori prognostici convenzionali, sia associata al rischio di metastasi ematogene sincrone e metacrone.
Complessivamente, oltre alle ridotte casistiche, al limitato tempo di osservazione (2-3 anni) ed al tasso di positività variabile di queste molecole (12-50%), il limite maggiore è la mancanza di un metodo sicuro per distinguere le cellule tumorali da quelle normali, considerato che tutte le molecole misurate come biomarcatori sono espresse, anche se in misura variabile, nei controlli sani.
In conclusione, nessuno dei biomarcatori comunemente utilizzati è raccomandabile per l’uso clinico, perché i valori di sensibilità e specificità non sono adeguatamente accurati per la diagnosi, perché gli studi non concordano sul loro significato prognostico indipendente da altri parametri di malattia ed infine, pur risultando utili nella diagnosi della recidiva, non è ancora chiaro quale biomarcatore sia superiore (il lead time di anticipo diagnostico è variabile da qualche mese fino anche a più di un anno) e se siano utili per il monitoraggio post-operatorio.
Tra le neoplasie dello stomaco, solo nei tumori neuroendocrini (NETs) del tratto gastro-entero-pancreatico (GEP) ed in particolare nel gastrinoma, i biomarcatori circolanti hanno un ruolo nella diagnosi. L’utilizzo degli indicatori biochimici nella diagnostica delle neoplasie endocrine del tratto gastro-entero-pancreatico (GEP) è stato trattato estesamente nell’ambito delle Basi Scientifiche Linee Guida per i Tumori Neuroendocrini del tratto Gastro-Entero-Pancreatico (GEP), sponsorizzato da Alleanza Contro il Cancro, pubblicato nel 2009 e reperibile sul sito www.alleanzacontroilcancro.it. Dopo questa pubblicazione sono state prodotte le linee-guida per il trattamento e la cura dei tumori neuroendocrini dalla Società Europea per i Tumori Neuroendocrini (ENETS) (34-38), le linee guida sulla diagnosi, trattamento e sorveglianza dei NETs-GEP dalla Società Europea di Oncologia Medica (ESMO) (39) e dal National Comprehensive Cancer Network (NCCN) (40), in cui viene considerato il ruolo dei biomarcatori. Le linee guida dell’ESMO, così come alcuni studi recenti, confermano il ruolo della cromogranina plasmatica (CgA) nella diagnosi, nel monitoraggio della risposta alla terapia e nella sorveglianza dei pazienti in follow-up (39,41,42), anche se per la diagnosi i parametri di accuratezza diagnostica sono ancora sub-ottimali e permangono i problemi di standardizzazione delle metodiche di dosaggio (38,41). La capacità diagnostica della CgA nei tumori gastro-entero-pancreatici risulta poi essere correlata allo stadio clinico, all’estensione della malattia ed all’attività secretoria. Di diverso parere sono le linee guida dell’NCCN, che sconsigliano l’utilizzo del biomarcatore per la diagnosi iniziale. Per quanto riguarda il monitoraggio post-operatorio, le linee guida dell’ENETS raccomandano il dosaggio della CgA ogni 3-6 mesi durante la terapia per monitorare la risposta ed invece ogni 6 mesi per i primi 2 anni ed una volta all’anno per i 3 anni successivi per la sorveglianza dei pazienti in follow-up. Sulla stessa linea s’inseriscono le raccomandazioni dell’NCCN per il monitoraggio post-operatorio, che prevedono il dosaggio della CgA ogni 3-6 mesi.
Oltre alla CgA, anche la gastrina risulta elevata nel gastrinoma e, pertanto, andrebbe sempre determinata. A tale riguardo, le linee guida prodotte dall’ENETS raccomandano il dosaggio della gastrina eventualmente in associazione con la CgA per migliorare la diagnosi del gastrinoma, ma non per la sorveglianza dei pazienti in follow-up (37,40). Le linee guida dell’NCCN raccomandano il dosaggio della gastrina nel monitoraggio della risposta al trattamento primario nella malattia non metastatica e nel follow-up, in associazione con la CgA, se ritenuto appropriato (40).
Da segnalare, comunque, sono i dati ottenuti dal Registro tedesco dei tumori neuroendocrini, che hanno messo in evidenza come per più di un terzo dei casi inseriti tra il 2000 ed il 2006 manchi sia una diagnosi istopatologica sia la determinazione dei biomarcatori circolanti (43), nonostante le raccomandazioni prodotte dalle diverse linee guida sull’argomento. Infine, è interessante segnalare che a tutt’oggi in Gran Bretagna si utilizzi ancora la pancreastatina (in disuso dopo la scoperta della CgA), oltre alla CgA per la stadiazione della malattia (44).

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6.2 Biomarcatori tessutali

Si definiscono biomarcatori tessutali una serie di variabili biologiche valutabili su tessuto e che presentano una correlazione con il comportamento biologico clinico della patologia neoplastica. Si tratta, in genere, di molecole coinvolte nei meccanismi di sviluppo e progressione tumorale, quali la proliferazione cellulare, l’angiogenesi, l’invasione locale ed il processo di metastatizzazione.
La conoscenza di tali fattori e del loro ruolo patogenetico non solo può permettere di definire più accuratamente l’andamento della malattia, ma può avere anche un importante impatto terapeutico, facilitando lo sviluppo di terapie mirate, che intervengano specificatamente sui meccanismi patogenetici identificati dai marcatori stessi.
Riguardo al carcinoma gastrico, quanto ad oggi prodotto non è di facile interpretazione e la maggior parte delle molecole studiate come potenziali biomarcatori tessutali non ha avuto successo per problematiche relative alla sensibilità, alla specificità ed all’affidabilità dei marcatori oggetto di studio. Un fattore limitante nell’analisi dei numerosi dati disponibili è rappresentato dalla scarsa omogeneità nei disegni degli studi, nei metodi utilizzati e nell’interpretazione dei risultati ottenuti. Per valutare in maniera opportuna l’apporto fornito dai singoli studi, è necessario che questi vengano progettati e condotti seguendo criteri condivisi, che permettano di confrontare in maniera adeguata i dati riportati (1).
I biomarcatori tessutali possono essere distinti in tre gruppi, a seconda del loro significato diagnostico, prognostico o predittivo di risposta al trattamento.

Biomarcatori diagnostici
Relativamente a questa prima categoria di marcatori, è ormai accertato che la valutazione istopatologica delle lesioni precancerose abbia portato alla diagnosi precoce ed all’aumento della sopravvivenza dei pazienti e che, attualmente, la displasia rappresenta il fattore predittivo di progressione neoplastica migliore e più affidabile (2).
Molti studi sono stati condotti per cercare di definire quali caratteristiche biologiche potessero aumentare le possibilità di diagnosi precoce di questa forma neoplastica.
La mutazione germinale del gene codificante per la E-cadherina (CDH-1) è stata definitivamente associata alla forma ereditaria di tumore gastrico di tipo diffuso ed è quindi usata per lo screening e la diagnosi di questa patologia (3).
La forma sporadica di carcinoma gastrico di tipo intestinale è frequentemente preceduta dalla presenza di gastrite cronica atrofica e di metaplasia intestinale. Quest’ultima rappresenta un fattore di particolare interesse, poiché si tratta di un’alterazione permanente, indicativa di un cambiamento del programma genetico ed epigenetico delle cellule staminali o progenitrici. Alcuni Autori hanno proposto che il riscontro d’instabilità genomica (instabilità dei microsatelliti e perdita di eterozigosi) nella metaplasia intestinale possa rappresentare un potenziale marcatore per il rischio di carcinoma gastrico e per la valutazione clinica del suo potenziale maligno (4). Diversi studi hanno inoltre dimostrato che molti tumori gastrici hanno un profilo d’espressione delle mucine alterato, suggerendo il possibile uso di queste molecole come marcatori diagnostici e prognostici (5).

Biomarcatori prognostici
La stadiazione clinico-patologica, basata sul sistema TNM (vedi cap. 10.0), è il migliore indicatore prognostico attualmente disponibile. Lo stato linfonodale, parte integrante del sistema TNM, è di forte significato prognostico ed è stato riportato che anche l’identificazione di cellule tumorali occulte nei linfonodi, mediante metodiche immunoistochimiche, può risultare importante (6). Altre variabili istopatologiche, come la presenza d’invasione vascolare, linfatica, perineurale e l’istotipo, si sono dimostrate di valore prognostico indipendente. Tuttavia, i sistemi classificativi in uso, basati su tecniche d’indagine soggettive, quali l’esame istologico ed immunoistochimico del tessuto, non hanno un significato clinico robusto. Infatti, tumori gastrici con la medesima istologia possono avere decorso clinico completamente differente e richiedere trattamenti diversi; ciò probabilmente sta ad indicare la presenza di un ampio spettro di sottotipi molecolari. Queste osservazioni hanno dato vita a nuove possibilità classificative e stadiative basate su caratteristiche molecolari, incentrate sull’analisi delle alterazioni dei geni correlati al cancro gastrico.
L’applicazione della biologia molecolare in questo settore ha portato alla scoperta di numerosi potenziali indicatori prognostici.
La ridotta espressione di alcuni geni oncosoppressori, quali TP53, APC, p16 e hMLH1 e l’aumentata espressione di alcuni oncogeni, quale ad esempio bcl-2, sono risultate associate a tassi di sopravvivenza ridotti (7,8).
L’iperespressione delle metalloproteinasi di matrice MMP-2 e MMP-7 è frequentemente correlata alla presenza di metastasi linfonodali e alla profondità dell’infiltrazione neoplastica (9,10).
Anche la diminuita espressione di PTEN è stata correlata con caratteristiche prognostiche negative, come la presenza di metastasi, la profondità dell’invasione e lo scarso grado di differenziazione (11,12).
Un simile valore prognostico è stato associato ad alterazioni dell’espressione dei recettori per i glucocorticoidi, IGF-IR, EGFR, HER2, HER3 e VEGFR3, anche se riguardo a quest’ultimo sono stati prodotti risultati discordanti (13-18).
Uno studio concluso da poco, incentrato sull’instabilità cromosomica, ha identificato diverse alterazioni a carico dei geni MYC ed A2BP1, che potrebbero essere utili indicatori prognostici in pazienti con carcinoma gastrico in fase precoce (19).
Alcuni studi hanno inoltre dimostrato che neoplasie gastriche con un elevato livello di instabilità microsatellitare presentano peculiari caratteristiche clinico-patologiche e si associano ad una prognosi più favorevole (20-22).
Recentemente, infine, l’analisi del profilo di espressione dei microRNA in 353 campioni di carcinoma gastrico ha dimostrato non solo che queste molecole sono differenzialmente espresse in diversi istotipi tumorali, ma anche che l’espressione di particolari microRNA (let-7g, miR-433, miR-214) è correlata alla progressione ed alla prognosi (23). Studi sulla proliferazione cellulare e sulla ploidia del DNA hanno fornito risultati discordanti, non ancora applicabili nella pratica clinica (24).

Biomarcatori predittivi
Negli ultimi anni, l’aumento delle conoscenze sui meccanismi della patogenesi tumorale ha permesso lo sviluppo di nuovi farmaci a bersaglio molecolare, che intervengono su alcune vie fondamentali per il mantenimento del fenotipo maligno.
Per quanto riguarda il carcinoma gastrico, le due principali strategie che sono state testate in vitro ed in vivo concernono l’inibizione dei recettori per i fattori di crescita epidermici (EGFR) e per i fattori di crescita vascolare endoteliale (VEGFR); nonostante i molteplici tentativi effettuati, solo di recente si sono avuti i primi successi in termini di aumento della sopravvivenza (25) (vedi sottocap. 15.2).
Numerosi studi hanno dimostrato la presenza di amplificazione del gene HER2 e l’iperespressione della proteina da esso codificata nel carcinoma gastrico. Tali alterazioni rappresentano attualmente l’aspetto clinicamente più rilevante della caratterizzazione biologica di questi tumori. La frequenza d’iperespressione del gene HER2 riportata in letteratura è variabile: in media, si rileva nel 20% dei pazienti e si associa ad una cattiva prognosi. Studi preclinici in vitro ed in vivo hanno dimostrato che alcuni farmaci come il Trastuzumab ed il Lapatinib sono efficaci in diversi modelli tumorali gastrici con iperespressione/amplificazione di HER2. I risultati forniti da tali studi hanno rappresentato le basi scientifiche per l’inizio di studi clinici (26-30).
Nel primo studio di fase III a riguardo, ToGA (Trastuzumab for Gastric Cancer), 594 pazienti con carcinoma gastrico HER2-positivo sono stati randomizzati per ricevere 5-Fluorouracile/Capecitabina e Cisplatino, da soli od in combinazione con il Trastuzumab. Nei pazienti che hanno ricevuto il trattamento combinato, si è osservato un aumento statisticamente significativo della sopravvivenza globale: l’aggiunta di Trastuzumab alla chemioterapia standard allunga in media la vita dei pazienti affetti da carcinoma gastrico (inoperabile, metastatico, localmente avanzato e con iperespressione di HER2) di quasi 3 mesi. Ad avvalersi dei maggiori benefici dall’aggiunta del Trastuzumab sono i tumori che mostrano alti livelli di espressione di HER2, valutata mediante tecniche di immunoistochimica e FISH (31) (vedi sottocap. 15.2). In seguito a questi risultati, la Commissione Europea ha approvato l’uso del Trastuzumab in combinazione con la chemioterapia nei pazienti con carcinoma gastrico metastatico HER2-positivo. Si tratta della prima terapia biologica mirata ad aver mostrato benefici in termini di sopravvivenza per i pazienti portatori di questa patologia.
Anche il Cetuximab, un anticorpo monoclonale anti-EGFR, è stato usato con successo nel carcinoma gastrico metastatico, assieme ad un regime chemioterapico FUFOX, ed è attualmente al centro di uno studio randomizzato di fase III, in combinazione con platino e fluoropiridine. Tuttavia, contrariamente a quanto si è verificato per il carcinoma del colon-retto, non è stata trovata al momento alcuna relazione tra l’attività del Cetuximab ed il livello di espressione di EGFR né, tantomeno, un’associazione con le mutazioni del gene K-ras, che nei pazienti con carcinoma del colon-retto hanno un significato predittivo negativo di risposta al trattamento (32,33).
Il recettore HER3, appartenente alla stessa famiglia di HER2, potrebbe diventare anch’esso un candidato per la terapia mirata, in particolare per l’istotipo diffuso, in cui si osserva spesso iperespressione di questa proteina (34).
Infine, il trattamento con farmaci mirati anti-VEGFR, i cui rappresentanti principali sono il Bevacizumab ed il Vatalanib, ha fornito risultati promettenti. Tuttavia, anche per questi farmaci, al momento non è possibile definire con esattezza quali pazienti possono trarre beneficio dalla terapia (35-37).
Sono molte altre le alterazioni molecolari che potrebbero essere oggetto di terapie mirate e per le quali sono in corso studi clinici; l’amplificazione di KsamII, che codifica per il FGFR2 e l’amplificazione di c-Met, che codifica per l’HGF, sono oggetto di studi clinici di fase II (38-40).

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RUOLO DELL’ENDOSCOPIA

8.1 Diagnosi
8.2 Terapia

8.1 Diagnosi
L’endoscopia del tratto digestivo superiore rappresenta oggi lo standard per la diagnosi di cancro gastrico, consentendo la visualizzazione della lesione mucosa e l’ottenimento di una biopsia per un riscontro diagnostico di tipo istopatologico. La diffusione dell’endoscopia ha, di fatto, marginalizzato l’uso della radiologia con pasto baritato nella diagnosi di questa neoplasia. Sono di seguito analizzate le problematiche inerenti l’uso appropriato dell’endoscopia digestiva superiore nei vari contesti clinici, ai fini della diagnosi di cancro gastrico.

a. Screening di popolazione
Lo screening di massa della popolazione per il cancro gastrico è, ad oggi, limitata a Giappone e Corea (1). In Giappone, lo screening di massa con pasto baritato si è dimostrato capace di aumentare la quota di cancri diagnosticati in fase precoce, suggerendo un possibile impatto sulla mortalità (vedi cap. 3.0, Tabella 1). Più recentemente, nello stesso contesto, l’endoscopia ha dimostrato una capacità diagnostica di 3-5 volte superiore a quella della radiologia. In Corea, dove il cancro gastrico rappresenta la seconda causa di morte per tumore dopo quello del polmone, la proporzione di early cancer è molto più elevata nei soggetti asintomatici che nei pazienti sintomatici (74-78% vs 26-36%) e viene stimato che l’endoscopia sia in grado di identificare un cancro gastrico nello 0.12% dei soggetti di età > 40 anni. Questi programmi di screening, per quanto suggestivi di efficacia, non sono stati comunque ancora validati attraverso studi randomizzati e controllati.
Nessuna esperienza di screening di popolazione è stata condotta nel mondo Occidentale, evidentemente per l’incidenza molto più bassa della malattia. In questi Paesi, incluso il nostro, l’identificazione di un numero di soggetti a rischio aumentato è quindi da considerarsi prerequisito necessario ai fini di qualsiasi strategia di diagnosi precoce.

b. Screening/sorveglianza di membri di famiglie affette da cancro gastrico ereditario
Circa il 10% dei cancri gastrici presenta aggregazione familiare, ma solo 1-3% di questi dimostra una chiara forma ereditaria (2). Il cancro gastrico ereditario di istotipo “diffuso” è una malattia a trasmissione autosomica dominante, con una penetranza di circa il 70%, attribuita ad una mutazione del gene E-cadherina (CDH1) (3). Il rischio di sviluppare cancro nel corso della vita per i portatori di mutazione è del 67% negli uomini e dell’83% nelle donne.

Figura 1 Criteri per selezionare i pazienti da sottoporre a test genetico (mutazione CDH1) (4)

I criteri riportati nella Figura 1 sono stati recentemente rivisti ed ampliati dall’International Gastric Cancer Linkage Consortium (IGCLC) (4). Per quanto riguarda il criterio n. 3, il limite di età potrebbe essere abbassato a 35 anni anche in aree ad alta incidenza di cancro gastrico (5).
Quanto al management dei soggetti riscontrati portatori della mutazione di CDH1, le recenti raccomandazioni dell’IGCLC suggeriscono la gastrectomia profilattica, a meno che la mutazione sia di incerto significato (per esempio, missense) o non sia riscontrabile nel caso-indice (4). In questi ultimi due casi, così come nel caso che il soggetto rifiuti la gastrectomia, una sorveglianza endoscopica su base annuale è raccomandata. La stessa sorveglianza endoscopica è raccomandata nei soggetti che, pur rientrando nei criteri di screening genetico, non risultino portatori di mutazione.
Rispetto alle precedenti raccomandazioni dello stesso IGCLC del 1999 (6), è stato molto limitato il ruolo della sorveglianza endoscopica ravvicinata (ogni 6 mesi) che, all’epoca, era accettata come alternativa alla gastrectomia profilattica. Le ragioni di questo cambiamento derivano dalla crescente evidenza che l’endoscopia è poco sensibile nella diagnosi precoce di cancro. Una serie di pubblicazioni ha evidenziato che foci di cancro early si riscontrano nella quasi totalità (> 90%) di portatori della mutazione sottoposti a chirurgia, anche se asintomatici e con biopsie endoscopiche negative (7-13). Per questa ragione, la gastrectomia è oggi considerata la strategia preferibile ai fini della prevenzione di una malattia invasiva e non più curabile (14-17).
Tecniche endoscopiche avanzate, quali la cromoendoscopia (18) e l’endomicroscopia confocale (19), potrebbero migliorare la sensibilità della sorveglianza endoscopica in questi soggetti, ma richiedono ulteriore validazione.
Quando l’aggregazione familiare di cancro gastrico non è accompagnata dall’istotipo “diffuso” (istotipo non noto od “intestinale”) si parla di cancro gastrico “familiare”, per il quale non sono disponibili raccomandazioni specifiche riguardo alla sorveglianza endoscopica.
Il cancro gastrico può essere anche parte della sindrome di Lynch, in genere caratterizzata dal più frequente cancro colorettale. Uno studio recente ha evidenziato come il rischio sia sostanziale (vicino al 10% nel corso della vita) e significativamente più elevato nei maschi che nelle femmine (20) (Figura 2). Questi dati costituiscono certamente un valido supporto scientifico in favore della sorveglianza endoscopica dello stomaco nei soggetti affetti da sindrome di Lynch. Tuttavia, sono necessari studi prospettici su coorti numerose di pazienti, perché si possano formulare raccomandazioni specifiche basate sull’evidenza.

Figura 2 Incidenza cumulativa di cancro gastrico in portatori di mutazione per sindrome di Lynch

Il cancro gastrico può essere espressione clinica anche della sindrome di Li-Fraumeni, malattia ereditaria autosomica dominante associata a mutazione germinale di p53 (21). L’incidenza del cancro gastrico nelle famiglie con questa sindrome è bassa (< 3%) e molto raramente sono state documentate mutazioni costituzionali di p53 associate a cancro gastrico (22). Per questi motivi, non sono state fino ad ora proposte raccomandazioni di sorveglianza per i portatori di mutazione, anche se un esame endoscopico annuale sembra ragionevole.
Infine, il cancro dello stomaco può raramente iscriversi nella sindrome di Peutz-Jeghers, una malattia ereditaria autosomica dominante associata alla mutazione del gene onco-soppressore STK11 (23). L’elevato rischio cumulativo di sviluppare cancro gastrico nel corso della vita per i portatori di mutazione (47% entro i 65 anni di età) suggerisce agli esperti di raccomandare la sorveglianza endoscopica in questi soggetti a partire dai 20 anni, ogni 2-5 anni (24).

c. Pazienti sintomatici
Il problema centrale nella diagnosi precoce, od almeno tempestiva, del cancro gastrico è rappresentato dall’appropriatezza dell’indicazione all’endoscopia nei pazienti con sintomi compatibili con la presentazione clinica della malattia, in particolare di quelli con dispepsia.
La dispepsia, definita come dolore, bruciore o fastidio localizzato nell’emiaddome superiore, rappresenta una condizione di osservazione molto frequente nella pratica clinica dei medici di medicina generale (2-3% delle visite) e degli specialisti gastroenterologi (circa il 40%). Se è vero che l’insorgenza di dispepsia, anche non associata a sintomi più severi, può occasionalmente essere l’unica sintomatologia di presentazione di un cancro gastrico, è altrettanto vero che un’indagine endoscopica estesa a tutti questi pazienti non risulterebbe adeguata in termini di costo-beneficio, in quanto porterebbe ad una diagnosi di malignità solo in una piccolissima frazione dei casi (< 1%) (25).
Le Linee Guida correnti sull’appropriatezza dell’indicazione alla esecuzione di una gastroscopia includono i cosiddetti segni/sintomi di allarme e/o l’età (> 45 anni), quali criteri di indicazione alla procedura nei pazienti dispeptici. Sia le Linee Guida redatte nel 1997 dall’European Panel for the Appropriateness of Gastrointestinal Endoscopy (EPAGE) (26), sia quelle indicate nel 2000 dall’American Society for Gastrointestinal Endoscopy (ASGE) (27) si ispirano a questa stratificazione dei pazienti con dispepsia. Entrambe le Linee Guida mancano di validazione attraverso studi randomizzati e sono supportate solo da una serie di studi osservazionali che, in generale, hanno dimostrato che quanto più l’indicazione è appropriata, maggiore è il riscontro diagnostico. Tuttavia, più o meno tutte le serie indicano che una diagnosi di cancro può sporadicamente avvenire anche nel contesto di un’inappropriata indicazione alla procedura, vale a dire in pazienti giovani senza segni di allarme; ciò ha generato un’ovvia incertezza nell’applicazione di queste Linee Guida. Nel 2002, Canga et al. (28) hanno riscontrato che in un’ampia serie retrospettica di tumori del tratto digestivo, solo 5 su 241 cancri (2%) erano stati diagnosticati in soggetti dispeptici, senza segni di allarme e più giovani di 55 anni. Peraltro, tutti e 5 i pazienti risultavano non curabili al momento della diagnosi, confermando la scarsa rilevanza, ai fini terapeutici, di un ritardo diagnostico in questa quota marginale di pazienti.
Una recente meta-analisi sull’applicazione retrospettiva delle Linee Guida ASGE o EPAGE in oltre 13.000 pazienti ha evidenziato una sensibilità del 97% nell’individuazione di un cancro del tratto digestivo superiore (Tabella 1).

Tabella 1 Diagnosi endoscopica di cancro gastrico secondo l’appropriatezza dell’indicazione alla procedura

Quale evoluzione delle Linee Guida basate solo sui sintomi di presentazione, nel 2007 l’ASGE ha proposto un algoritmo, nel quale l’indicazione all’endoscopia è posta anche sulla base della risposta degli stessi sintomi a tentativi terapeutici (30). Nello specifico, l’appropriatezza dell’indicazione alla procedura endoscopica viene estesa ai pazienti senza segni/sintomi di allarme o di età < 50 anni (non più di 45 anni), se i sintomi non sono regrediti dopo eradicazione di H.pylori e dopo studi con inibitori di pompa protonica (Figura 3).       Anche questa raccomandazione è in attesa di validazione formale attraverso studi prospettici e randomizzati, ma sembra al momento la più “ragionevole” alla luce delle evidenze disponibili.

Figura 3 Stratificazione dell’indicazione all’endoscopia nei pazienti con dispepsia

Un punto critico nella definizione delle linee-guida sull’appropriatezza dell’endoscopia è certamente rappresentato dal limite di età.
Nel 2009, uno studio multicentrico ha proposto il cut-off di 50 anni come quello più costo-efficace per eseguire un’endoscopia in pazienti dispeptici, essendo il costo di un approccio più permissivo estremamente elevato (25). In maniera speculare a quanto detto per lo screening di popolazione, questo approccio non è però applicabile a regioni del mondo ad alta incidenza di cancro gastrico, come Hong Kong, dove il 10% dei cancri insorge in soggetti di età < 45 anni, che avrebbero una ritardata diagnosi, se non avviati all’endoscopia all’insorgere del sintomo dispepsia.
Per ovviare alla possibilità che una diagnosi di malignità possa occasionalmente essere ritardata in pazienti giovani e senza segni di allarme, è emersa anche la proposta di sostituire il concetto di “endoscopia appropriata” con quello di “endoscopia prioritariamente indicata” (31). Tuttavia, la distinzione non sembra aiutare nel definire Linee Guida per un sistema a risorse limitate. E’ stata sollevata l’ipotesi che gli esami endoscopici eseguiti nei Paesi Occidentali siano meno accurati di quelli condotti nei Paesi Asiatici. E’ un fatto che in Europa la gran parte dei cancri gastrici vengono diagnosticati in stadio IV, mentre la diagnosi precoce di early cancer è alla base con miglior sopravvivenza osservata in Giappone. Evidenza indiretta viene poi dal follow-up endoscopico per lesioni precancerose (vedi paragrafo d), dal momento che in quasi l’1% dei pazienti europei, ma in nessuno di quelli asiatici, la diagnosi di cancro viene fatta entro 1 anno da un precedente esame negativo (32), il che suggerisce una minor sensibilità diagnostica in Occidente. Dal punto di vista metodologico, la differenza importante è che in Asia è routinario l’uso della cromoendoscopia, tecnica che attraverso l’uso di coloranti vitali, blue di metilene, con o senza rosso Congo, aiuta ad identificare aree di non captazione riferibili a metaplasia intestinale, displasia od early cancer (18,33). Tuttavia, non esistono dati definitivi circa l’accuratezza dell’endoscopia diagnostica nei pazienti sintomatici e l’uso della cromoendoscopia, che pure ha una potenzialità nella sorveglianza dei soggetti a rischio per cancro ereditario (vedi       sopra), non appare proponibile nella routine diagnostica di pazienti sintomatici in aree a bassa incidenza di malattia.
Infine, richiede una menzione l’accuratezza diagnostica dell’endoscopia nel determinare la natura di un’ulcera gastrica. Superato da tempo il concetto che un’ulcera benigna possa trasformarsi in lesione maligna, il punto sul quale esiste un consenso, anche se generico, è la necessità di ottenere adeguato campionamento bioptico al momento del primo riscontro (ASGE and American College of Gastroenterology Task force on Quality in Endoscopy) (34).
Le raccomandazioni non indicano un numero minimo di biopsie. Invece, rimane del tutto controverso (35,36) se sia o meno appropriato ripetere l’endoscopia a distanza di tempo per accertare la guarigione dell’ulcera e, soprattutto, per escludere una diagnosi di malignità non riconosciuta al primo esame. Di fatto, la pratica clinica corrente ricorre estesamente all’endoscopia di follow-up, con ricampionatura bioptica, nonostante l’assenza di coerenti raccomandazioni.

d. Sorveglianza dei pazienti con lesioni precancerose
I vari step istopatologici della cascata di carcinogenesi, originariamente descritta da Correa (37), si associano ad un rischio progressivamente crescente di cancro gastrico (38) (Figura 4).

Figura 4 Progressione a cancro gastrico delle lesioni precancerose in 92.250 pazienti Olandesi

I diversi livelli di rischio implicano approcci clinici differenti. Il riscontro di displasia severa, se confermata da 2 patologi, deve indirizzare alla resezione endoscopica od alla chirurgica della lesione (39).
Molto meno definita è la gestione della displasia lieve, che pure comporta un rischio di malignità simile od addirittura superiore a quello di lesioni precancerose di colon ed esofago, per le quali precise Linee Guida sono disponibili. Invece, le raccomandazioni di esperti per la displasia lieve ancor oggi variano dal controllo endoscopico annuale con nuova biopsia (40) ad un controllo trimestrale con mappatura bioptica della mucosa, almeno per il primo anno (41).
Ancora più problematica è la gestione clinica dei pazienti portatori di gastrite atrofica o metaplasia intestinale. Dal momento che solo una piccola porzione di questi soggetti sviluppa cancro, il follow-up endoscopico dovrà applicarsi solo ai pazienti a più alto rischio.
Il recente studio olandese (38) ha evidenziato, come fattori indipendenti di rischio di progressione, il sesso maschile e l’età avanzata. Studi precedenti avevano identificato altri fattori di rischio, quali la virulenza del ceppo H.pylori, la storia familiare di cancro gastrico, il fumo di sigaretta, nonché l’associazione con altre lesioni quali MALToma ed ulcera gastrica (42-46).
Tuttavia, sono le specifiche caratteristiche di severità della gastrite a determinare il rischio di progressione maligna (47). In particolare, la presenza di metaplasia intestinale incompleta (e non completa), nonché la severità e l’estensione della metaplasia sono i parametri oggi proposti quali elementi portanti di un nuovo algoritmo di sorveglianza (48) (Figura 5).
Ad oggi, però, l’unica raccomandazione formale ad una sorveglianza, peraltro non validata da studi randomizzati, rimane quella dell’ASGE relativa ai soggetti con metaplasia intestinale, che abbiano un’associazione etnica od una storia familiare di cancro gastrico (39). Peraltro, questa generica raccomandazione non definisce le modalità operative della sorveglianza.

Figura 5 Proposta di algoritmo per la gestione clinica e la sorveglianza della metaplasia intestinale (MI) della mucosa gastrica

Un’altra classe di lesioni endoscopiche potenzialmente associata allo sviluppo di cancro gastrico è rappresentata dai polipi gastrici epiteliali (49). Il riscontro di polipi gastrici attraverso esame endoscopico è frequente (1-4%), anche se variabile nelle diverse popolazioni e correlata alla prevalenza dell’infezione da H.pylori.
Uno studio recentemente condotto negli Stati Uniti su circa 120.000 pazienti, che nell’arco di un anno si sono sottoposti a gastroscopia, ha evidenziato una prevalenza di polipi gastrici pari al 3.75% (50). In questa popolazione a bassa prevalenza d’infezione da H.pylori (12.3% fra i pazienti sottoposti a biopsia gastrica), un’elevata maggioranza dei polipi (77.2%) è risultata di tipo fundico, il 14.4% di tipo infiammatorio/iperplastico e soltanto lo 0.7% di tipo adenomatoso. Questa ripartizione degli istotipi è grossolanamente diversa da quella riportata in precedenti serie in vari Paesi Occidentali. In particolare, la quota di polipi fundici risultava < 50% e, al contrario, la prevalenza degli adenomi risultava mediamente di un ordine di grandezza superiore (5-10%). L’interpretazione prevalente di questa evoluzione nel pattern istologico dei polipi gastrici è che i polipi fundici, precedentemente considerati di origine amartomatosa, siano in effetti conseguenza dell’uso protratto di inibitori di pompa protonica (PPI) in soggetti liberi da infezione da H.pylori. Ad ogni modo, questi polipi non hanno potenziale oncogenico. E’ sufficiente in questi casi ottenere la tipizzazione istologica di uno o più polipi e considerare la sospensione della terapia con PPI per i polipi di diametro > 0.5 cm (50). Eccezione a questo criterio, è rappresentata dai polipi fundici associati alla poliposi familiare, avendo questi polipi un rischio di displasia e di evoluzione maligna (30-50%) (51). I polipi iperplastici hanno un basso, ma consistente rischio di trasformazione maligna (circa il 2%, range 1-20%). Essi conseguono in genere alla gastrite associata ad H.pylori, ma si formano anche in sede di anastomosi successiva a gastroresezione. Il riscontro di polipi iperplastici in sede non anastomotica dovrebbe comportare una mappatura estesa della mucosa gastrica, l’eradicazione di H.pylori ed un’endoscopia di follow-up a 6 mesi (49-52). Quando al polipo iperplastico si associano altre lesioni precancerose (estesa gastrite atrofica, metaplasia intestinale), la lesione deve essere considerata a maggior rischio di malignità (53) e seguita con un programma di sorveglianza individualizzato, ma non definito. I polipi iperplastici in sede chirurgica sono di management tuttora incerto.
Da ultimo, i polipi adenomatosi possono presentarsi associati alla FAP (Familial Adenomatous Polyposis), ma anche come sporadici, rappresentano una lesione precancerosa ben definita e, anch’essi, si generano più frequentemente in presenza di gastrite atrofica e di metaplasia intestinale. I polipi adenomatosi si differenziano dagli altri polipi per il loro aspetto vellutato e lobulato, per la sede antrale e per il fatto di essere usualmente solitari (82%) (54). Il potenziale maligno dei polipi adenomatosi correla con la loro dimensione. Le Linee Guida dell’ASGE (39) per i polipi adenomatosi raccomandano sorveglianza endoscopica annuale con esteso campionamento bioptico. Qualora il numero e le dimensioni degli adenomi lo permettano, appare anche consigliabile la bonifica della mucosa gastrica con asportazione di tutti i polipi identificati.

8.2 Terapia

Negli ultimi 20 anni, l’endoscopia ha acquisito anche un ruolo terapeutico nel rimuovere il cancro gastrico allo stadio early. Il razionale per l’endoscopia, quale metodica di cura radicale per le forme di cancro gastrico più superficiale, nasce dalla semplice osservazione che quando la neoplasia è ben differenziata e confinata all’interno della muscularis mucosae, il rischio di metastasi linfonodale è molto basso e comunque inferiore al rischio chirurgico (55). Questo primo riscontro su una casistica Giapponese è stato più recentemente confermato anche da studi Italiani (56,57). Due sono le tecniche endoscopiche utilizzate per l’asportazione endoscopica delle neoplasie superficiali dello stomaco: la resezione della mucosa (EMR) e la dissezione sottomucosa (ESD), più recentemente proposta. Ciò che più distingue le due tecniche è che la EMR consente di rimuovere in un pezzo unico lesioni sino ad un diametro massimo di cm, mentre la ESD ha la possibilità di rimuovere en-bloc ogni tipo di lesione, indipendentemente dalla morfologia e dalla dimensione. Proprio per questa sua caratteristica, la ESD ha consentito di superare uno dei problemi che maggiormente inficiava l’outcome dei pazienti trattati con tecnica di EMR, vale a dire l’elevata percentuale di recidiva delle lesioni legata ad una non completa rimozione dei margini più laterali della lesione (58).
Nella Figura 6 sono riportati i criteri di indicazione a mucosectomia per cancro gastrico originariamente formulati dalla Japanese Gastric Cancer Association (59). Successivamente, Godota et al. (55) dimostrarono che anche tumori penetranti fino agli strati più superficiali della sottomucosa gastrica (non oltre i 500 μm, “SM1” secondo la classificazione di Parigi) (60) avevano un rischio minimo di metastasi linfonodali, purché di diametro <= 3 cm, ben differenziati e non presentassero segni di infiltrazione linfo-vascolare. Questa dimostrazione ha innanzitutto promosso il concetto che anche tumori penetranti il primo strato della sottomucosa potessero essere curati endoscopicamente, purchè resecati en bloc. Di conseguenza, criteri più ampi (expanded) per l’approccio endoscopico con ESD alle neoplasie superficiali dello stomaco sono stati proposti (61) (Figura 7).

Figura 6 Linee-guida originali della Japanese Gastric Cancer Society per la resezione endoscopica del cancro gastrico “early (vedi anche cap. 2.0)

Figura 7 Proposta di ampliamento dei criteri per la resezione endoscopica mucosa (EMR) o per la dissezione sottomucosa (ESD) del cancro gastrico “early

La ESD, potendo rimuovere la lesione en bloc e potendo modulare i margini e la profondità di resezione, si candida a gold standard nelle resezioni endoscopiche del cancro gastrico early.
Se i criteri di indicazione sono rispettati, le percentuali di successo tecnico e di resezione curativa delle lesioni gastriche a mezzo di ESD sono oltre il 90%, con curve di sopravvivenza a 5 anni assolutamente sovrapponibili a quelle della chirurgia per pazienti con lo stesso stadio di malattia (62-64). Purtroppo, la tecnica di ESD è gravata da una percentuale di complicanze ancora molto alta (> 5%) ed è poco diffusa, al di fuori del Giappone, per la sua complessità tecnica e per il fatto che richiede una lunga learning curve. Da questo punto di vista, l’evoluzione tecnologica degli strumenti e degli accessori sarà determinante rispetto all’effettivo impatto che queste procedure avranno nella cura del cancro gastrico (65).
Nonostante gli ottimi risultati ottenuti in casistiche Asiatiche ed Occidentali e nonostante le tecniche di resezione trovino sempre maggior spazio nella pratica clinica, va ricordato che l’evidenza di efficacia della terapia endoscopica manca, ad oggi, di studi randomizzati di confronto con la chirurgia (66,67).

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RUOLO DELLA LAPAROSCOPIA

9.1 Indicazioni
9.2 Controindicazioni
9.3 Procedure
9.4 Complicanze della Resezione Gastrica Laparoscopica (RGL)
9.5 Risultati a confronto con la gastrectomia open

Premessa
A partire dal 1989, quando Dubois et al. (1) riportarono la loro esperienza sulla colecistectomia eseguita in laparoscopia, gran parte della chirurgia addominale ha progressivamente e rapidamente abbracciato questa metodica mini-invasiva per i noti benefici che comporta nel ridurre il dolore post-operatorio, la durata del ricovero e della convalescenza ed, in taluni casi, il numero delle complicanze (come, ad esempio, la formazione di laparoceli). Tuttavia, resta ancora controversa la fattibilità, in termini di sicurezza oncologica, delle varie procedure laparoscopiche addominali, per cui è accaduto che la diffusione delle tecniche laparoscopiche per la cura delle patologie maligne, nei vari Centri di chirurgia mini-invasiva, sia stata più lentamente adottata rispetto a quanto è avvenuto per gli interventi eseguiti per la cura di patologie benigne.
La chirurgia laparoscopica del cancro gastrico non sfugge a tale orientamento, almeno nei Paesi Occidentali, tenendo conto anche della minore incidenza di questa patologia rispetto a quanto avviene fra le popolazioni asiatiche. Di conseguenza, è accaduto che, mentre il ruolo della chirurgia gastrica laparoscopica si è consolidato rapidamente per il trattamento di patologie come il reflusso gastroesofageo e l’obesità grave, la sua applicazione nel cancro gastrico rimane ancora modesta e suscita dubbi fra gli operatori occidentali.
In Asia, invece, già nel 1992 Ohgami et al. (2) descrissero la prima wedge resection laparoscopica per il trattamento dell’Early Gastric Cancer (EGC).
Successivamente, Ohashi et al. (3) misero a punto per primi la mucosectomia intra-gastrica per EGC della parete posteriore dello stomaco.
Occorre tuttavia attendere il 1994, quando Kitano et al. (4) resero noto di aver eseguito la prima gastrectomia distale laparoscopica con ricostruzione secondo Billroth I, con una dissezione linfonodale D1 modificata (D1+gruppo dell’arteria gastrica sinistra e D1+gruppo dell’arteria epatica comune) per il trattamento di un EGC con elevato rischio di ripetizioni linfonodali. La descrizione di questo caso fu considerata come la dimostrazione della fattibilità della resezione gastrica laparoscopica comprensiva di un’appropriata linfadenectomia, specie in queste regioni.
In Occidente, lo scetticismo riguardo all’efficacia oncologica e la lunga curva di apprendimento, difficilmente compatibile con la ridotta incidenza della patologia, hanno fatto sì che la laparoscopia per cancro gastrico fosse “relegata” ad un ruolo puramente diagnostico, come aggiunta allo staging pre-operatorio e per individuare i pazienti con forme avanzate da sottoporre a chemioterapia neoadiuvante.
Più recentemente, la wedge resection è stata applicata anche nei nostri Paesi al trattamento di tumori stromali, carcinoidi ed adenocarcinomi early stage, mentre la gastroresezione laparoscopica distale, totale e subtotale stanno iniziando a diffondersi solo negli ultimi anni, acquistando sempre più il favore da parte dei vari gruppi chirurgici.
A dimostrazione di ciò, nel 1997 Goh et al. (5) hanno pubblicato i primi risultati ottenuti in 118 casi, avendo inviato un questionario a 16 chirurghi dislocati in 12 diverse Nazioni in tutto il mondo. Dalla ricerca è risultato che 10 operatori ritenevano la gastrectomia distale laparoscopica superiore a quella convenzionale open, in quanto conduceva ad un più veloce ricovero e con minori sofferenze. Dopo di allora, le pubblicazioni sull’argomento si sono rapidamente moltiplicate ed attualmente si possono annoverare alcuni studi con elevato livello di evidenza (6 studi prospettici randomizzati e 3 ampie meta-analisi) (6-15) e numerosi studi con minor livello di evidenza, tutti in tema di chirurgia gastrica video-assistita per cancro.

9.1 Indicazioni

Le indicazioni della chirurgia gastrica laparoscopica, che sono di seguito riportate, sono sintetizzate in Tabella 1.

Tabella 1 Le indicazioni della chirurgia gastrica laparoscopica

Laparoscopia con finalità diagnostiche
Un’ampia rassegna della letteratura su questo argomento, pubblicata ormai una dozzina di anni fa, si deve all’opera di Jerby et al. (16), che hanno individuato 6 categorie oncologiche principali che si giovano della stadiazione laparoscopica: cancro esofageo, gastrico, pancreatico, epatocarcinoma, colangiocarcinoma, cancro colorettale e linfoma. Nel cancro gastrico vi sono a tutt’oggi solo segnalazioni osservazionali prospettiche o retrospettive con medio grado di evidenza. Tali studi raccomandano l’utilizzo della laparoscopia diagnostica in cancri gastrici non stenosanti e non sanguinanti avanzati (>= T2). Una recente indagine ha indicato che in tali pazienti la laparoscopia è risultata diagnostica con una sensibilità dell’87.5-89% ed una specificità del 100% per le metastasi peritoneali e rispettivamente del 100% per quelle in siti distanti (17). Nei pazienti selezionati in questo studio, ben il 37.8% dei casi risultava positivo a questo esame, risultato che ha permesso di risparmiare una laparotomia inutile, preferendo invece il ricorso a terapie con chemioterapici neoadiuvanti.
Peraltro, la tendenza attuale a trattare con chemioterapia adiuvante tutti i tumori che non siano early ed i recenti progressi dell’imaging non invasiva hanno in parte ridimensionato la tradizionale indicazione alla laparoscopia con pura finalità diagnostica.
La laparoscopia diagnostica ha inoltre limiti di sensibilità rilevanti nella valutazione degli organi solidi addominali, delle strutture retroperitoneali e dei linfonodi. E’ stata pertanto introdotta l’eco-laparoscopia come ausilio diagnostico della sola laparoscopia. Questa si è rivelata una metodica assai utile nel rilievo di piccole metastasi epatiche e linfonodali e per una valutazione più esatta dell’estensione locale del tumore gastrico (per esempio, eventuale estensione ad organi retroperitoneali come il pancreas).
In particolare, nel cancro gastrico, a seconda della localizzazione del tumore, alcuni linfonodi regionali vengono oramai classificati come metastasi a distanza (ad esempio, ilo splenico o paracardiali per i tumori antrali e colici medi per tutti i tumori). Il rilievo di metastasi in questi linfonodi, che modifica il piano terapeutico del paziente, può essere facilitato dall’eco-laparoscopia (18).
Infine, assai recentemente è stato introdotto il concetto di “linfonodo sentinella” anche per il carcinoma gastrico precoce (T1). In pazienti con tali tumori, il mappaggio del linfonodo sentinella con colorante blu o mezzo radioattivo potrebbe essere utile nell’indicare il tipo di linfoadenectomia laparoscopica più appropriata. Tale metodica per il momento, tuttavia, non ha trovato alcuna applicazione clinica per i risultati assai controversi degli studi effettuati in proposito.

Laparoscopia con finalità terapeutiche
EGC
Le prime tecniche mini-invasive ad essere impiegate nel trattamento dell’EGC sono state la wedge resection laparoscopica e la intragastric mucosal resection, in pazienti con basso rischio di ripetizioni linfonodali ovvero in casi di tumore confinato alla mucosa, in cui la possibilità di una positività linfonodale è solo dell’1-3%.
L’esecuzione di tali metodiche, messe a punto e diffuse inizialmente da Oghami ed Ohashi (2,3), si è successivamente ridotta con l’introduzione della mucosectomia e sotto-mucosectomia endoscopica.
Le Linee Guida della Japanese Gastric Cancer Association per il trattamento del cancro gastrico pongono l’indicazione alla mucosectomia laparoscopica in caso di EGC mucoso di diametro < 2 cm, privo di ulcerazioni. La sotto-mucosectomia è invece una nuova tecnica, che permette l’asportazione in blocco di EGC di diametro < 3 cm (vedi cap. 8.0). La wedge resection e la intragastric mucosal resection sono accettate ormai esclusivamente per il trattamento di EGC localizzati nella porzione alta dello stomaco od in prossimità dell’anello pilorico. La resezione gastrica laparoscopica (RGL) è quindi indicata attualmente nei casi in cui non siano applicabili le metodiche sopra riportate (19).
Con la RGL, la cui realizzazione e diffusione è stata resa possibile anche grazie all’introduzione di nuove tecnologie e strumentazioni, quali i coagulatori a radiofrequenza ed a ultrasuoni, è possibile effettuare tre tipi di linfoadenectomie: perigastriche (D1), linfoadenectomia aggiuntiva lungo l’arteria gastrica sinistra (D1+alfa) o epatica comune (anteriori, tripode) (D1+beta) e linfoadenectomia estesa (D2). Quale sia il tipo di dissezione di scelta nelle varie tipologie di EGC è un argomento tuttora dibattuto.
Yasuda et al. (20) raccomandano la D1 alfa per gli EGC sottomucosi di diametro di 1-4 cm. Hyung et al. (21) hanno proposto una linfoadenectomia D2 per adenocarcinomi sottomucosi differenziati > 2.5 cm ed indifferenziati > 1.5 cm. Secondo la Japanese Gastric Cancer Association dovrebbe essere eseguita la seguente linfoadenectomia:

I vantaggi della linfoadenectomia D2 nella popolazione dei pazienti con cancro gastrico e positività per N è stata di recente sottolineata anche da ricercatori italiani (22).
Un altro campo di applicazione della RGL è rappresentato dai casi di EGC residuo dopo mucosectomia endoscopica e dalle recidive. Fra i pazienti appartenenti alla prima categoria, il 55% ha infatti un adenocarcinoma sottomucoso.

Cancro gastrico avanzato
In Giappone, la fattibilità della gastroresezione laparoscopica con linfoadenectomia D2 è stata suffragata da uno studio giapponese in cui il 30-40% dei pazienti con metastasi, anche della seconda catena, sottoposti a dissezione D2-D3 sono sopravvissuti a 5 anni (23). Molti altri studi delle équipe di Paesi Orientali hanno successivamente riferito dei bassi indici di mortalità e morbilità nella gastrectomia D2 laparoscopica.
Tuttavia, i chirurghi americani e quelli degli altri Paesi Occidentali (Olanda) non hanno inizialmente applicato la laparoscopia nella linfoadenectomia D2 profilattica, perché uno studio randomizzato europeo ha indicato l’assenza di vantaggi di sopravvivenza di D1 rispetto a D2 a breve termine (24). Dal momento che in questo studio è stata messa in evidenza l’alta mortalità operatoria negli interventi D2 (> 10%), gli Autori hanno inizialmente sconsigliato l’uso di D2 nella pratica clinica.
In Occidente, le esperienze del trattamento dell’adenocarcinoma gastrico in laparoscopia si sono sviluppate sopratutto in Europa, con un piccolo contributo iniziale da parte dell’America, che ha prodotto le sue maggiori pubblicazioni solo negli ultimi anni. E’ da segnalare, infatti, lo studio controllato randomizzato, realizzato in Italia da Huscher et al., che hanno dimostrato la fattibilità della gastrectomia subtotale laparoscopica, con la dissezione di linfonodi D2 in casi di cancro avanzato, pur in presenza di una mortalità più elevata rispetto alla laparatomia (13).
Più recentemente, altri ricercatori italiani hanno pubblicato i risultati di un’ampia esperienza a lungo termine, che conferma la fattibilità della RGL, pur con un’elevata percentuale di morbilità (25).
In America, invece, il primo gruppo di ricercatori che ha descritto la propria esperienza in tema di gastrectomia laparoscopica con intenti curativi per cancro avanzato è stato quello di Reyes del Mount Sinai Medical Center nel 2001 (26). In questo studio retrospettivo caso-controllo con 36 pazienti, di cui 25 con cancro, furono confrontati gli esiti di 18 interventi laparoscopici e 18 ad addome aperto. Non vi furono differenze significative nell’estensione della dissezione linfonodale o nelle complicanze intra-operatorie fra i due gruppi. Successivamente, nel 2006 Varela et al. (27) pubblicarono la seconda esperienza di gastrectomia laparoscopica per cancro gastrico effettuata negli Stati Uniti, che rappresenta il maggior contributo americano, e conferma la fattibilità e la sicurezza dell’approccio mini-invasivo al cancro gastrico.
Attualmente, anche in Occidente, con le recenti dimostrazioni dei chiari vantaggi in termini di recidiva locale e sopravvivenza a lungo termine della gastroresezione D2 rispetto alla D1 nel carcinoma gastrico avanzato, si sono moltiplicati gli studi su casistiche di pazienti sottoposti a questo intervento in chirurgia laparoscopica (22,28,29).
Deve essere comunque sottolineato che la dissezione D2 laparoscopica richiede una curva di apprendimento assai lunga, così come accade per la chirurgia ad addome aperto. Pertanto, per stabilire definitivamente se sia fattibile o meno la gastrectomia laparoscopica con dissezione D2 per il trattamento dei cancri avanzati, devono essere ancora sviluppate tecniche sicure e strumentazioni innovative.
D’altra parte, è noto che il cancro gastrico avanzato spesso recidiva dopo il trattamento chirurgico sotto forma di disseminazione peritoneale o di metastasi ematogene. Gli effetti provocati dallo pneumoperitoneo da CO2 su questo fenomeno e, quindi, sull’incidenza di questo tipo di recidiva non sono ancora noti.
Per quanto concerne il cancro del corpo/fondo gastrico, nel 1999 Azagra et al. (30) hanno descritto la prima gastrectomia totale laparoscopica. Da allora, grazie anche alle evoluzioni tecnologiche, si sono moltiplicate le segnalazioni aneddotiche di questo tipo di intervento mini-invasivo, ma a tutt’oggi mancano degli studi prospettici con alto livello di evidenza sulla sua fattibilità, riproducibilità e sicurezza.

9.2 Controindicazioni

Come per altre condizioni cliniche, anche nel caso del cancro gastrico, controindicazioni relative all’intervento chirurgico per via laparoscopica sono rappresentate dall’insufficienza cardio-respiratoria severa con ipercapnia o dall’anamnesi positiva per precedenti interventi chirurgici, specie in sede addominale sovramesocolica.
Il cancro gastrico avanzato non è necessariamente considerato una controindicazione all’approccio laparoscopico, tranne nel caso di un tumore con stadiazione T4, esteso oltre i confini dell’organo e/o con infiltrazione di strutture viciniori, tale da necessitare di una resezione multiorgano o di una chirurgia palliativa (31).
Infine, come emerso da quando sopra detto, è necessario un alto grado di expertise tecnico specifico sia da parte degli operatori sia di tutta l’équipe di sala operatoria, nonché la disponibilità di strumentazione laparoscopica avanzata (25).

9.3 Procedure

Generalità
L’organizzazione della sala operatoria è la seguente: il paziente viene posto in posizione supina con le braccia addotte al torace. Le gambe vengono divaricate ed assicurate ai gambali, in modo che l’operatore possa disporsi in mezzo e gli aiuti comodamente a destra ed a sinistra dello stesso. I monitor vengono posizionati al di sopra delle spalle del paziente.
La tipica posizione dei trocar viene mostrata in Figura 1. Un assistente, a destra del paziente, tiene il divaricatore per il fegato, che passa attraverso il trocar sottocostale destro e gestisce la telecamera. L’aiuto alla sinistra utilizza il port laterale sinistro per scopi di divaricazione. Il primo operatore utilizza anzitutto il trocar epigastrico e quello mediale sinistro.

Figura 1 Disposizione dei trocar nella resezione gastrica laparoscopica

Gastrectomia distale
In breve, per quanto concerne la gastrectomia D1, i tempi operatori sono schematicamente i seguenti: 1) inserzione del laparoscopio attraverso un’incisione peri-ombelicale; 2) inserzione di altri 4-5 trocar per gli strumenti da presa e da dissezione, fra i quali il bisturi ad ultrasuoni od a radiofrequenza; 3) sezione del legamento gastrocolico, isolando il grande omento dal colon trasverso; 4) legatura dei vasi gastroepiploici destri per facilitare la dissezione dei linfonodi sotto-pilorici; 5) apertura del piccolo omento a livello sovra-pilorico, legatura dei vasi gastrici destri fra clip ed asportazione del gruppo linfonodale sovra-pilorico; 6) sezione del duodeno 1 cm distalmente al piloro, utilizzando una suturatrice endoscopica lineare di tipo vascolare; 7) lo stomaco viene completamente mobilizzato e vengono sezionati tra clip anche i vasi gastrici sinistri; 8) vengono dissecati e portati verso la porzione di stomaco da resecare anche i linfonodi paracardiali destri e superiori; 9) resezione gastrica con stappler lineare o in sede extra-corporea, previa creazione di una mini-laparotomia di 4-5 cm di lunghezza subito al di sotto dell’epigastrio, attraverso la quale viene estratto lo stomaco, sezionato ed asportato; 10) ricostruzione intracorporea della continuità intestinale con metodica Billroth I (descrizione originaria di Kitano), Billroth II o su ansa alla Roux utilizzando una stappler lineare.

Gastrectomia totale
In questo caso, viene realizzata un’esofago-digiuno-stomia termino-laterale con stappler lineare ed un’ileo-ileostomia intracorporea a piè d’ansa dalla mini-laparotomia.

Gastrectomia hand-assisted
Gli svantaggi tecnici nella chirurgia laparoscopica includono l’assenza del feedback tattile e la limitazione di movimento degli strumenti. Pertanto, sono state sviluppate parallelamente tecniche hand-assisted e sono state adottate per i seguenti interventi che richiedono procedure complesse: RGL con dissezione D2 per cancro avanzato, gastrectomia prossimale (rara) e gastrectomia totale.
Ci sono tuttavia pochi studi che mostrano i risultati della gastrectomia hand-assisted per cancro gastrico. Kim et al. hanno paragonato la gastrectomia hand-assisted con la RGL e con la chirurgia open, concludendo che la hand-assisted può essere una eccellente tecnica dal punto di vista didattico, in quanto il chirurgo acquisisce in tal modo esperienza sulla gastrectomia laparoscopica con una più rapida curva di apprendimento (32).

Gastrectomia robotica
La chirurgia robotica per il cancro gastrico è stata riportata solo da alcuni ricercatori. Solo uno studio di Autori coreani è stato condotto per confrontare la chirurgia robotica a quella laparoscopica o laparotomica (33). I risultati ottenuti su piccole coorti di pazienti sono a favore della chirurgia robotica rispetto sia alla laparoscopica sia alla laparotomica per quanto concerne l’outcome a breve termine. Tuttavia, altre ricerche debbono essere compiute per validare tali risultati.

9.4 Complicanze della Resezione Gastrica Laparoscopica (RGL)

Le difficoltà tecniche della RGL rendono ragione del tasso di conversione alla laparotomia e dell’incidenza delle complicanze post-operatorie.
Molti articoli su tali complicanze riguardano studi caso-controllo o casistiche di pazienti. Il tasso di conversione varia dal 2.3% al 25% e la principale causa risulta essere l’estensione eccessiva del cancro, anziché le complicanze intra-operatorie. Secondo la JSES (Japan Society of Endoscopic Surgery), l’incidenza delle complicanze intra- e post-operatorie associate alla RGL sono del 2% e del 12%, rispettivamente. Le complicanze intra- e post-operatorie più frequenti sono il sanguinamento ed i problemi di realizzazione dell’anastomosi. La deiscenza anastomotica è dello 0.5% e la stenosi del 3.5%. La mortalità è pari a zero (34).
Sembra che la RGL con dissezione D1alfa non determini complicanze minori rispetto alla D2. Negli interventi condotti da chirurghi con maggior esperienza, l’incidenza delle complicazioni è chiaramente ridotta.

9.5 Risultati a confronto con la gastrectomia open

In Tabella 2 sono riportati i risultati dei principali studi comparativi sulle due tecniche con elevato livello di evidenza.

Tabella 2 Analisi comparativa dei risultati della resezione gastrica laparoscopica (RGLS) e laparotomica (RGLT) con elevato livello di evidenza

La chirurgia laparoscopica dello stomaco è senz’altro un intervento complesso che richiede un’ampia curva d’apprendimento. I tempi operatori riportati variano tra 90 e 360 minuti,              ovviamente i tempi più lunghi si osservano in caso di chirurghi meno esperti e la durata della degenza varia da 3 a 7 giorni, ma fino ad 1 solo giorno per i pazienti sottoposti a wedge resection. Il ritorno alla normale attività quotidiana varia ampiamente nei diversi studi tra 7 giorni a più di 1 mese nei casi soggetti a complicanze.
Sono stati condotti diversi studi comparativi sulla morbilità chirurgica nella gastrectomia laparoscopica rispetto a quella ad addome aperto. La maggior parte di essi hanno dimostrato un’incidenza uguale o minore di complicanze nel caso della RGL rispetto a quella open.
Anche nel caso di pazienti obesi, la morbilità e la durata dell’ospedalizzazione non sono risultati aumentati, nonostante il trattamento RGL negli obesi richieda un tempo operatorio              più lungo rispetto ai non-obesi.
Sono stati condotti diversi studi sull’invasività della RGL rispetto alla gastrectomia open. Alcuni studi retrospettivi e prospettici di singoli Centri hanno indicato una più rapida ripresa della funzione intestinale dopo RGL. Altre ricerche hanno messo in evidenza che la RGL è caratterizzata da dolore post-operatorio decisamente minore rispetto all’intervento laparotomico. Inoltre, anche nei pazienti anziani affetti da EGC, la RGL offre particolari vantaggi in termini di ripresa della funzione intestinale, numero di complicazioni e più breve ospedalizzazione. Ulteriori vantaggi a breve termine della RGL sono emersi da uno studio randomizzato, che ha dimostrato che la funzione respiratoria nel periodo post-operatorio era migliore dopo RGL, verosimilmente grazie ad un minor dolore post-operatorio (6-15). Tuttavia, vantaggi cospicui in termini di durata della degenza e ripresa della normale attività quotidiana sono stati negati da altri studi.
Comunque, il motivo principale dello scetticismo riguardante la RGL è rappresentato (come accennato sopra) dalla sensazione di molti chirurghi che tale procedura non permetta l’asportazione di un numero di linfonodi sovrapponibile a quello che si ottiene con tecnica open. Di fatto, i risultati degli studi, anche ad elevato livello di evidenza, che hanno preso in considerazione tale problematica, sono tuttora controversi.
Riguardo ai costi, studi caso-controllo hanno indicato che la RGL è un intervento più economico rispetto alla chirurgia convenzionale in virtù della più breve durata dell’ospedalizzazione (32).
Molti studi retrospettivi sono stati realizzati su un modesto numero di pazienti e con follow-up a breve termine, mentre ci sono pochi studi che hanno preso in considerazione i risultati a lungo termine della RGL. Solo uno studio prospettico randomizzato su tale tema è stato compiuto da Huscher et al. (13), che hanno riferito risultati post-operatori a 5 anni              di un piccolo gruppo di pazienti sottoposti a RGL ed a gastroresezione open, rispettivamente. Questi ricercatori non hanno notato differenze significative nei due gruppi in termini di morbilità, mortalità, sopravvivenza globale o disease free.
In conclusione, la chirurgia gastrica laparoscopica per cancro è una alternativa percorribile rispetto a quella laparotomica, con un tasso di complicanze sovrapponibile ad essa e risultati eccellenti in mani esperte. Tuttavia, rispetto ad altri tipi di chirurgia quali la colecistectomia e la chirurgia anti-reflusso, in cui la durata del ricovero è drammaticamente ridotta, così come quella della convalescenza, nel caso della chirurgia gastrica laparoscopica non è risultato così evidente il vantaggio rispetto a quella open, quando non effettuata da équipe con la dovuta esperienza. Pertanto, tale tipo di interventi mini-invasivi sono da riservarsi solo a Centri con elevato flusso di pazienti, adeguato expertise chirurgico dell’intera équipe operatoria e dotazione di strumentazione laparoscopica adeguata.

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CHIRURGIA

11.1 Early Gastric Cancer
11.2 Carcinoma gastrico avanzato
11.3 Gastrectomia laparoscopica
11.4 Chemio Ipertermia Intra Peritoneale (CIIP)
11.5 Definizione complicanze e pazienti a rischio

11.1 Early Gastric Cancer

L’Early Gastric Cancer (EGC) è, per definizione, il carcinoma gastrico confinato alla mucosa o alla sottomucosa indipendentemente dalla presenza od assenza di metastasi linfonodali.
Secondo una recente revisione sistematica (1) di 45 studi (circa 12.000 pazienti), l’EGC confinato alla mucosa ha una prevalenza di metastasi linfonodali del 3.2% (valore mediano) e quello infiltrante la sottomucosa del 19.2% (valore mediano). Nell’esperienza di Gotoda et al. (2), il grado d’infiltrazione della sottomucosa ha molta importanza nel condizionare la presenza di metastasi linfonodali: mentre solo l’8.8% dei tumori della sottomucosa di grado 1 (SM1), cioè con infiltrazione < 500 μm dalla muscularis mucosae, presentava metastasi linfonodali, la percentuale saliva al 23.7% nei tumori sottomucosi di grado 2 (SM2), cioè con infiltrazione > 500 µm dalla muscularis mucosae.
Le metastasi al II livello sono abbastanza rare: 0.4% nei tumori solo mucosi e 4.9% in quelli coinvolgenti la sottomucosa.
La diagnosi e la terapia dell’EGC ha subito un’evoluzione nell’ultima decade in seguito ad un miglioramento delle tecniche diagnostiche e all’adozione di nuove strategie terapeutiche. Questo è avvenuto soprattutto nei Paesi Orientali, dove il 70% di tutti i tumori gastrici diagnosticati si presenta come EGC, grazie all’esistenza di programmi di screening di massa, mentre nell’emisfero occidentale gli EGC costituiscono soltanto circa il 15% di tutti casi.
La presenza di metastasi linfonodali costituisce il più importante fattore prognostico per la sopravvivenza ed in genere determina l’opzione tra la tradizionale chirurgia radicale e quella limitata e confinata all’organo, quali la resezione mucosa endoscopica (EMR), la dissezione sottomucosa endoscopica (ESD) e la wedge resection laparoscopica (vedi sottocap. 8.2). Peraltro, anche con la chirurgia tradizionale si osservano recidive per lo più linfonodali ed epatiche nell’8% dei pazienti linfonodo-positivi ed in misura proporzionale al numero di linfonodi compromessi.
EMR e ESD rappresentano il trattamento standard in Giappone, mentre in Italia questo approccio è ancora sporadico per la relativa rarità della malattia, che ostacola l’acquisizione di procedure conservative peraltro tecnicamente assai sofisticate.
E’ noto che, per una serie di problematiche tecniche, la diagnostica per immagini presenta notevoli limiti di definizione dello stato linfonodale: l’ecografia endoscopica nei tumori gastroesofagei ha una sensibilità del 59.5-97.2% ed una specificità del 40-100%, la tomografia assiale computerizzata ha sensibilità e specificità dell’84% e la PET ha un’ottima specificità (90-97%), ma bassa sensibilità (34-64.6%).
La pianificazione della terapia chirurgica in funzione dello stato linfonodale è gia stata illustrata nei capitoli 8 e 9 e si basa sostanzialmente sulla probabilità di riscontrare metastasi linfonodali in base ad alcune caratteristiche morfologiche del tumore primitivo, definite all’esame endoscopico e bioptico.
Un’analisi italiana su 652 casi conclude che la linfoadenectomia dovrebbe comprendere almeno 15 linfonodi, poiché con linfo-adenectomie più limitate si sono osservate più recidive (3).
Questi criteri possono apparire eccessivamente restrittivi e quindi responsabili di un ricorso eccessivo alla chirurgia radicale. In questa ottica sono utili sia i risultati di Gotoda et al. (4), che correlano la prevalenza di metastasi linfonodali con le caratteristiche tumorali (Tabella 1), sia i suggerimenti di una recentissima revisione sistematica (1), che ha identificato i fattori di rischio per metastasi linfonodali nei pazienti con tumori mucosi e sottomucosi.

Tabella 1 EGC e rischio di metastasi linfonodali

Nel caso di pazienti con tumori mucosi, tali fattori sono: età < 57 anni, sede mediogastrica, grandi dimensioni, varietà “macroscopicamente depressa”, presenza di ulcerazioni, istotipo “diffuso” sec. Lauren, invasione tumorale dei linfatici, indice dell’antigene nucleare di proliferazione cellulare (PCNA) > 25% ed espressione della metalloproteinasi-9 di matrice (MMP-9).
Nel caso di pazienti con tumori estesi alla sottomucosa, i fattori di rischio sono: sesso femminile, localizzazione allo stomaco distale, grandi dimensioni, tumori indifferenziati, infiltrazione profonda della sottomucosa, invasione linfatica o venosa, alta vascolarizzazione della sottomucosa, indice dell’antigene nucleare di proliferazione cellulare > 25%, tumori con fenotipo mucinoso e tumori che esprimono il fattore di crescita endoteliale vascolare.
Se è stato eseguito un intervento limitato, occorre prestare la massima cura alla preparazione e valutazione del campione istologico e, qualora risultino violati i criteri che hanno portato alla procedura conservativa, è d’obbligo reintervenire con un intervento più radicale. In pratica, occorre orientare il pezzo asportato fissandolo con aghetti su un supporto adeguato e lasciando il lato sottomucoso a contatto del piatto di gomma o di legno. Dopo la fissazione si eseguono sezioni seriate ad intervalli di 2 mm, parallele al piano che comprende il margine di resezione più vicino in modo da esaminare i margini laterali e verticali. Il report finale deve specificare la profondità dell’invasione tumorale, il grado di differenziazione, l’interessamento linfatico o vascolare, le dimensioni, l’istotipo e l’aspetto macroscopico.
Ampie casistiche giapponesi (5) hanno riportato una sopravvivenza cancer-specific a 5 anni pari al 99% nei pazienti con tumori della mucosa e del 96% in quelli con tumori della sottomucosa con il trattamento endoscopico, ma alcune recenti revisioni (4,6) hanno evidenziato su 2.312 casi una prevalenza di recidive dopo resezione mucosa endoscopica del 11.2%. Recentemente, Gotoda et al. (7) hanno riportato che la sopravvivenza a distanza con intervento di mucosectomia endoscopica è analoga a quella dell’intervento di resezione se si rispettano i criteri di rischio nullo per metastasi linfonodali, quali istologia di tipo intestinale, assenza di infiltrazione linfatica e vascolare, tumore intramucoso di qualunque grandezza in assenza di ulcerazione o < 3 mm, se in presenza di ulcerazione o di piccolo carcinoma invasivo della sottomucosa (SM1) < 30 mm, e presenza di margini di resezione orizzontale e verticale non infiltrati. Sulla base dell’esame istopatologico definitivo del pezzo asportato, in presenza di margine infiltrato o di fattori di rischio per metastasi linfonodali si impone una radicalizzazione chirurgica. Questa, secondo una recente esperienza (8), ha dimostrato la presenza di residuo neoplastico o di metastasi linfonodali rispettivamente nel 50% e 6% dei casi rioperati. Inoltre, è d’obbligo una stretta osservanza endoscopica nonché un attento follow-up in considerazione di un potenziale aumentato rischio di tumori metacroni, anche extragastrici, come riportato in letteratura (9).
La chirurgia tradizionale dà ottimi risultati sotto il profilo oncologico, con sopravvivenza a 5 anni dell’83%, valore sovrapponibile a quello della popolazione italiana paragonabile per età e sesso (10). Peraltro, anche la chirurgia tradizionale non è esente dal rischio d’infiltrazione del margine di sezione che, da quanto rilevato in un’ampia casistica multicentrica italiana, si riscontra nell’1.6% dei casi (10). Negli 11 casi non rioperati riportati in questa serie, la sopravvivenza a 5 ed a 8 anni è stata rispettivamente del 100% e del 86% e questo suggerisce che l’indicazione al reintervento chirurgico deve esser molto prudente, soprattutto se il margine infiltrato è duodenale od esofageo.

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11.2 Carcinoma gastrico avanzato

Nel carcinoma gastrico avanzato (CGA), definendosi così il tumore che sconfina nella parete gastrica al di là della sottomucosa, la problematica chirurgica comprende due aspetti: estensione della resezione sul viscere ed estensione della linfoadenectomia.
Il volume di resezione gastrica dipende dalla sede/estensione del tumore e dal punto di vista pratico si distinguono sostanzialmente tre possibilità: tumori della metà (o 2/3) distali dello stomaco, tumori che interessano anche (o solo) il III prossimale e tumori circoscritti sottocardiali.
Anche se la recente classificazione TNM include i tumori della regione cardiale tra quelli di pertinenza esofagea, si ritiene che i tumori immediatamente sottocardiali debbano esser discussi in questa sede per una serie di motivi. Innanzitutto, la nuova impostazione del TNM non ha riscosso un consenso unanime, specialmente per quanto concerne le lesioni a sede sottocardiale, ed in secondo luogo una rigida accettazione di questa classificazione imporrebbe una revisione critica di tutti quei recenti RCT di terapia neoadiuvante ed adiuvante nei quali adenocarcinomi dello stomaco (propriamente detti) e del cardias venivano considerati insieme senza alcun tentativo di stratificazione per sede o di analisi separata. Infine, molti chirurghi addominali sarebbero sorpresi di non veder trattato il tumore subcardiale tra quelli gastrici, poiché la maggior parte di questi interventi viene eseguita per via addominale e solo il momento ricostruttivo si estende al mediastino.
L’estensione della linfoadenectomia è in parte indipendente dalla sede del tumore, perché i risultati di molti studi fanno riferimento solo al numero di linfonodi asportati od alla loro localizzazione distinguendo linfonodi perigastrici e quelli intorno ai vasi principali (asse celiaco, origine dell’arteria e vena gastrica, arteria gastroepatica ed epatica comune e vena porta) ed anche perché qualunque tipo di linfoadenectomia (estesa o limitata) può esser eseguita indipendentemente dal tipo di gastrectomia.

Volume di resezione nei tumori T2-T3

Carcinoma della metà o (2/3) distale dello stomaco
Due protocolli controllati randomizzati (RCT) (1,2) hanno specificatamente affrontato il quesito se una gastrectomia totale di principio sia vantaggiosa o meno rispetto ad una gastrectomia subtotale in termini oncologici.
Il primo studio (1), eseguito dall’Association Francaise pour la Recherche en Chirurgie, ha valutato l’impatto dei due tipi di resezione (gastroresezione subtotale verso gastrectomia totale) nei tumori antrali ed ha riportato un’analoga sopravvivenza a 5 anni. Il secondo studio, condotto in Italia (2), ha esteso l’indicazione della gastrectomia subtotale. Infatti, partendo dal presupposto che la propagazione intramurale prossimale del tumore di regola non supera i 6 cm dal limite macroscopicamente apprezzabile della lesione, si sono considerati eleggibili per la randomizzazione tra i due interventi tutti i pazienti per i quali la distanza tra margine prossimale del tumore e cardias, valutata intra-operatoriamente, fosse > 6 cm. In questa serie di pazienti con lesioni della metà distale (e talora dei 2/3 distali) dello stomaco, la sopravvivenza globale a 5 anni era sovrapponibile tra i due tipi di intervento e precisamente è risultata del 65.3% per la gastrectomia subtotale e del 62.4% per la gastrectomia totale. Un aspetto da non sottovalutare nei tumori di questa sede è la       propagazione nel duodeno al di là dell’anello pilorico: generalmente, essa è confinata nei primi 2 cm di duodeno, ma per via sottomucosa o sottosierosa può raggiungere i 4 cm.

Carcinoma del III prossimale (o di tutto il viscere)
Il trattamento di questa neoplasia, che coinvolge ampiamente la parte prossimale dello stomaco, non può essere che la gastrectomia totale, di necessità se tutto lo stomaco è interessato o, per scelta, se è coinvolto solo il III superiore. Infatti, la conservazione della parte distale di stomaco, quando anche tecnicamente possibile, comporta la confezione di un’anastomosi esofago-gastrica (resezione polare superiore o resezione esofagogastrica), che espone ad un inaccettabile rischio di reflusso esofageo.
La gastrectomia totale è seguita da anastomosi esofagodigiunale secondo Roux (più raramente con ricostruzione mediante ansa interposta) ed una recentissima revisione sistematica e meta-analisi della Cochrane (3) hanno dimostrato un vantaggio in termini di minor dumping syndrome, pirosi, migliore capacità di assunzione degli alimenti e miglior qualità di vita con il confezionamento di una pouch digiunale.

Carcinoma sottocardiale
Rientrano in questa categoria i tumori cardiali del III tipo secondo Siewert, cioè “l’adenocarcinoma gastrico che è situato 2-5 cm sotto la giunzione esofagogastrica ed infiltra il cardias”.
La problematica si pone sul livello di resezione prossimale, perché la neoplasia ha una tendenza alla propagazione intramurale nell’esofago. E’ noto da 40 anni che, per esser sicuri di non aver un margine prossimale infiltrato, è opportuno mantenere una distanza di sicurezza di almeno 6 cm dal margine superiore della neoplasia. Con una clearance di 4.1-6 cm, esiste il 9% di rischio di margine positivo ed il rischio raddoppia se la clearance è di soli 2 cm.
Alcuni Autori giapponesi hanno suggerito che l’ampiezza della resezione prossimale debba esser modulata in base alle caratteristiche istopatologiche del tumore e, in pratica, per la forma “localizzata” basterebbero 2 cm, 2.5 cm per la varietà ben differenziata o Borrmann I-II, 4 cm per la varietà infiltrante e > 5 cm per la varietà scarsamente differenziata o Borrmann III-IV. Peraltro, un esame istologico estemporaneo è gravato da un 20% di risultati falsi negativi.
Se si considerano i tumori cardiali del III tipo di Siewert, l’intervento formalmente indicato è la gastrectomia totale allargata con resezione transiatale dell’esofago distale e solo per le forme molto circoscritte e non infiltranti o nei pazienti ad alto rischio si può eseguire una resezione limitata esofagogastrica per via addominale transiatale, seguita preferibilmente da ricostruzione con ansa interposta per ovviare al reflusso. Per le forme che infiltrano l’esofago per più di 1-2 cm, ma non si tratta più di tumori del III tipo, è invece necessario un approccio toracotomico destro.

Estensione della dissezione linfonodale
Il problema dell’estensione della linfoadenectomia è stato, ed in parte ancora è, estremamente controverso per una serie di punti.

1. Ambiguità della terminologia
La classificazione dei linfonodi, sede di drenaggio dello stomaco, è eterogenea. La classificazione dei linfonodi per opera della Japanese Research Society for Gastric Cancer del 1981 è la più precisa ed analitica e fa riferimento al drenaggio linfatico in funzione della sede di origine del tumore nello stomaco, suddiviso in 3 parti: superiore, media ed inferiore. Gli Autori giapponesi hanno inoltre classificato l’estensione della linfoadenectomia in D1, D2 e D3 in rapporto alle stazioni linfonodali asportate. Il TNM, invece, faceva riferimento nell’edizione del 1987 alla distanza tra linfonodi e neoplasia principale ed in quella successiva conglobava in un’unica classe i linfonodi regionali, ivi comprendendo quelli della piccola e grande curva, arteria gastrica sinistra, arteria epatica comune, epatoduodenali, splenici e dell’asse celiaco. Erano così compresi linfonodi che, secondo la classificazione giapponese, sono di 2° ed anche di 3° livello. Maggior enfasi si dà già nella edizione TNM del 2002 e soprattutto nell’ultima, del Gennaio 2010, al numero totale di linfonodi metastatici, categorizzato ora in 1-2, 3-6, 7-15, > 15 cioè N1, N2 e N3a e N3b, rispettivamente. La disparità delle classificazioni adottate nonché le modifiche occorse nel TNM hanno reso difficile ogni comparazione dei risultati relativi ai vantaggi della linfoadenectomia. Il problema del confronto tra le diverse casistiche è stato in qualche modo superato partendo dal presupposto che in una linfoadenectomia D1 viene asportato un numero di linfonodi variabile tra 15 e 18, mentre in una dissezione D2 ne vengono asportati mediamente tra 31 e 35 (4-6). Tali dati sono in accordo con precedenti osservazioni anatomiche (7), che hanno definito che il numero medio di linfonodi inclusi in una dissezione tipo D1 è 15, mentre la D2 conterrebbe almeno 27 linfonodi. In conclusione, alcuni Autori (8) tendono a distinguere una linfoadenectomia “standard”, che deve comprendere almeno 15 linfonodi ed è quella che secondo il TNM consente una stadiazione adeguata (e che corrisponderebbe numericamente ad una D1), ed una linfoadenectomia “allargata”, che comprende almeno 20-25 linfonodi, che meglio consente una diagnosi anche di N3 (secondo il TNM) e che nell’esperienza retrospettiva di molti Autori (giapponesi, italiani e tedeschi) è accompagnata ad una migliore sopravvivenza. Questo tipo di linfoadenectomia, che comprende i linfonodi perigastrici, quelli lungo i grandi vasi e lungo i primi centimetri dell’arteria splenica (la linfoadenectomia dell’ilo splenico e del peduncolo epatico è opzionale), viene anche definita, per evitare confusioni con la classificazione giapponese e l’inevitabile riferimento topografico, linfoadenectomia over-D1 (8).

2. Inconsistenza degli studi randomizzati
In letteratura, vi sono 8 studi randomizzati sull’estensione della linfoadenectomia (6,9-15). Tre studi (9,11,12) non possono esser tenuti in considerazione, perché l’esiguità della casistica preclude l’attendibilità statistica dei risultati. Restano 2 studi europei (6,10), che confrontano D1 e D2 e 3 studi orientali che paragonano D1 verso D3 (13) e D2 verso D2 associata alla dissezione paraortica sinistra (PAND) (14) e D2 verso D4 (15). Gli studi europei hanno dimostrato che non vi è alcun beneficio ad estendere la linfoadenectomia oltre il primo livello e tutti hanno messo in evidenza un aumento della morbidità chirurgica. Tali studi randomizzati, per quanto rappresentino il gold standard della ricerca clinica scientifica, sono penalizzati da: a) ridotta familiarità dei chirurghi occidentali con la linfoadenectomia estesa, che si è tradotta in un eccesso di morbilità post-operatoria, b) accuratezza limitata nel distinguere una D1 da una D2 con problemi di ridotta compliance (pazienti randomizzati per D2 che hanno eseguito una linfoadenectomia più limitata) e problemi di contaminazione (pazienti randomizzati per D1 che hanno subito una linfoadenectomia più estesa). Ne è conseguito che il confronto effettuato non è stato tra D1 e D2, ma sovente tra D1-D1.5 e D1.5-D2 e questo ha indebolito un’eventuale differenza attesa. Va peraltro considerato che un’analisi a 12 anni di uno studio olandese ha dimostrato una sopravvivenza significativamente migliore a vantaggio della linfoadenectomia D2 (23).
Lo studio di Wu et al. (13) ha confrontato D1 e D3: la D1 includeva la dissezione dei linfonodi perigastrici in stretta contiguità del tumore lungo la grande e piccola curva, mentre la D3 includeva i linfonodi lungo i vasi gastrici di sinistra, arteria epatica comune e splenica, i linfonodi del legamento epatoduodenale, dell’area retropancreatica ed intorno alla vena mesenterica superiore. La sopravvivenza a 5 anni era significativamente migliore per il braccio D3 (59.5%) contro il braccio D1 (53.6%), anche se il braccio D1 riceveva un trattamento che molti Autori occidentali giudicherebbero inferiore allo standard. Più interessante è lo studio di Sasako et al. (14), che ha confrontato la classica D2 giapponese con una D2 allargata ai linfonodi paraortici (PAND), partendo dal presupposto che nel carcinoma gastrico avanzato l’incidenza di metastasi microscopiche nella regione paraaortica è dell’ordine del 10-30%. La sopravvivenza a 5 anni era sovrapponibile, 69.2% nella D2 e 70.3% nella D2 più PAND. L’incidenza di N+ paraortici risultò particolarmente elevata nei tumori di grosse dimensioni, con grosse adenopatie e con interessamento dei linfonodi intorno all’arteria gastrica sinistra (N 7) (16).
Nello studio di Yonemura et al. (15), la sopravvivenza a 5 anni nel braccio D2 era 52.6% vs 55% nel braccio D4 (definendo così gli Autori asiatici la dissezione estesa alla stazione para-aortica), una differenza non risultata statisticamente significativa.

3. Contributo di studi non randomizzati pluriistituzionali

a) Wanebo et al. (17) hanno condotto un’indagine retrospettiva per conto dell’American College of Surgeons su 3.804 pazienti sottoposti a gastrectomia curativa D0, D1 o D2: non vi era alcuna differenza nella sopravvivenza a 5 anni, che era compresa tra il 26% e il 35%, valore certamente molto basso in confronto a molte casistiche monoistituzionali.

b) Siewert et al. (18) hanno rianalizzato retrospettivamente 1.182 pazienti in cui era stata eseguita una linfoadenectomia D1 oppure D2-D3, definita in base al numero di linfonodi < o >= 26. Globalmente, un vantaggio nella sopravvivenza a 5 anni è stato ottenuto soltanto con una D2-D3 nello stadio II (T1N2, T2N1, T3N0) (55.2% nei pazienti sottoposti a D2-D3 vs 26.8% in quelli trattati con D1) e nello stadio III A (T2N2, T3N1, T4N0) (38.4% per la D2-D3 vs 25.3% per la D1).
In realtà, il tentativo di confronto tra le due procedure per stadi di malattia incontra una serie di difficoltà metodologiche, tra le quali la più insidiosa è il cosiddetto fenomeno di migrazione di stadio, noto come fenomeno di Will Rogers. L’accuratezza della stadiazione è condizionata dalla estensione della linfoadenectomia: i pazienti stadiati come N- dopo linfoadenectomia limitata hanno più probabilità di avere in realtà qualche metastasi linfonodale non diagnosticata rispetto ai casi classificati N- dopo linfoadenectomia estesa. Pertanto, i pazienti sottoposti a linfoadenectomia limitata sono più facilmente soggetti ad una sotto-stadiazione dell’interessamento linfonodale rispetto a quelli operati con una linfoadenectomia estesa. I successi vantati con linfoadenectomia estesa si possono pertanto spiegare, almeno in teoria, con il fatto che laddove si esegua un confronto stadio per       stadio, si paragonano stadi di malattia in realtà diversi: più avanzati, perchè sotto-stadiati, quelli sottoposti a linfoadenectomia limitata rispetto a quelli sottoposti a linfoadenectomia estesa. Questa “migrazione dello stadio” è tuttavia valida soprattutto quando il campionamento linfonodale è < 15-17 linfonodi (18).

c) Analogamente, un’analisi post hoc (19) dello studio clinico controllato olandese ha rilevato che nel sottogruppo di pazienti ad alto rischio di ripresa di malattia, secondo l’indice di Maruyama, la linfoadenectomia D2 presentava vantaggi in termini di sopravvivenza rispetto alla D1.

d) Una revisione della letteratura principalmente giapponese su circa 4.500 casi R0 (20) ha messo in evidenza una sopravvivenza a 5 anni del 22.6% nel gruppo trattato con una D2 e del 28.5% in quelli sottoposti a linfoadenectomia D3. In realtà l’interessamento linfonodale N3 è stato osservato nell’8% dei pazienti con linfoadenectomia D3 e, se si considera che in questi pazienti la sopravvivenza a 5 anni è di circa il 9%, ne consegue che il beneficio di una D3 sistematica è di solo lo 0.7%.

e) Vi sono peraltro parecchie segnalazioni di chirurghi di scuola italiana (Roma, Verona, Torino, L’Aquila, Siena), che riportano un beneficio in termini di sopravvivenza dei pazienti sottoposti a linfoadenectomia D3. I limiti di questi studi, che peraltro sono espressione di un’ottima capacità tecnica di alcune importanti scuole chirurgiche, consistono nel fatto che sono per lo più di fase II e non consentono a priori l’identificazione dei pazienti che beneficiano della procedura allargata. In un recente studio su 615 pazienti (21), è stato dimostrato che il rischio di morte per carcinoma gastrico, studiato con modello di Cox, diminuisce quando il volume di resezione comprende almeno 25 linfonodi. Tale numero di linfonodi è quello che comunemente si reperisce nei Paesi Occidentali, quando si esegue una linfoadenectomia D2 e questa procedura, nelle Istituzioni che la attuano di routine, ha una mortalità chirurgica di circa il 2%, come è stato confermato anche da un recentissimo studio randomizzato italiano (22).

In conclusione, da quanto sopra illustrato, appare che nessuno studio, randomizzato o non, è in grado si supportare in modo incontrovertibile i vantaggi di un tipo di linfoadenectomia rispetto ad un altro. Una valutazione complessiva dei risultati riportati in letteratura fa ritenere che una linfoadenectomia che asporti almeno 20-25 linfonodi (linfoadenectomia allargata o tipo D2 o, meglio, over D1) vada privilegiata per i seguenti motivi:

– negli studi randomizzati olandese ed inglese (6,10), la D1 (in realtà D1-1.5) consente una sopravvivenza a 5 anni del 35-45%, che sale al 53% nello studio randomizzato di Wu et al. (13). Tali valori sono comunque pari od inferiori a quelli riportati con una linfoadenectomia D2 nello studio randomizzato di Yonemura et al. (15) e di Sasako et al. (14) (53% e 69%, rispettivamente);

– alcuni gruppi di pazienti ad alto rischio (stadio II e IIIA) (18) beneficiano particolarmente di una linfoadectomia allargata e l’assenza di una campagna per la diagnosi precoce nei Paesi Occidentali fa sì che, nelle casistiche europee, i pazienti con malattia avanzata siano tuttora la maggioranza. Inoltre, i sottogruppi di pazienti ad alto rischio non possono essere identificati a priori prima dell’intervento chirurgico. Infine, va sottolineato che la linfoadenectomia D2 di principio ha portato un beneficio in termini di sopravvivenza a lungo termine anche nello studio olandese (23);

– un’analisi del database americano (SEER) (24) ha confermato su 3.814 pazienti T1-3N0-1 che maggiore è il numero di linfonodi esaminati e migliore è la sopravvivenza anche se, soprattutto per i casi con meno di 17 linfonodi, non si esclude un importante effetto di migrazione dello stadio. In accordo con questa valutazione è la dimostrazione che minore è il volume linfonodale residuo alla linfoadenectomia (cosiddetto Maruyama Index < 5), maggiore è la probabilità di sopravvivenza globale e libera da malattia (19);

– una linfoadenectomia “molto estesa” (tipo D3) non ha dimostrato significativi vantaggi in termini di sopravvivenza né negli studi retrospettivi condotti su un numero elevato di pazienti (20), né nel recente studio randomizzato condotto da Sasako et al. (14).

Una considerazione particolare va riservata al carcinoma sottocardiale. Secondo Siewert (25), la compromissione linfonodale è la seguente: lungo la piccola curva 85%, stazione paracardiale destra 52%, stazione paracardiale sinistra 49%, lungo l’asse celiaco 39%, lungo l’arteria/ilo splenico 33%, lungo la vena renale sinistra 15%, nel peduncolo epatico 10%. Più precisamente, De Manzoni et al. (26) hanno correlato la prevalenza di compromissione di linfonodi para-aortici in funzione del T in pazienti sottoposti ad una linfoadenectomia D4 ed hanno riportato valori del 17%, 20% e 25%, rispettivamente nelle classi pT2, pT3 e pT4. L’ilo splenico risultava compromesso nel 14% dei pT3 e nel 50% dei pT4. Questi dati rendono ragione della prognosi severa per i pazienti con tumori sottocardiali, della scarsa efficacia di una D2+PAND (14) e semmai sollevano il problema della splenectomia di principio nei tumori di questa sede (27).

Splenectomia
Sulla base di valutazioni retrospettive, si ritiene che la splenectomia aumenti il rischio chirurgico immediato e tardivo e la durata della degenza post-operatoria. Sotto il profilo oncologico, la domanda che ci si pone è se la splenectomia, intesa come procedura che asporta anche i linfonodi dell’arteria splenica e dell’ilo splenico, possa dare un vantaggio nella sopravvivenza dei pazienti. Se vengono considerati i risultati delle analisi multivariate, alcuni Autori non rilevano alcun vantaggio della splenectomia sulla sopravvivenza dei pazienti, mentre per altri la splenectomia si associa ad un consistente aumento della morbidità e mortalità post-operatoria e di ripresa di malattia. Secondo Oh et al. (28), la conservazione della milza negli interventi di gastrectomia totale in pazienti con carcinoma del terzo superiore dello stomaco ha un effetto protettivo nel gruppo di pazienti pN0. A conferma di questi risultati, sono stati recentemente pubblicati i dati di uno studio randomizzato sull’effetto della splenectomia in pazienti con tumore del terzo prossimale dello stomaco (29): su 200 pazienti non è stato osservato alcun effetto positivo della splenectomia sulla sopravvivenza a distanza nel sottogruppo in cui erano presenti metastasi ai linfonodi dell’arteria splenica o dell’ilo splenico.
Tutti i dati pertanto controindicano l’impiego della splenectomia quale procedura standard associata alla gastrectomia totale, mentre si ritiene che essa possa essere considerata solo in presenza di adenopatie dell’arteria e dell’ilo splenico, non asportabili con la conservazione dell’organo.

Chirurgia allargata a organi/strutture contigue
Nei tumori T4 con infiltrazione per contiguità di organi contigui allo stomaco, l’intervento chirurgico non è standardizzabile. Gli organi infiltrati dovrebbero essere asportati in blocco con lo stomaco e studi recenti del Memorial Hospital hanno mostrato che tali interventi comportano una mortalità del 4% ed una sopravvivenza a 5 anni del 32% (29).
Va peraltro considerato che solo in una percentuale variabile tra il 33% ed il 57% dei casi il giudizio macroscopico di invasione dell’organo viene confermato dall’esame istologico definitivo. Studi non randomizzati indicano che una resezione in monoblocco R0 possa portare a guarigione od a lunghe sopravvivenze in gruppi selezionati di pazienti (Tabella 1). La prognosi è comunque legata più all’N che al T (30) e ciò può avere qualche riflesso pratico in quanto una chirurgia allargata trova maggiore indicazione nei pazienti che risultino       intra-operatoriamente N-, anche se, in presenza di neoplasie che invadono gli organi contigui, sono estremamente rari i pazienti con assenza di metastasi linfonodali. Un recente studio randomizzato ha dimostrato che i pazienti con citologia peritoneale positiva avevano una prognosi significativamente migliore se l’intervento di exeresi era completato con un ampio lavaggio del cavo addominale, associato a chemioterapia intraperitoneale (31).

Tabella 1 Sopravvivenza a 5 anni dopo resezione gastrica allargata ad organi contigui

Chirurgia non radicale
La problematica della chirurgia non radicale (detta anche riduttiva) è duplice, in quanto due situazioni possono ricorrere: la presenza di un margine di resezione infiltrato all’esame istologico del pezzo asportato o il reperto pre- od intra-operatorio di malattia non radicalmente resecabile.
La prima evenienza si osserva nel 3.2% negli interventi riportati in un’ampia casistica italiana (32). L’infiltrazione del margine di resezione sembra avere un’importanza prognostica tanto maggiore quanto minore è il volume di malattia. Cascinu et al. (33) riportano un effetto negativo sulla prognosi soltanto nei pazienti N0 dopo una gastrectomia D1, Kim et al. (34) solo nei pazienti con <= 5 N+ e Morgagni et al. (32) nel sottogruppo di pazienti con tumori T2. E’ ovvio, pertanto, che l’indicazione ad un eventuale reintervento per radicalizzare i margini di resezione deve tenere conto del bilancio rischio/beneficio che il reintervento stesso comporta.
Le indicazioni ad una resezione non radicale in pazienti asintomatici, anche in presenza di rischio chirurgico accettabile, sono attualmente considerate molto limitate, soprattutto in relazione alla disponibilità di farmaci che somministrati pre-operatoriamente possono determinare una buona regressione della malattia consentendo talora successivi interventi radicali. Miner et al. (35) hanno riesaminato il database del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center (MSKCC) (160 pazienti) e hanno dimostrato che i pazienti asintomatici resecati non radicalmente avevano una morbilità ed una mortalità operatoria rispettivamente del 54% e del 6% ed una sopravvivenza mediana di 13.5 mesi. Con un approccio chirurgico molto più aggressivo (gastrectomia palliativa, massima terapia citoriduttiva intraperitoneale, chemioterapia intraperitoneale post-operatoria) si è ottenuta una sopravvivenza mediana di appena 12 mesi (36).
Diverse considerazioni vanno fatte per tumori sanguinanti, ostruenti od in fase di perforazione (vedi capitolo successivo “Chirurgia palliativa”).

Chirurgia palliativa
Per palliazione chirurgica s’intende una procedura operatoria finalizzata ad alleviare/abolire una sintomatologia importante del paziente od a migliorare la qualità della vita, senza pretese curative.
Una palliazione chirurgica va considerata in due diverse eventualità: in pazienti non passibili di intervento R0, che si presentano con una sintomatologia (conclamata o meno) ed in pazienti riscontrati non resecabili durante la laparotomia.
In presenza di un paziente fortemente sintomatico per occlusione, sanguinamento o rottura del viscere, si impone un’immediata valutazione chirurgica e, se la situazione non è controllabile in altro modo, l’esplorazione chirurgica è quasi inevitabile.
Diverso è il caso in cui, a fronte dell’impossibilità di resezione radicale, il paziente abbia una sintomatologia modesta. Infatti, va considerato che l’intervento chirurgico non è mai un atto innocente: i pazienti potenzialmente suscettibili di trattamento chirurgico sono particolarmente fragili per lo stato avanzato della malattia e/o per le conseguenze iatrogene di trattamenti multipli ripetuti o combinati ed è stato dimostrato che una complicanza dopo chirurgia palliativa riduce notevolmente la durata della sopravvivenza symptom-free. Inoltre, studi sperimentali e clinici hanno dimostrato come l’intervento chirurgico si associ ad una progressione della crescita neoplastica mediata sia dall’immunosoppressione sia dalla liberazione, in seguito al trauma tessutale, di fattori di crescita che agiscono indiscriminatamente sui processi di riparazione tessutale e sulla proliferazione neoplastica. E’ quindi estremamente importante una valutazione ponderata delle indicazioni nell’ambito delle prospettive di vita del paziente, che vanno discusse con il paziente stesso ed i suoi familiari.
Considerazioni analoghe vanno fatte se il paziente viene considerato non resecabile alla laparotomia. In questo caso, vanno definiti il beneficio effettivo che il paziente può ottenere dall’intervento chirurgico, le alternative terapeutiche alla chirurgia e, soprattutto, quanto l’insorgenza di una complicanza post-operatoria possa ritardare l’inizio di un eventuale trattamento oncologico.
Il trattamento migliore per un’ostruzione duodenale o anastomotica (successiva ad una precedente resezione) è la resezione della stenosi neoplastica, che mette al riparo anche dall’insorgenza di un possibile sanguinamento e di una perforazione.
Questo approccio, tuttavia, può non esser possibile proprio quando esso risulta più necessario, vale a dire nei casi in cui l’infiltrazione a manicotto del tumore si estende ampiamente oltre il piloro nel duodeno od aderisce al pancreas o, al contrario, risale nell’esofago distale. Fare una anastomosi su tessuto francamente neoplastico significa esporre il paziente al rischio certo di una deiscenza della sutura, che non potrà più guarire. L’alternativa chirurgica, tanto più agevole quanto più il tumore è distale, è il bypass gastroenterico ed in particolar modo la uncut Roux, che rispetta meglio delle altre tecniche l’attività del pacemaker gastrico. L’intervento di bypass può anche esser eseguito laparoscopicamente ed uno studio clinico randomizzato, anche se condotto su un numero limitato di pazienti (37), ha dimostrato che i vantaggi dell’approccio mini-nvasivo consistono essenzialmente nella minor perdita di sangue e nella più precoce ripresa dell’alimentazione orale. Un’altra alternativa, che va presa in considerazione soprattutto se la non resecabilità è già evidente ad una valutazione pre-operatoria, è il posizionamento endoscopico di un’endoprotesi a livello duodenale o cardiale e/o una laserterapia.
Una recente revisione sistematica (38) condotta su 44 studi comparativi (quasi tutti non randomizzati) relativi a 1.046 pazienti affetti da gastric outlet obstruction ha dimostrato che l’endoprotesi si associava ad una più rapida ripresa dell’alimentazione per os ed a una minor durata di ospedalizzazione rispetto ad un intervento di bypass, ma la frequenza di reostruzione era molto maggiore (18% vs 1%) e la sopravvivenza globale dei pazienti era inferiore (105 vs 164 giorni).
Tali risultati sono confermati da un recente studio randomizzato (39).
Infine, vi è una limitata quota di pazienti che ha una compromissione dello stomaco così estesa che consente di realizzare solo una piccola gastrostomia decompressiva (venting gastrostomy).
Va sempre tenuto presente che quanto più il tumore è avanzato tanto più l’intervento di derivazione o ricanalizzazione tende a risolvere il problema del transito ostacolato, ma certamente non quello della ipofagia.
In presenza di una perforazione del tumore, l’unica possibilità di riparazione, in caso di fissurazione molto limitata, è una sutura che solidarizzi la parete perforata al peritoneo (grande omento o peritoneo parietale).
Se il problema principale è il sanguinamento, non ci si può certo illudere che la legatura dei vasi gastrici o gastroepiploici possa sortire un qualche effetto consistente e l’unica alternativa, peraltro anch’essa molto aleatoria, è l’embolizzazione per via arteriosa, riservando l’intervento chirurgico di legatura vascolare o di gastroresezione ai casi in cui il trattamento radiologico non risulti efficace.
Di fatto, non è chiaramente possibile individuare i vantaggi di una resezione non radicale: molti studi occidentali hanno dimostrato un vantaggio in termini di sopravvivenza di pochi mesi a fronte però di una maggiore morbilità e mortalità post-operatorie e di una maggior ospedalizzazione. Va inoltre osservato che non trattandosi di studi randomizzati, il beneficio oncologico può esser attribuibile alla minor estensione della malattia piuttosto che alla riduzione della massa ottenuta con l’intervento resettivo. La comparsa di una complicanza maggiore dopo intervento chirurgico, inoltre, si associa ad una riduzione di durata di sopravvivenza symptom-free (2.1 vs 8.5 mesi). Nell’esperienza del Dutch Gastric Cancer Group (40), un beneficio sulla sopravvivenza dopo interventi resettivi rispetto ad interventi derivativi si osservava solo nei pazienti aventi età < 70 anni e diffusione tumorale limitata ad un solo sito metastatico (tumore primitivo, fegato, peritoneo o linfonodi a distanza).
Per quanto concerne la cosiddetta chirurgia palliativa “preventiva”, i dati sono scarsissimi. Se ci si riferisce alla casistica oncologica del MSKCC, si può osservare che la chirurgia precauzionale effettivamente preveniva l’insorgenza dei sintomi nell’84% dei casi, ma comportava percentuali di mortalità operatoria, morbilità e necessità di trattamento di sintomi addizionali simili a quelli osservati in pazienti operati per una sintomatologia in atto (41). Si può quindi affermare che una gastrectomia palliativa trova indicazione solo in pazienti molto selezionati e con sintomatologia in atto.

Carcinosi peritoneale
In presenza di carcinosi peritoneale, il trattamento chirurgico va considerato in presenza di crisi occlusive subentranti soprattutto se presenti anche a digiuno, a meno che la carcinosi peritoneale non costituisca la manifestazione terminale di una malattia ormai molto prossima alla sua conclusione.
Se la canalizzazione sempre più stentata e dolorosa rappresenta il sintomo predominante del quadro clinico del paziente, l’opzione chirurgica va presa in considerazione, soprattutto se essa consente di migliorare la qualità di vita del paziente.
Le condizioni specifiche che controindicano in modo assoluto l’approccio chirurgico, già oggetto di una Consensus dell’European Association for Palliative Care (42) sono costituite da:

a) uno (o più) interventi precedenti laparotomici per occlusione, che non hanno sortito un effetto consistente;

b) la presenza all’esame obiettivo dell’addome di masse dure, fisse o multiple, spesso indovate lungo le precedenti cicatrici laparotomiche, che fanno pensare ad un addome impenetrabile e alla presenza di compressioni/infiltrazioni multiple delle anse;

c) l’assenza di dilatazione di anse alla radiografia a vuoto dell’addome o alla TC addominale, reperto fortemente suggestivo di una occlusione per infiltrazione dei mesi e dei plessi nervosi o di congelamento delle anse senza una vera e propria ostruzione meccanica.

La presenza di semplice ascite è suggestiva di una compromissione peritoneale diffusa, ma non costituisce una controindicazione assoluta alla laparotomia. Essa, tuttavia, indica una gravità globale della situazione ed impone una particolare cautela nella somministrazione di liquidi, sia per quantità sia per qualità (attenzione a glucosio e sodio).
Contro un approccio chirurgico repentino sta l’evoluzione sostanzialmente cronica di queste occlusioni come pure la necessità di valutare altre possibili cause non neoplastiche di occlusione, per esempio enteriti subacute da raggi, ileo paralitico da chemioterapici e da morfina ecc.
Infine, una percentuale non trascurabile di occlusioni è dovuta non a carcinosi, ma ad un nuovo tumore o a lesioni benigne o aderenze o ernie, tutte condizioni meritevoli di soluzione chirurgica.
Se all’esplorazione chirurgica non vi sono lesioni sanguinanti o in via di rottura, l’approccio più sicuro, tenuto anche conto della fragilità di questi pazienti, è il bypass o la stomia esterna.
Nei casi estremi, irrisolvibili, in pazienti non meritevoli di sedazione farmacologica, la venting gastrostomy può essere indicata.

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11.3 Gastrectomia laparoscopica

Il crescente interesse per la chirurgia laparoscopica ha fatto sì che anche la gastrectomia per tumore fosse affrontata con questa tecnica. Nell’insieme, l’esperienza è ancora limitata a pochi Centri anche italiani, anche in pazienti anziani e a pazienti sottoposti a gastrectomia totale con risultati per lo più molto soddisfacenti dal punto di vista tecnico, quando eseguiti da operatori esperti. Un ampio studio randomizzato (1) ha riportato un netto beneficio sulla qualità di vita e su una varietà di sintomi digestivi nei pazienti operati laparoscopicamente. Un ampio studio randomizzato coreano condotto su 342 pazienti T1-T2aN0, non obesi ed a buon rischio chirurgico, sottoposti a gastrectomia distale con tecnica laparoscopica od aperta, ha dimostrato ugual morbilità e mortalità con le due procedure (2). Una recente meta-analisi (3) ha raccolto solo 4 studi randomizzati per una totalità di 162 casi. La gastrectomia laparoscopica è risultata associata ad una minor perdita intra-operatoria di sangue (- 104 ml), ad una maggior durata della procedura chirurgica (+ 83 minuti) e ad un minor numero di linfonodi isolati (- 4). Altre variabili, quali la durata della degenza post-operatoria, le complicanze post-operatorie, la sopravvivenza e la percentuale di recidive neoplastiche non differivano in modo statisticamente significativo tra i due gruppi. Qualche vantaggio nella degenza post-operatoria sarebbe presente se si considerano 3 RCT in pazienti con EGC.
Gli Autori della suddetta meta-analisi (3) sconsigliano l’impiego routinario della chirurgia laparoscopica nel trattamento del carcinoma gastrico ed una recente revisione dello MSKCC (4) suggerisce che i Centri con una limitata esperienza nel carcinoma gastrico usino l’approccio laparoscopico solo nei tumori con stadio ben definito T1e T2aN0.

BIBLIOGRAFIA

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CHIRURGIA

11.4 Chemio Ipertermia Intra Peritoneale (CIIP)

Premessa
Il cancro gastrico (CG) rappresenta la seconda causa più frequente di morte per cancro, responsabile ancora oggi di oltre il 10% delle morti globali (1,2). Nonostante i progressi nella diagnosi precoce, il CG viene spesso diagnosticato in stadio avanzato ed il trattamento chirurgico radicale rimane l’unica opzione terapeutica; tuttavia, fino al 70% dei pazienti sviluppa una recidiva entro 5 anni (3). La causa più frequentemente correlata al fallimento del trattamento del CG è la diffusione della malattia nella cavità peritoneale. La carcinosi peritoneale (CP) da CG è un evento frequente anche nella fase precoce della storia naturale della malattia. E’ stato stimato che il 15-50% di pazienti presenta una CP al momento della diagnosi iniziale, soprattutto quando vi è coinvolgimento della sierosa da parte del tumore (4,5), potendosi altresì sviluppare dopo resezione curativa nel 60% dei pazienti con invasione T3 o T4 (6) ed in particolare, nell’istotipo diffuso infiltrante la sierosa gastrica (7).

Malattia Peritoneale
La CP consiste nella presenza di noduli tumorali sulla superficie peritoneale parietale e viscerale spesso coinvolgenti gli organi e le strutture addominali e conseguente alla diffusione di cellule tumorali maligne (ctm) nella cavità peritoneale. Il segno più frequentemente associato è l’ascite maligna. Generalmente, la presenza di CP così come di ctm nella cavità peritoneale rappresentano eventi condizionanti una prognosi infausta del CG.
Il trattamento del CG con diffusione peritoneale è stato finora limitato alla chemioterapia sistemica a scopo palliativo, alla chirurgia di debulking od, infine, al trattamento delle urgenze chirurgiche, come i frequenti episodi occlusivi. Tali trattamenti non hanno ovviamente impatto sulla sopravvivenza, ma consentono di perseguire risultati soddisfacenti sulla qualità di vita. Tuttavia, la mediana di sopravvivenza dei pazienti affetti da CG con CP o ctm+ risulta essere di circa 6 mesi, a prova dell’aggressività di questa malattia (8-10).
Nonostante, in passato, l’interessamento peritoneale da ctm o CP nei pazienti affetti da CG sia stato considerato una condizione priva di opzioni terapeutiche, studi recenti hanno suggerito soluzioni terapeutiche in sottogruppi selezionati di pazienti con malattia quantitativamente limitata. Nel corso degli ultimi due decenni, sono emersi nuovi approcci terapeutici, che combinano la chirurgia citoriduttiva (CCR) con la chemioipertermia intraperitoneale (CIIP) (11-14).

Fisiopatologia
La fisiopatologia ed i meccanismi molecolari alla base della formazione della CP sono tuttora poco noti. Gli studi condotti soprattutto da Yonemura et al. (15) sul carcinoma gastrico consentono di individuare molteplici fasi attraverso cui tale processo si manifesta. Le cellule tumorali guadagnano la cavità peritoneale per un meccanismo di esfoliazione dal tumore primitivo, che ha gradualmente invaso i vari strati della parete gastrica fino al piano sieroso. La base molecolare del distacco delle cellule tumorali dal tumore primitivo e del loro potenziale metastatico sulla superficie peritoneale sembra essere imputata a vari elementi, tra cui la E-cadherina e la Proteina S100-A4. La prima è una proteina di adesione, la cui ipoespressione favorisce il distacco delle cellule tumorali; la seconda è un fattore di motilità non miosino-dipendente che, agendo sul citoscheletro, conferisce motilità alle cellule che possono pertanto migrare e diffondere nella cavità peritoneale. La sua iperespressione favorisce questo meccanismo. Una volta raggiunta la cavità peritoneale, le cellule tumorali, al fine di assicurare la loro sopravvivenza, hanno necessità di guadagnare lo strato sottomesoteliale del peritoneo che, essendo vascolarizzato, dispone di elementi nutrizionali e di ossigeno. Il passaggio attraverso il mesotelio può avvenire attraverso due meccanismi, quello diretto definito “trans-mesoteliale” e quello mediato dal sistema linfatico definito “trans-linfatico”.

Il processo trans-mesoteliale
Tale processo è la conseguenza del diretto contatto delle cellule tumorali col mesotelio. Le cellule mesoteliali peritoneali sono tenacemente adese le une alle altre con spazi serrati, formando così una vera barriera nei confronti della potenziale aggressività delle cellule tumorali. La barriera plasmatico-peritoneale, lo spazio tra le cellule mesoteliali ed i capillari sub-mesoteliali, impediscono il trasporto di ossigeno e di nutrienti dal sub-mesotelio capillare alla cavità peritoneale. La cellula neoplastica non è in grado di attaccare le cellule mesoteliali, ma ha capacità di impianto sul connettivo sub-mesoteliale; mediante molecole di adesione, quale la CD44, le cellule neoplastiche aderiscono al mesotelio e producono citochine, che fosforilano il citoscheletro conferendone motilità e modificazioni morfologiche, che consentono infine la migrazione sub-mesoteliale. La produzione di fattori di motilità e di proteasi favoriscono il processo di diffusione e quindi l’invasione dello spazio capillare sottoperitoneale, dove la disponibilità di fattori di crescita e di fattori angiogenetici come VEGF-A e VEGF-C consente la proliferazione e l’induzione alla neoangiogenesi.

Il processo trans-linfatico
Recenti studi hanno evidenziato che il sistema linfatico del peritoneo è dotato di “stoma”, orifizi linfatici che connettono la superficie peritoneale con il sistema sub-peritoneale e milky spot, piccoli aggregati di vasi linfatici, linfociti e macrofagi. I milky spot sono presenti maggiormente su ampie aree come il grande omento ed il piccolo omento. Durante i processi infiammatori, attraverso tali pori, leucociti e macrofagi migrano in peritoneo. In un processo neoplastico, in cui gli elementi cellulari hanno guadagnato la cavità peritoneale, le cellule tumorali possono passare attraverso gli stoma ed i milky spot mediante un meccanismo di riassorbimento dei fluidi peritoneali, che trasporta passivamente la cellula neoplastica nel milky spot dove può rimanere intrappolata e proliferare. Questo tipo di diffusione peritoneale frequentemente ha una limitazione loco-regionale ed è il target ideale per il trattamento radicale (16).

Figura 1 Processo multifasico di disseminazione al peritoneo

Pertanto, il primo meccanismo necessita di elevata aggressività e specializzazione degli elementi tumorali, in quanto sottende la produzione e l’utilizzo di vari fattori di adesione e di crescita tipici delle neoplasie ad alto grado; il secondo meccanismo è più semplice e possibile, in quanto il peritoneo è sede di numerosi passaggi trans-linfatici soprattutto a livello del mesentere, dell’omento, del peritoneo del Douglas e delle cupole diaframmatiche, mentre ne è sprovvista la sierosa di rivestimento digiuno-ileale. La presenza di noduli neoplastici interessanti il piccolo intestino è un epifenomeno che contraddistingue un tumore aggressivo, come appunto il frequente carcinoma indifferenziato a cellule ad anello con castone dello stomaco.

Aspetti clinici
Nel corso degli ultimi due decenni, l’introduzione di metodiche chirurgiche innovative come la CCR e la CIIP ha consentito un approccio più radicale ed integrato del CG localmente avanzato. Il vantaggio teorico dell’associazione tra la CCR e la CIIP consiste nell’ottenere una completa eradicazione della neoplasia in quei quadri clinici di CG con ctm+ o con limitata CP; a ciò contribuiscono, in una singola procedura, una fase chirurgica definita di citoriduzione macroscopica ed una fase farmacologica definita di citoriduzione microscopica, grazie alla distribuzione di farmaci chemioterapici ad alte concentrazioni locali.

Staging
La complessità ed i potenziali rischi di morbilità e mortalità correlati giustificano un’attenta selezione dei pazienti da candidare al trattamento di CCR e CIIP. La tipologia di distribuzione della CP così come la quantità di malattia rappresentano due importanti parametri da valutare nel processo di selezione. Lo staging intra-operatorio è sostanzialmente basato sul PCI (Peritoneal Cancer Index) come definito nella Consensus Conference del 5th International Workshop on Peritoneal Surface Malignancy tenutasi nel dicembre 2006 presso l’Istituto Tumori di Milano, dove gli esperti hanno proposto il PCI quale metodo più valido per lo staging della CP (17).
Il PCI dà un valore complessivo determinato sia dalla dimensione degli impianti peritoneali sia dalla distribuzione dei noduli sulla superficie peritoneale. Per assegnare il punteggio finale viene prima di tutto valutata la dimensione dei noduli peritoneali (LS):
– LS0: i depositi maligni non sono visualizzabili;
– LS1: presenza di noduli < 0.5 cm;
– LS2: noduli tumorali compresi tra 0.5 e 5.0 cm;
– LS3: presenza di noduli tumorali > 5.0 cm o più noduli confluenti.
Al fine di valutare la distribuzione della malattia peritoneale, l’addome viene diviso in 9 regioni dell’anatomia tradizionale, a cui si aggiungono 4 segmenti del piccolo intestino (digiuno superiore ed inferiore; ileo superiore ed inferiore) (Figura 2).
La somma del punteggio LS in ciascuna delle regioni costituisce il PCI del paziente, con un punteggio massimo di 39.

Figura 2

CCR
Ampiamente utilizzata per il trattamento delle neoplasie primitive e secondarie del peritoneo, consiste nell’associare numerose procedure chirurgiche, variabili a seconda dell’estensione della carcinosi peritoneale. Oltre all’asportazione di tutto il peritoneo parietale e dell’omento, la chirurgia può includere resezioni viscerali maggiori come splenectomia, colecistectomia, resezione della glissoniana epatica, del piccolo intestino, colon e retto, gastrectomia, resezione del pancreas, isterectomia, ovariectomia e resezione della vescica urinaria. La riduzione di volume della massa tumorale è sempre stata considerata un importante fattore per la risposta alla chemioterapia. Infatti, la necessità di asportare tutta la malattia neoplastica macroscopicamente evidente deriva dal limitato potere di penetrazione dei farmaci chemioterapici, attualmente in uso, nel tessuto tumorale, che è dell’ordine di pochi millimetri (18). Nel caso del CG bisogna sottolineare come il ricorso alle manovre di CCR debba essere ben ponderato e comunque limitato. Secondo i recenti dati di letteratura, le indicazioni alle manovre di peritonectomia dovrebbero rispettare le seguenti condizioni:
– bassi valori di PCI
– CP prossima al tumore primitivo
– assenza di ascite
Ampie manovre di peritonectomia non sono giustificate in quanto avrebbero un limitato impatto sulla prognosi ed esporrebbero gli organi retroperitoneali a potenziali invasioni neoplastiche con grave impatto sulla qualità di vita.

CIIP
Presenta un duplice vantaggio, consistente nella somministrazione di alte dosi di chemioterapici nella sede tumorale e nell’attività tumoricida dell’ipertermia. Vi è infine un sinergismo d’azione tra i due meccanismi, che si traduce in un effetto superiore a quello additivo.

Vantaggi della somministrazione intraperitoneale rispetto alla terapia sistemica
Data la presenza della barriera plasmatico-peritoneale, la somministrazione della chemioterapia intraperitoneale determina un aumento delle concentrazioni che vanno da 20 a 1.000 volte i livelli plasmatici. Il trattamento intraperitoneale dipende dalla tendenza di alcuni farmaci a concentrarsi a livello del peritoneo, attraversandolo solo gradualmente. Tale probabilità dipende da molteplici fattori, tra cui la supposta presenza di una barriera plasmatico-peritoneale e di un gradiente di diffusione plasmatico-peritoneale. La clearance di un chemioterapico somministrato a livello intraperitoneale è inversamente proporzionale alla sua idrofilia ed al quadrato del suo peso molecolare. Ne deriva che il vantaggio della somministrazione intraperitoneale rispetto alla somministrazione intravenosa è funzione diretta del rapporto tra le concentrazioni farmacologiche rilevate a livello del peritoneo rispetto a quelle ematiche (elevato rapporto tra l’area sotto la curva [AUC] peritoneale e plasmatica per farmaci come la Mitomicina-C, il Cisplatino e la Doxorubicina), della clearance sistemica, ma inversamente proporzionale al flusso ematico locale. La penetrazione del farmaco è inoltre influenzata dalla pressione interstiziale del tessuto tumorale.

Vantaggi dell’ipertermia
Il calore ha un effetto tossico maggiore sul tessuto neoplastico rispetto a quello sano ed è incrementato dall’anomala vascolarizzazione del tumore maligno.
L’associazione della chemioterapia all’ipertermia produce un effetto sinergico che, in pratica, non è additivo, ma di potenziamento.
I meccanismi d’azione dell’ipertermia sono:
– aumentata penetrazione del chemioterapico nei tessuti;
– inibizione della sintesi dell’RNA;
– alterazione strutturale e funzionale del citoplasma e del nucleo delle cellule tumorali, in conseguenza dell’attivazione lisosomiale, che viene facilitata dalla glicolisi anaerobica relativamente più attiva nelle cellule neoplastiche.

Trenta anni fa, Spratt et al. (19) eseguirono il primo trattamento di CIIP in un paziente di sesso maschile con Pseudomixoma Peritonei, dopo un’esperienza sperimentale sui cani. Da allora, la metodica si è diffusa in ambito mondiale acquisendo vari aggiornamenti tecnici ed oggi viene applicata ampiamente per il trattamento della patologia neoplastica peritoneale.

Metodica
Per l’esecuzione della procedura è necessaria una macchina che consenta di perfondere la cavità addominale attraverso un sistema di pompe, di riscaldare il perfusato attraverso uno scambiatore di calore, di mantenere un flusso costante, di monitorare molteplici parametri di sicurezza durante lo svolgimento della metodica. Al termine della fase chirurgica, vengono posizionate 4 cannule attraverso la parete addominale. Due vengono utilizzate per l’infusione (in flow) e vengono posizionate rispettivamente in regione sub-diaframmatica destra e profondamente nella pelvi. Due cateteri, situati in regione centro-addominale e nella parte superficiale della pelvi, riconducono il perfusato allo scambiatore di calore all’esterno (out flow). Vengono quindi posizionate alcune sonde per la rilevazione delle temperature a livello del circuito, in entrata ed in uscita, dell’addome superiore e dell’addome inferiore (Figure 3 e 4). Esistono almeno due metodiche che consentono di eseguire una perfusione peritoneale in condizioni d’ipertermia (20-22).

Figura 3 Chemio Ipertermia Intra Peritoneale: schema

Figura 4 Chemio Ipertermia Intra Peritoneale: visione del campo operatorio

1) Tecnica ad addome aperto
La tecnica viene anche definita Coliseum Technique. La cute lungo tutta l’incisione mediana viene sospesa al divaricatore di Thompson in modo da creare una situazione simile al “Colosseo”, che crea un vero e proprio contenitore per l’instillazione del perfusato peritoneale. Sull’addome così preparato è disteso un telo di materiale plastico, anch’esso ancorato al divaricatore, che presenta centralmente un’apertura, attraverso la quale la mano del chirurgo può accedere alla cavità addominale e può manipolare le anse intestinali, garantendo una migliore diffusione sia del calore sia dei farmaci e per prevenire la stasi del perfusato. Il vapore dei farmaci, che si libera nell’ambiente, viene evacuato mediante un sistema di aspirazione per proteggere il personale di sala operatoria dagli effetti tossici dei chemioterapici. Il maggior vantaggio della tecnica Coliseum è di garantire una migliore distribuzione del calore e del perfusato grazie alla manipolazione diretta delle anse da parte del chirurgo. Lo svantaggio principale della metodica consiste nella dispersione di calore nell’ambiente, che limita il raggiungimento dell’ipertermia adeguata. Esiste inoltre il problema teorico dell’esposizione professionale, che avviene per contatto diretto per il chirurgo che manipola le anse e per inalazione per tutto il personale di sala operatoria. Tale metodica necessita pertanto di adeguate misure di sicurezza.

2) Tecnica ad addome chiuso
Nella modalità ad addome chiuso, la pelle della parete addominale viene chiusa temporaneamente mediante sutura continua. Dato inizio alla chemioterapia intraperitoneale, è opportuno che il chirurgo impartisca movimenti basculanti alla parete addominale manualmente od eventualmente avvalendosi di modici spostamenti del letto operatorio; tutto ciò, al fine di ottenere la maggiore uniformità di distribuzione del calore e del liquido di perfusione all’interno della cavità addominale.
Al termine della perfusione, il perfusato viene evacuato e l’addome riaperto. Il vantaggio principale di tale modalità è la rapidità con cui si ottiene e si mantiene la condizione di ipertermia, data la minima perdita di calore da un addome chiuso. Inoltre, vi è una minima, se non nulla, esposizione dello staff di sala operatoria. Il maggior svantaggio della metodica è invece la mancanza di uniforme distribuzione del calore e di perfusato all’interno della cavità addominale.

Applicazioni nella pratica clinica
In considerazione della storia naturale della diffusione peritoneale del CG, i quadri clinici più frequentemente riscontrabili nella pratica consistono in:
– CG con ctm+;
– CG con limitata CP;
– CG con CP diffusa.
Dai risultati della Consensus Conference, sono emerse indicazioni cliniche coerenti con il quadro di evoluzione della malattia. Le prime due condizioni cliniche, se non opportunamente trattate, presentano una prognosi simile con mediana di sopravvivenza di 6-12 mesi ed evoluzione clinica caratterizzata da progressione peritoneale fino al quadro di occlusione intestinale. Tali quadri sono frequentemente trattati mediante chirurgia resettiva del tumore primitivo associata ad un trattamento neoadiuvante/adiuvante di chemioterapia sistemica (sCT). Nei pazienti con citologia positiva o con limitata CP, vi è un forte razionale ad associare la CIIP nella strategia di trattamento, che deve peraltro prevedere una CCR ed una sCT nell’ambito di studi clinici controllati.
Nei pazienti con CP ad alto PCI non vi è un’indicazione chirurgica e l’unica cura consiste nel trattamento sCT seguito da chirurgia resettiva nei limitati casi in cui si ottiene un’importante risposta terapeutica con riconduzione a malattia resecabile.

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11.5 Definizione complicanze e pazienti a rischio

Premessa
Non esiste un consenso nella letteratura medico-scientifica su come definire e classificare per gravità le complicanze successive ad un intervento chirurgico. Spesso, vengono utilizzati termini quali “complicanze maggiori” o “minori”, senza che sia precisato su quali elementi obiettivi si basa questa classificazione di gravità. Ciò, che accade anche per la chirurgia oncologica gastrica, espone al rischio di valutare in modo difforme e non standardizzato i risultati di una determinata procedura chirurgica od anche di un trattamento medico associato alla chirurgia come, ad esempio, la chemioterapia adiuvante o neoadiuvante. Nel tentativo di superare questi ostacoli, è stata proposta nel 2004 da un gruppo chirurgico di Zurigo una nuova classificazione, che definisce semplicemente “complicanza” ogni deviazione dal normale decorso post-operatorio e classifica la gravità in funzione delle risorse impiegate per fronteggiarla, come riportato nella Tabella 1 (1).

Tabella 1 Classificazione delle complicanze chirurgiche

Questo metodo di classificazione è stato validato in una coorte prospettica di 6.336 pazienti sottoposti a chirurgia elettiva tra il 1988 ed il 1997. Recentemente, la validità del metodo è stata criticamente rivalutata per mezzo di un’analisi sistematica degli studi pubblicati in cui esso è stato impiegato testando, inoltre, in modo prospettico la variabilità inter-osservatore nel classificare i medesimi eventi, risultata molto buona (2). Ciò ha portato alla conclusione che la classificazione delle complicanze chirurgiche di Dindo-Clavien è valida ed applicabile a molti settori della chirurgia e che molte classificazioni poco accurate o soggettive dovrebbero essere abbandonate.
Nonostante ciò, la maggior parte dei report della letteratura medico-scientifica degli ultimi 5 anni relativi alla terapia chirurgica del cancro gastrico fa ancora riferimento, nell’analisi delle complicanze, a sistemi tradizionali, che classificano le complicanze post-chirurgiche in base a raggruppamenti fisiopatologici (infettive, cardiovascolari, respiratorie ecc.). In questo capitolo, si manterrà la classificazione tradizionale delle complicanze post-chirugiche basata sul principio della loro origine e della loro fisiopatologia, chiarendo quali siano i gruppi di pazienti maggiormente a rischio per il loro sviluppo.

Quali complicanze è utile considerare nella valutazione di un intervento chirurgico di gastrectomia per cancro? Quali sono i risultati immediati della chirurgia per cancro gastrico, in termini di mortalità e morbilità chirurgica?

La letteratura indica concordemente le seguenti complicanze come le più frequenti e rilevanti dopo gastrectomia per cancro:

– deiscenza anastomotica, generalmente diagnosticata mediante pasto opaco con mezzo di contrasto idrosolubile;

– raccolta fluida/ascesso, definita come presenza di materiale liquido infetto nella cavità addominale, confermata da ecografia o TC;

– ostruzione intestinale, dovuta ad ostacolo meccanico, generalmente diagnosticabile con TC;

– ileo paretico, definito come assenza di motilità intestinale in associazione a distensione gassosa dell’intestino, senza evidenza di livelli idro-aerei alla radiografia addominale;

– emorragia post-operatoria, richiedente una o più trasfusioni, confermata da endoscopia o da altre metodiche di imaging;

– infezione/deiscenza della ferita chirurgica, abitualmente richiedente una revisione chirurgica;

– complicanza pneumo-polmonare, definita come la presenza di atelettasia, versamento pleurico, empiema, polmonite o pneumotorace alla radiografia del torace o alla TC;

– complicanza cardiaca, definita come presenza di sintomi, dati di laboratorio ed ECG indicativi di infarto miocardico, angina e aritmia;

– complicanza renale, definita come presenza di sintomi e dati di laboratorio indicativi di insufficienza renale acuta.

La maggior parte delle casistiche cliniche asiatiche indica tassi di mortalità operatoria contenuti < 2% e di morbilità complessiva intorno al 20-25%, di cui solo un quarto riferibili a complicanze “maggiori”, intendendo con questo termine quelle che hanno richiesto un re-intervento chirurgico, una procedura di radiologia o di radiologia interventistica oppure il ricovero in terapia intensiva (3-7). Il dato è ancora più significativo se si considera che la linfoadenectomia estesa (cosiddetta D2) costituisce per gli Autori orientali (Giapponesi, Coreani e Taiwanesi) uno standard di trattamento del carcinoma gastrico. In Occidente, i risultati clinici sono sicuramente inferiori, in termini sia di mortalità sia di morbilità post-operatoria, a quelli riportati dagli Autori orientali. In 2 grandi studi clinici europei di confronto fra linfoadenectomia limitata od estesa (D1 vs D2), condotti in Olanda (8) e nel Regno Unito (9), la mortalità operatoria ha raggiunto il 10% nel braccio D2, mentre nel braccio D1 essa è risultata superiore a quella osservata nelle casistiche orientali, dove è standardizzata la gastrectomia D2. Accanto a questo dato negativo, relativo a mortalità e complicanze post-operatorie, non era emerso da questi studi randomizzati europei alcun vantaggio in termini di sopravvivenza globale e libera da malattia nei pazienti sottoposti a linfoadenectomia estesa, almeno fino alla recentissima rivalutazione ad un follow-up di 15 anni dei risultati del Dutch Trial (10). Songun et al. hanno riportato infatti un sostanziale beneficio a lungo termine della linfoadenectomia D2 in termini sia di recidiva locale sia di sopravvivenza cancro-specifica. Sono state proposte molte possibili spiegazioni per questa difformità di risultati tra casistiche orientali ed occidentali, tra cui la diversa tipologia dei pazienti. In genere, i pazienti in occidente hanno un tasso di comorbilità cardio-respiratorie e metaboliche più elevato, oltre che un BMI (Body Mass Index) superiore; ciò può influenzare i risultati immediati della chirurgia (mortalità e complicanze) (11). E’ possibile che, almeno in parte, i risultati negativi riportati negli studi clinici europei siano anche dovuti ad insufficiente esperienza dei chirurghi e dei Centri partecipanti, in cui il volume di casi trattati/anno potrebbe essere ritenuto inadeguato per sviluppare un expertise specifica (12). Ciò è indirettamente confermato dal fatto che report di Centri europei ad alto volume di casistica clinica riportano tassi di mortalità operatoria e di morbilità complessiva simili a quelli delle casistiche asiatiche, sia in studi longitudinali prospettici (13) sia in quelli randomizzati (14). Un punto chiave per spiegare l’elevata mortalità degli studi randomizzati europei è anche l’associazione routinaria della splenectomia e della resezione pancreatica caudale, che producono con certezza un aumento della morbilità post-operatoria; queste procedure non sono oggi ritenute più utili per la cura radicale del carcinoma gastrico localmente avanzato e dovrebbero essere eseguite solo in presenza di invasione diretta del tumore o di grossolane linfoadenopatie dell’ilo splenico, allorquando la splenectomia con o senza pancreasectomia caudale siano necessarie per ottenere una resezione radicale (15-17).

Quali sono le categorie di pazienti maggiormente a rischio di sviluppare una complicanza post-operatoria nella cura chirurgica del cancro gastrico?

Esiste una buona evidenza che l’obesità costituisca un fattore di rischio per lo sviluppo di complicanze post-gastrectomia. L’analisi recente condotta su 689 pazienti, consecutivamente trattati in un Centro giapponese, ha evidenziato che un BMI > 25 kg/m2 comporta tempi chirurgici più lunghi, una maggiore perdita ematica perioperatoria ed un più elevato tasso di complicanze post-operatorie maggiori (deiscenza anastomotica, fistola pancreatica, ascesso addominale), senza invece un impatto significativo sulla sopravvivenza globale e libera da malattia (18). Conclusioni simili sono riportate in uno studio retrospettivo condotto su 410 pazienti coreani (19), suddivisi in base al BMI (>= o < 25 kg/m2) e sottoposti a gastrectomia totale D2 con intento di radicalità oncologica. Più accurata del BMI nel predire un tasso di morbilità maggiore (specialmente per quanto concerne lo sviluppo di fistole pancreatiche post-operatorie) sembra essere la valutazione del grasso viscerale. Uno studio giapponese (20) ha esaminato l’impatto sul tasso di fistola pancreatica post-operatoria dopo gastrectomia totale dell’Area Grassa Viscerale, calcolabile con un software dedicato a partire da immagini ottenute mediante TC dell’addome. I pazienti con Area Grassa Viscerale > 100 cm2 hanno presentato un tasso di complicanza pancreatica significativamente più elevato. A conclusioni simili è giunto anche un altro gruppo giapponese, che ha esaminato l’impatto sulle complicanze della morfologia superiore corporea, ricavabile da immagini TC e correlabile con la quantità di grasso viscerale (21).
Un recente studio coreano ha esaminato l’associazione fra comorbilità ed outcome immediato chirurgico. L’analisi condotta su 759 pazienti consecutivi, sottoposti a gastrectomia D2 per cancro ha permesso di identificare nella presenza di malattia epatica cronica (epatite virale cronica, cirrosi epatica) e di cardiopatia ischemica i fattori di rischio significativamente correlati allo sviluppo di una complicanza post-operatoria (22). In un altro studio prospettico giapponese, la polmonite nosocomiale post-operatoria (complicanza temibile della gastrectomia radicale per cancro, con una mortalità specifica del 19-45%) è risultata significativamente correlata al sesso maschile ed al numero di trasfusioni eseguite nel periodo perioperatorio, non chiarendo il possibile impatto di fattori quali la broncopneumopatia cronica ostruttiva e/o il tabagismo (23).
Studi retrospettivi mostrano che un diabete mellito datato da più di 10 anni ha un impatto significativo sul tasso di infezioni nosocomiali post-operatorie dopo gastrectomia elettiva per cancro (24).
Infine, è oggi messa in dubbio l’influenza sulle complicanze post-operatorie di uno stato di semplice malnutrizione non associata a deficit immunologico (25). Una valutazione accurata dello stato nutrizionale nei pazienti candidati ad intervento ed un’azione correttiva dell’eventuale malnutrizione sono comunque raccomandate da molte linee-guida internazionali (26).

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TERAPIA PRE-OPERATORIA ED ADIUVANTE

12.1 Chemioterapia pre-operatoria
12.2 Chemioterapia adiuvante
12.3 Chemioradioterapia adiuvante

12.1 Chemioterapia pre-operatoria

Nonostante una riduzione d’incidenza, il carcinoma gastrico è una delle principali cause di morte. La chirurgia rimane l’unico trattamento con finalità curative, quando la neoplasia è limitata alla sottomucosa, con una sopravvivenza a lungo termine del 70-95%. Purtroppo, la maggior parte dei pazienti si presenta alla diagnosi in stadio III o IV e la sopravvivenza a 5 anni scende al 20-30%. La prognosi severa delle forme localmente avanzate è legata ad un’elevata percentuale di recidive dopo trattamento chirurgico, spiegabili sia con la presenza di malattia occulta metastatica sia con l’evenienza di un residuo tumorale post-resezione (1). In base a questi dati, sono state sviluppate negli ultimi anni nuove strategie terapeutiche, al fine di migliorare la prognosi dei pazienti con carcinoma gastrico.
A tal proposito, sono stati pubblicati i risultati di diversi studi clinici che hanno preso in considerazione il ruolo della chemioterapia somministrata prima dell’atto operatorio (chemioterapia pre-operatoria). Questa strategia terapeutica trovava la sua giustificazione nel tentativo di aumentare il tasso di resecabilità attraverso un downstaging dei carcinomi gastrici localmente avanzati (stadio II e III) e di ridurre l’incidenza di metastasi a distanza, al fine ultimo di migliorare la sopravvivenza libera da malattia e la sopravvivenza globale. A queste premesse andavano aggiunte altre due considerazioni: la prima era che il paziente con neoplasia gastrica avanzata presentava spesso un corredo sintomatologico (disfagia, dolore) tale da interferire con la qualità di vita, per cui la somministrazione del trattamento antiblastico pre-operatorio avrebbe potuto portare immediato beneficio, controllando i sintomi associati alla neoplasia; la seconda era legata alla possibilità di un test in vivo circa la sensibilità al trattamento individuato (2), con l’ulteriore vantaggio, in caso di rapida progressione e palese inoperabilità, di evitare una chirurgia solamente esplorativa.
I primi studi di fase I/II di terapia neoadiuvante hanno dimostrato la possibilità di ridurre la massa neoplastica fino al 50%, con il 10% di risposte patologiche complete, senza provocare un aumento delle morbilità e della mortalità operatoria (3,4).
Nel 1996, Melcher (3) ha condotto uno studio nel quale ha valutato l’infusione di chemioterapia pre-operatoria secondo lo schema ECF (Epirubicina 50 mg/m2 endovena + Cisplatino 60 mg/m2 endovena somministrati ogni 3 settimane per 4 cicli contemporaneamente ad una infusione continua di 5-Fluorouracile 200 mg/m2/die per 12 settimane) in pazienti affetti da carcinomi gastroesofagei resecabili o non resecabili. Già da allora apparve evidente che il problema principale rimaneva quello di stabilire come una neoplasia potesse essere giudicata non resecabile. A tal proposito, Melcher individuò due modalità di stadiazione: una invasiva legata ad una valutazione chirurgica laparotomica o laparoscopica, correlata comunque ad un aumento delle morbilità; l’altra non invasiva (endoscopia, studio radiologico con bario o TC), che chiaramente non poteva fornire informazioni complete sull’estensione locale del tumore e sul grado di coinvolgimento linfonodale e che, quindi, non poteva prevedere in modo attendibile la resecabilità.
Diversi gruppi hanno cercato una risposta definitiva alla necessità o meno di effettuare una stadiazione chirurgica, prendendo anche in considerazione nuove metodiche sicuramente più raffinate come l’ecoendoscopia (che è in grado di dare un giudizio sulle dimensioni, la sede della neoplasia, il coinvolgimento degli organi vicini e l’interessamento linfonodale), ma la problematica rimane tutt’oggi ancora aperta.
Inoltre, i risultati di questi primi studi clinici sono discutibili, soprattutto a causa delle limitazioni metodologiche. Infatti, manca una precisa stadiazione pre-operatoria, un reclutamento di pazienti con criteri omogenei, una distinzione tra tumori resecabili e non. Altri bias includono l’utilizzo di diversi schemi chemioterapici, il trattamento chirugico non-standardizzato e, molto spesso, l’indicazione sulle risposte anatomo-patologiche ottenute.
Nel 2004 furono pubblicati i risultati di uno studio randomizzato condotto in Giappone che confrontava la chirurgia, preceduta o meno da una chemioterapia con UFT (Tegafur-Uracile), in circa 300 pazienti, e che dimostrarono che la chemioterapia pre-operatoria poteva determinare un aumento sia delle resezioni chirurgiche radicali (R0) sia della sopravvivenza (5).
Questi risultati incoraggianti non furono confermati da uno studio olandese (6), nel quale i pazienti furono sottoposti a chirurgia preceduta o meno da un trattamento chemioterapico aggressivo come il FAMTX (5FU 1.500 mg/m2, Doxorubicine 30 mg/m2, Methotrexate 1.500 mg/m2). Nei due gruppi non si è evidenziata nessuna differenza in termini di resezioni curative R0 e di sopravvivenza: nel gruppo sottoposto alla sola chirugia (n=30), il 62% dei pazienti presentò R0 verso il 56% dei pazienti sottoposti a chemioterapia neoadiuvante (n=29). Lo studio venne concluso, comunque, dopo l’inclusione di soli 59 pazienti a causa del lento reclutamento (6); problema che esiste anche in altri studi che presentano casistiche limitate.
Recentemente, lo studio inglese MAGIC (MRC Adjuvant Gastric Infusional Chemotherapy) ha dimostrato per la prima volta, come studio clinico controllato, un vantaggio in termini assoluti in sopravvivenza del 13% con l’utilizzo di una chemioterapia perioperatoria rispetto alla sola chirurgia praticata in prima istanza, ottenendo una riduzione di rischio di morte del 25% (7) (Figure 1 e 2).

Figura 1 Sopravvivenza libera da progressione (curve di Kaplan-Meier) in una serie di 250 pazienti sottoposti a chemioterapia perioperatoria e 253 a sola chirurgia

Figura 2 Sopravvivenza globale (curve di Kaplan-Meier) in pazienti sottoposti a chemioterapia perioperatoria o a sola chirurgia

In questo studio randomizzato sono stati arruolati 503 pazienti, di cui 25% affetti da adenocarcinoma della giunzione o esofago distale, che hanno ricevuto la sola chirugia od una chemioterapia pre e post-operatoria con tre cicli di Epirubicina, Cisplatino e Fluorouracile in infusione continua (ECF). I pazienti venivano stadiati con i seguenti esami strumentali: TC, Rx torace, ecografia o laparoscopia. L’intervento chirurgico veniva espletato entro le 6 settimane dalla randomizzazione nel gruppo che eseguiva in prima istanza la chirurgia, mentre nell’altro gruppo (chemioterapia perioperatoria) dopo 3-6 settimane dal terzo ciclo di chemioterapia. Inoltre, la procedura chirurgica veniva decisa a discrezione del chirurgo e comprendeva una linfoadenectomia D1 o D2. La valutazione patologica ha mostrato differenze significative relativamente al downsizing (3 cm nel gruppo chemioterapia verso 5 cm nel gruppo chirurgia), miglioramento del T (p=0.009) e coinvolgimento linfonodale (p=0.01). Le resezioni curative R0 sono risultate significativamente aumentate nel gruppo di pazienti sottoposti a chemioterapia pre-operatoria (79% vs 70%), mentre la morbilità e mortalità sono risultate equivalenti nei due bracci. La tossicità del trattamento è risultata accettabile. Un altro risultato, sicuramente rilevante, è rappresentato dalla quota dei pazienti che è riuscita a completare il trattamento chemioterapico pre-operatorio (80%), mentre solamente il 43% ha completato quello post-operatorio. La mediana di sopravvivenza globale dopo chemioterapia è risultata di 24 contro 20 mesi per la sola chirurgia (HR 0.75 95% IC: 0.60-0.93 p=0.009), mentre la percentuale di sopravvivenza a 5 anni è risultata del 36% e 23% rispettivamente, ad un follow-up di 3 anni. La sopravvivenza libera da progressione è risultata significativamente migliore nel braccio di pazienti sottoposti a chemioterapia (HR 0.66 95% IC: 0.53-0.81 p=0.0001, pur con limiti di questo studio).
Successivamente, un altro studio clinico di fase III, disegnato da Boige, ha confermato ancora una volta che il trattamento perioperatorio nel carcinoma gastrico può essere considerato sicuro ed efficace (8). In questo studio di confronto tra la sola chirurgia ed il trattamento chemioterapico pre-operatorio, sono stati arruolati 224 pazienti affetti da carcinoma della giunzione gastroesofagea o esofago distale nel 75%, mentre il 25% da adenocarcinoma gastrico operabile, con un’età mediana di 61 anni. I pazienti sono stati stadiati con eco-endoscopia e TC. La somministrazione di 2-3 cicli di chemioterapia comprendente Cisplatino (100 mg/m2) e Fluorouracile (800 mg/m2 in infusione continua per 5 giorni), nel setting pre-operatorio, ogni 28 giorni, ha consentito un netto vantaggio in termini di sopravvivenza globale (OS) e libera da malattia (DFS) rispetto alla sola chirurgia, con una OS a 5 anni del 38% per il braccio trattato con chemioterapia verso il 24% per i pazienti sottoposti ad intervento chirurgico in prima istanza ed una DFS a 5 anni rispettivamente del 21% e del 40% (p=0.003). Inoltre, le resezioni curative R0 sono risultate significativamente migliori nel gruppo sottoposto a chemioterapia pre-operatoria (84% vs 73%), mentre tra i due gruppi non si è evidenziata nessuna differenza in termini di risposta patologica sul tumore primitivo (pT) e sui linfonodi (pN). Da questo studio emerge un altro dato importante, che riguarda la difficoltà di somministrare il previsto trattamento chemioterapico dopo la chirurgia: infatti, solo il 51% dei pazienti ha ricevuto in modo parziale o completo il trattamento chemioterapico adiuvante.
In tutti questi studi clinici, l’aumento delle resezioni R0 in risposta alla chemioterapia pre-operatoria rappresenta un obiettivo importante, in quanto è l’indicatore prognostico più significativo. Infatti, la resezione R0 si è rilevata l’unica variabile indipendente nel determinare la probabilità di sopravvivenza a lungo termine nel carcinoma gastrico localmente avanzato (9-11).
La maggior parte dei suddetti studi ha utilizzato lo schema ECF, che rimane lo standard nel trattamento pre-operatorio (12,13). ECF confrontato con Fluorouracile, Doxorubicina, Methotrexate in uno studio di fase III, randomizzato, ha dimostrato un tasso superiore di risposta globale (ORR 45% vs 21%), un tempo mediano alla progressione migliore (TTP 7.4 vs 3.4 mesi) ed una miglior sopravvivenza globale (OS 8.9 vs 5.7 mesi).
Tuttavia, con l’introduzione nella pratica clinica di altri farmaci citotossici, quali il Docetaxel, approvato per il trattamento del carcinoma gastrico in fase avanzata, sono stati introdotti nuovi schemi terapeutici, tra cui il DCF (Docetaxel 75 mg/m2 giorno 1, Cisplatino 75 mg/m2 giorno 1 e Fluorouracile 300 mg/m2 al giorno per 1-14 giorni), in quanto mostra una mediana di risposta più breve rispetto all’ECF (1.6 vs 3 mesi). Questo risultato suggerisce che questo schema potrebbe rappresentare una valida opzione terapeutica nel setting neoadiuvante, dove una rapida riduzione del tumore prima della chirurgia è essenziale in quanto si tratta di pazienti “fragili” (14).
Tale evidenza è stata confermata da diverse esperienze in ambito pre-operatorio (15). Una serie di 70 pazienti affetti da carcinoma gastrico localmente avanzato (T3-4 ogni N M0 o qualsiasi T N1-3 M0), stadiati con eco-endoscopia, scintigrafia ossea, TC e laparoscopia, sono stati trattati con 4 cicli di DCF, prima (braccio A) o dopo (braccio B) la gastrectomia. Dopo chemioterapia pre-operatoria con DCF (braccio A), 32 pazienti (94%) sono stati sottoposti a chirurgia, l’85% è risultato R0; la risposta patologica completa si è osservata in 4 pazienti (11.7%) e quella parziale in 18 (55%). La mortalità operatoria ed il tasso di morbilità sono risultati sovrapponibili nei due bracci. Eventi avversi seri relativi alla chemioterapia tendono ad essere più frequenti nel braccio B (23% vs 11%, p=0.07).
Tuttavia, esistono delle criticità circa la difficoltà di identificare i pazienti potenzialmente responsivi alla chemioterapia, la difficoltà di monitoraggio e di risposta alla chemioterapia.
Numerosi studi hanno indagato sull’utilizzo della PET nell’analisi della risposta alla chemioterapia d’induzione (16). Ott et al. (17) hanno mostrato che una riduzione del 35% tra i valori PET registrati prima e a due settimane dall’inizio della chemioterapia a base di platino è predittivo di risposta, con un’accuratezza dell’85%. Utilizzando questo criterio, il tasso di sopravvivenza a 2 anni è stato del 90% nei pazienti responsivi e del 25% nei non responsivi (p=0.002). Il decremento dell’uptake durante la terapia è una variabile continua e diverse soglie sono state considerate da altri ricercatori. Ad esempio, Shah et al. (18) hanno dimostrato che una riduzione del 45%, confrontando l’assorbimento dopo 35 giorni dalla chemioterapia, rappresenta il miglior valore cut-off nell’identificare i pazienti responsivi e quelli non responsivi e predire l’outcome. Nel suddetto studio sono stati selezionati 42 pazienti con carcinoma gastrico localmente avanzato (stadio pre-operatorio: T2, N+, M0 o T3-T4, con ogni N, M0) e sono stati trattati con Irinotecan (65 mg/m2) e Cisplatino (30 mg/m2) nei giorni 1 e 8, in cicli ripetuti ogni 21 giorni, per un totale di 4 cicli. PET/TC venivano eseguite al baseline, e nei pazienti con ipercaptazione PET, ripetute al 15° e 35° giorno. Lo scopo primario era quello di dimostrare se una riduzione dell’ipercaptazione fosse in grado di predire la risposta al trattamento. L’intervento chirurgico veniva eseguito dopo una mediana di 101 giorni dalla data di inizio della chemioterapia. L’entità della risposta patologica correlava in maniera significativa con la DFS (p=0.005) e con la OS (p=0.01). Una riduzione del SUV (Standardized Uptake Value) del 45% al 35° giorno dall’inizio della chemioterapia riusciva a distinguere adeguatamente pazienti con buona e cattiva risposta patologica. Anche per il cancro gastrico, così come per le neoplasie esofagee (19), gli studi hanno mostrato una marcata variabilità nei valori del cut-off. Pertanto, si potrebbe utilizzare la precoce variazione della captazione alla FDG-PET/TC nel predire la risposta alla chemioterapia pre-operatoria nel cancro gastrico e di conseguenza la possibilità di modificare il trattamento nei pazienti non responsivi.
Concludendo, pur rimanendo al momento una metodica ancora in via di evoluzione, il trattamento perioperatorio è fattibile in termini di sicurezza, consente di aumentare le resezioni curative chirurgiche R0, di ridurre sia le dimensioni (downsizing) sia lo stadio (downstaging), offrendo una potenziale curabilità a questo gruppo di pazienti. Tra l’altro, tutti questi studi dimostrano che la percentuale di pazienti che può ricevere una chemioterapia perioperatoria è circa il doppio di quelli che possono riceverla nel post-operatorio.

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12.2 Chemioterapia adiuvante

Premessa
Il ruolo della chemioterapia (CT) adiuvante è stato ampiamente valutato nell’ambito di studi clinici sin dagli anni ’80, nel tentativo di migliorare la prognosi dei pazienti con tumore gastrico sottoposti ad intervento chirurgico (CH). La sopravvivenza a 5 anni dei pazienti sottoposti a chirurgia radicale è solo del 20-40% con un alto rischio di recidiva locale e di metastasi a distanza (1).
Molti studi clinici randomizzati hanno dimostrato piccole differenze in sopravvivenza (OS) nei pazienti sottoposti a CT adiuvante verso sola CH, non raggiungendo la significatività statistica (2).
Questi studi erano sottodimensionati per quanto riguarda la pianificazione del campione e nessuno era stato disegnato per osservare un vantaggio in OS a 5 anni del 7-10%. Inoltre, questi studi utilizzavano vecchi regimi chemioterapici, precedenti l’introduzione del Cisplatino (CDDP).
Le 6 meta-analisi condotte fino al 2006 hanno evidenziato una riduzione nel rischio di morte del 18% (Hazard Ratio, HR: 0.82), ma questi risultati hanno rappresentato più uno stimolo per ulteriori ipotesi di studio che una vera indicazione per i clinici (3-8).

Meta-analisi
La prima meta-analisi di Hermans et al. del 1993 ha analizzato 11 studi randomizzati con 2.096 pazienti ed ha concluso che la CT non apporta alcun vantaggio in OS (Odds Ratio, OR: 88; 95% IC: 0.78-1.08); l’analisi è stata ampiamente criticata per la scelta degli studi inclusi e la successiva revisione, effettuata nel 1994, ha mostrato un vantaggio significativo della CT adiuvante con un OR di 0.82; 95% IC: 0.68-0.97 (3).
Nel 1999, la meta-analisi di Earle e Maroun eseguita su 13 studi con 1.990 pazienti ha evidenziato un vantaggio significativo con un beneficio assoluto in OS del 4% con la CT adiuvante ed un OR di morte di 0.80 (95% IC: 0.66-0.97) (4).
Nell’analisi per sottogruppi è emerso un vantaggio significativo nei pazienti con linfonodi positivi ed un più basso rischio relativo per i pazienti trattati con antracicline (4).
Nel 2000 Mari et al. hanno eseguito una meta-analisi di 20 studi condotti tra il 1983 e il 1999 su 3.568 pazienti, evidenziando una HR di 0.82 (95% IC: 0.75-0.89), p<0.001, che rappresenta una riduzione del 18% del rischio relativo di morte, con beneficio assoluto in OS del 2-4%. Nell’analisi retrospettiva per sottogruppi, non è stata osservata alcuna differenza statistica con l’uso delle antracicline e la monoterapia con Mitomicina-C (MMC) evidenziava risultati migliori della polichemioterapia (5).
Nel 2002 Panzini et al., nella meta-analisi di 17 studi randomizzati condotti dal 1981 al 1999 in 3.118 pazienti, hanno osservato una riduzione statisticamente significativa nel rischio di morte con un OR di 0.72 (95% IC: 0.62-0.84) (6).
Nel 2001, la meta-analisi di Janunger et al. ha evidenziato un piccolo beneficio in OS con l’uso della CT adiuvante, includendo studi occidentali ed asiatici (OR: 0.84; 95% IC: 0.74-0.96); quando gli studi occidentali sono stati analizzati separatamente, non veniva più osservato alcun vantaggio (OR 0.96; 95% IC: 0.83-1.12), mentre negli studi asiatici il beneficio rimaneva significativo (OR 0.59; 95% IC: 0.44-0.76) (7).
Nello stesso anno, è stata pubblicata da Hu et al. un’altra revisione sistematica di 14 studi clinici su 4.543 pazienti trattati con CT endovenosa dopo gastrectomia verso solo CH, includendo studi randomizzati e non, con CT adiuvante, chemioipertermia intraperitoneale, radioterapia (RT) o chemioimmunoterapia (CTI). L’effetto della CT endovenosa è risultato migliore della sola CH (OR: 0.56, 95% IC: 0.40-0.79, p=0.0008), ma l’evidenza di questa meta-analisi non è sufficientemente alta per la ridotta qualità della metodologia degli studi inclusi (8).
Globalmente, le meta-analisi suggeriscono un incremento assoluto del 4% in OS a 5 anni con l’uso della CT adiuvante, ma la rilevanza clinica del dato si perde nelle critiche metodologiche agli studi analizzati (mancata raccolta di dati individuali dei pazienti, bias di pubblicazione, differenze nella popolazione dei pazienti e nei criteri di inclusione degli studi, ecc.). Nessuna di queste meta-analisi aveva inoltre incluso studi di terapia adiuvante con chemioterapici di terza generazione, come i regimi contenenti CDDP.
E’ bene ricordare, a tale proposito, che nessuna meta-analisi è in grado di consegnarci una verità assoluta, ma solo relativa agli studi esaminati ed al momento storico nel quale sono stati condotti.
Inoltre, l’uso dell’OR di morte come obiettivo primario di confronto utilizzato in 5 delle 6 meta-analisi non è adeguato per la valutazione della time-to-event analysis; come viene infatti suggerito dalla Cochrane Collaboration, l’HR è più appropriato per sintetizzare l’effetto del trattamento (9).
Le 2 meta-analisi più recenti comprendono anche gli studi con farmaci di ultima generazione. La prima meta-analisi condotta da Sun et al. ha incluso 12 studi randomizzati (3.809 pazienti) presenti nella letteratura inglese e cinese degli ultimi 10 anni (1997-2007). Sono stati esclusi dall’analisi gli studi non randomizzati, le review e quelli con trattamenti intraperitoneali, con CTI, RT-CT, CT intra-arteriosa e CT neoadiuvante. L’effetto della CT adiuvante è stato valutato in termini di HR. La CT ha evidenziato un vantaggio in termini di OS con un HR di 0.78 (95% IC: 0.71-0.85, p<0.001); l’analisi per sottogruppi ha osservato che il vantaggio della CT non è influenzato dall’infiltrazione tumorale nella parete gastrica (T), dalle metastasi linfonodali (N), dal tipo di linfoadenectomia (D), dalla distribuzione geografica dei pazienti o dalla via di somministrazione del farmaco (orale o infusiva). In tutti gli studi inclusi nella meta-analisi, il trattamento CT prevedeva fluoropirimidine per via orale oppure endovenosa (10).
La meta-analisi, basata su dati individuali dei pazienti (IPD), pubblicata recentemente su JAMA da Buyse et al., ha incluso 6.390 pazienti, in 31 studi randomizzati di terapia adiuvante, che avevano concluso l’arruolamento alla fine del 2003 (escludendo gli studi di RT, CT intraperitoneale e CTI). Al 2010, l’analisi effettuata in 17 studi (3.838 pazienti) con un follow-up (F-UP) mediano di 7 anni ha mostrato un vantaggio in OS con la CT adiuvante, con un HR di 0.82, 95% IC: 0.76-0.90, p<0.001. Tale beneficio veniva documentato principalmente negli studi che impiegavano una fluoropirimidina. L’analisi ha inoltre evidenziato una peggiore prognosi nei pazienti d’età > 66 anni (HR: 1.51, 95% IC: 1.31-1.73), con performance status (PS) uguale a 2 (HR: 1.71, 95% IC: 1.35-2.15), con lo stadio più avanzato di malattia (HR: 1.41 per unità 95% IC: 1.35-1.46) e T > 1 (HR: 1.57 per unità, 95%       IC: 1.47-1.67). Veniva osservata anche una forte influenza sulla prognosi della distribuzione geografica dei pazienti: gli asiatici presentavano una migliore OS rispetto agli occidentali (HR: 0.30, 95% IC: 0.26-0.34 e HR: 1.26, 95% IC: 1.13-1.41) (11) (Tabella 1).

Tabella 1 Meta-analisi degli studi di chemioterapia adiuvante nel carcinoma gastrico operato

Studi con nuovi regimi chemioterapici
Dopo le prime meta-analisi degli studi degli anni ’90, nuovi regimi terapeutici contenenti CDDP sono stati valutati in 5 studi clinici randomizzati. Lo studio di fase III randomizzato dell’ITMO (Italian trials in Medical Oncology Group) in 274 pazienti con tumore gastrico radicalmente operato a peggior prognosi (N+ o T3/4) ha valutato il trattamento adiuvante con la combinazione EAP (Etoposide, Adriamicina e CDDP) seguito da 5-Fluorouracile (5FU) e Leucovorin (LV) (secondo la schedule di Machover) verso solo F-UP. I risultati non hanno evidenziato una differenza statisticamente significativa in OS a 5 anni (52% nel braccio di trattamento vs 48% nel gruppo di controllo), né in sopravvivenza libera da malattia (DFS) (49% e 44%). Nel sottogruppo dei pazienti con interessamento linfonodale (N+ > 6 linfonodi) è stata riscontrata una significativa differenza in OS (42% vs 20%).
Lo studio era stato pianificato per valutare una differenza del 15% nella OS a 5 anni (30% CH vs 45% CT), ma in entrambi i gruppi i dati di OS sono risultati superiori a quelli attesi (12).
Il GOIRC (Gruppo Oncologico Italiano di Ricerca Clinica) ha randomizzato 258 pazienti con diagnosi di adenocarcinoma gastrico ?stadio IB, II, IIIA e B, o IV (T4N2M0)? a ricevere 4 cicli di CT con lo schema PELF (5FU, Epirubicina, CDDP, LV) verso solo F-UP. Dopo un F-UP mediano di 72.8 mesi, il 49.6% dei pazienti era ricaduto ed il 53.9% deceduto. Il trattamento CT non ha evidenziato un incremento statisticamente significativo in DFS (HR: 0.92; 95% IC: 0.66-1.27), né in OS (HR: 0.90; 95% IC: 0.64-1.26) (Figura 1). Nell’analisi retrospettiva sono risultati fattori prognostici indipendenti, l’età come variabile in continuo, la diffusione metastatica ai linfonodi (N2/N3) ed il numero di linfonodi asportati (> 15).

Figura 1 Curva di sopravvivenza nei pazienti trattati con CT adiuvante con PELF nello studio GOIRC randomizzato verso follow-up. JNCI 2008

In questo studio, l’effetto osservato con la CT è stato modesto (riduzione del 10% nel hazard di morte o recidiva) e coerente con i risultati delle meta-analisi fino ad allora pubblicate (13).
Il GISCAD (Gruppo Italiano per lo Studio dei Carcinoma dell’Apparato Digerente) ha valutato in uno studio clinico randomizzato di fase III, 397 pazienti sottoposti a CT adiuvante con lo schema PELF settimanale verso la CT con 5FU/LV, secondo il regime Machover. I risultati osservati hanno riportato un rischio di morte con il PELF non statisticamente differente dal braccio di controllo (HR: 0.89; 95% IC: 0.65-1.23). Nell’analisi per sottogruppi è stato riscontrata una OS peggiore per i pazienti con > 6 linfonodi positivi (HR: 4.09, 95% IC: 2.86-5.84), mentre il numero di linfonodi asportati non aveva valore prognostico nella casistica in studio.
L’alto tasso di OS osservato in entrambi i trattamenti, probabilmente correlato all’alto livello qualitativo della CH eseguita, ha limitato il potere statistico dello studio nel valutare differenze di outcome nei due gruppi (14). Un altro dato, possibilmente in grado di spiegare la mancata efficacia del trattamento, è rappresentato dalla non ottimale fattibilità dello schema utilizzato.
Il gruppo francese FFCD (Federation Francophone de la Cancerologie Digestive) ha randomizzato 205 pazienti tra CH ed CT adiuvante con CDDP e 5FU, non evidenziando alcuna differenza statisticamente significativa in termini di OS e DFS. I risultati a 7 anni hanno mostrato una riduzione del rischio relativo del 26% per la OS con una differenza assoluta del 9.5% (15).
Il GOIM (Gruppo Oncologico Italia Meridionale) ha valutato 228 pazienti in uno studio clinico randomizzato utilizzando lo schema ELFE (Epirubicina, LV, 5FU ed Etoposide) non contenente CDDP, somministrata per 6 cicli, osservando un HR di 0.91 (95% IC: 0.69-1.2). Nel sottogruppo di pazienti con linfonodi positivi è stato riportato un HR di morte di 0.84; 95% IC: 0.69-1.01 (16).
Nell’analisi combinata dei due studi condotti dall’EORTC (European Organization for Research and Treatment of Cancer-Gastrointestinal) e dall’ICCG (International Collaborative Cancer Group) in 397 pazienti, che hanno confrontato la CH con la CT adiuvante secondo lo schema FAMTX (5FU, Doxorubicina, Metotrexate) o FEMTX (5FU, Epirubicina, Metotrexate), non è stato evidenziato alcun vantaggio sia in termini di OS a 5 anni (44% vs 43%), sia DFS (42% vs 41%, rispettivamente) (17).
Tutti questi studi erano stati pianificati nella dimensione campionaria per osservare un incremento assoluto del 15-20% in OS a 5 anni con la CT, considerando con la sola CH una OS stimata a 5 anni del 30%. Il campione dello studio risultava pertanto non adeguato per osservare una riduzione del rischio assoluto del 4%.
Jeung et al. hanno recentemente valutato la qualità degli studi clinici randomizzati sulla CT adiuvante del carcinoma gastrico presenti nella letteratura considerando tre parametri relativi al controllo degli errori, qualità dell’elaborazione dei dati e qualità del disegno dello studio. Dei 26 studi randomizzati, condotti dal 1969 al 2007, che avevano come braccio di controllo la sola CH, solo 13 avevano un indice di buona qualità (13 score 1-2+: 3 articoli 2+, 10 articoli 1+), mentre gli altri 13 sono stati classificati di bassa qualità (score-). Gli studi recentemente pubblicati hanno evidenziato una migliore qualità nell’elaborazione dei dati, ma non necessariamente nella qualità del disegno dello studio (18) (Tabella 2).

Tabella 2 Sistema di classificazione del grado di raccomandazione nelle linee guida basate sull’evidenza

L’analisi ha evidenziato un livello di raccomandazione per la CT adiuvante nel tumore gastrico, definita in base allo Scottish Intercollegiate Guidelines Network (SIGN) (19) di tipo “A” in relazione alla valutazione di qualità della letteratura medica prodotta, che dovrebbe sempre guidare il processo decisionale del medico e la stesura di linee guida basate sull’evidenza.
Gli studi condotti nei Paesi Asiatici rispetto a quelli Occidentali hanno evidenziato un vantaggio statisticamente significativo in termini di OS con l’impiego della CT adiuvante, che potrebbe essere ascritto alle differenze evidenziate nelle due popolazioni relativamente alla sede del tumore primitivo, all’alta incidenza di stadi precoci di malattia, all’accurata valutazione dello staging pre-operatorio ed alla estesa linfoadenectomia (> D2) eseguita od alla diversa biologia del tumore.
In Giappone, Sakuramoto et al. hanno randomizzato 1.059 pazienti con tumore gastrico (stadio II o III), sottoposti a gastrectomia e dissezione linfonodale estesa, a CT con una fluoropirimidina orale (S-1) verso solo F-UP. I pazienti ricevevano 4 settimane di trattamento ogni 6 settimane per la durata complessiva di 1 anno.
Lo studio ha mostrato un vantaggio statisticamente significativo in OS a 3 anni con la CT (80.1% per la CT vs 70.1% per la sola CH; HR: 0.68; 95% IC: 0.52-0.87; p=0.003) con una bassa incidenza di effetti collaterali. La DFS a 3 anni è stata del 72.2% per il gruppo trattato verso 59.6% per il gruppo di controllo (HR: 0.62; 95% IC: 0.50-0.77; p<0.001) (20).
Il vantaggio associato al trattamento adiuvante va contestualizzato nell’ambito geografico e culturale specifico, correlato allo standard chirurgico giapponese ed interpretato con cautela nella popolazione non-giapponese per il diverso profilo farmacocinetico del farmaco (21).
L’analisi farmacoeconomica condotta in Giappone per l’uso dell’S-1 nella terapia adiuvante del tumore gastrico ha evidenziato un rapporto costo-efficacia favorevole rispetto ad altri interventi oncologici come la CH (22).
Stante la difficoltà nell’applicare i risultati ottenuti in un differente ambito geografico, in Italia è stato condotto uno studio randomizzato multicentrico intergruppo, che ha reclutato 1.100 pazienti sottoposti a chirurgia radicale per carcinoma gastrico e giunzione gastroesofagea. L’obiettivo era quello di confrontare un trattamento definito di riferimento, comprendente Fluorouracile ed Acido Folinico (regime de Gramont), con regimi contenenti farmaci innovativi (schema FOLFIRI seguito da Cisplatino e Docetaxel) dimostratisi efficaci nella malattia in fase avanzata (24).
Il razionale su cui si è basato tale progetto è:

1. i precedenti studi condotti da gruppi Italiani (ITMO, GISCAD, GOIM e GOIRC) non hanno dimostrato un beneficio con un livello di significatività statistico, ma il punto di HR stimato era in linea con i risultati delle meta-analisi;

2. la scelta del braccio di controllo con FU/LV, basata nel 2004 sui dati delle meta-analisi degli studi pubblicati, nel 2010 viene riconfermata anche dalla recente meta-analisi;

3. la combinazione FOLFIRI presenta un profilo di tollerabilità con minore tossicità ematologica, renale e neurologica rispetto a combinazioni contenenti Cisplatino;

4. lo schema Taxotere (TXT), Cisplatino e 5FU è attivo;

5. Irinotecan o Docetaxel combinato a 5FU e/o a Cisplatino rappresentavano regimi di promettente efficacia nel trattamento della malattia avanzata;

6. lo studio ITMO ha documentato la fattibilità di una somministrazione sequenziale di due schemi con farmaci a differenti profili di tollerabilità. Rappresenta il più ampio studio di terapia adiuvante condotto. Tutti i pazienti hanno ricevuto un’adeguata chirurgia e nel 55% dei casi erano esaminati > 25 linfonodi. Il regime sequenziale ha una minore tollerabilità rispetto al FU/LV, ma presenta una soddisfacente compliance in fase adiuvante. I dati di efficacia saranno presentati al raggiungimento di 636 eventi.

Conclusioni
Ad oggi, la sola CH non è più il trattamento standard per i pazienti con tumore gastrico resecabile in stadio II e III. Il confronto dei risultati degli studi di terapia adiuvante (sia CT sia trattamenti multimodali comprendenti RT o CT perioperatoria), effettuati in popolazioni geograficamente diverse (Asiatici vs Occidentali), non è proponibile per differenze nella storia naturale della malattia (23) e nell’approccio diagnostico e terapeutico alla patologia. Lo standard di trattamento ottimale non può ancora essere definito e, verosimilmente, varia in base alla diversa etnia della popolazione trattata.

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TERAPIA PRE-OPERATORIA ED ADIUVANTE

12.3 Chemioradioterapia adiuvante

Premessa
Il razionale all’uso della radioterapia come trattamento adiuvante alla chirurgia è in generale quello di aumentare la probabilità di controllo locale della malattia e di migliorare di conseguenza il tasso di sopravvivenza.
Per valutare quanto questa aspettativa possa realizzarsi in pratica nel cancro gastrico, occorre preliminarmente verificare due condizioni: quanto frequente è nella patologia considerata l’evenienza di una recidiva loco-regionale e quanto questa incide sulla probabilità di sopravvivenza.
Nel caso del cancro gastrico, questa valutazione è particolarmente complessa a causa della disomogeneità dei dati della letteratura.
Una prima disomogeneità riguarda la definizione di recidiva loco-regionale. L’area anatomica, nella quale la ricomparsa di malattia è classificata come recidiva locale è, infatti, descritta in maniera assai varia: in alcuni studi, include la sola anastomosi ed il moncone gastrico residuo; in altri, comprende tutto il letto operatorio ed il peritoneo; in altri ancora, anche le adenopatie che compaiono nell’area della linfoadenectomia (D1 o D2) ed infine, in altri ancora, coincide con il campo di radioterapia.
Una seconda disomogeneità è rappresentata dalla diversità del campione rispetto al quale la frequenza della recidiva loco-regionale viene calcolata. Alcuni studi riportano il numero di recidive loco-regionali osservate sul totale dei pazienti che presentano una ricaduta di malattia, mentre altri fanno riferimento al totale dei pazienti operati. Molti studi chirurgici, inoltre, riportano il numero complessivo di recidive locali nella casistica totale operata senza alcun riferimento alla composizione per stadio.
Una terza disomogeneità è rappresentata dalla diversa modalità con la quale la recidiva locale è evidenziata; in alcuni studi la casistica considerata è autoptica e riguarda quindi pazienti che sono deceduti per o con cancro gastrico dopo chirurgia; in altri, è riferita a pazienti sottoposti ad un second look sistematico a distanza di tempo dall’exeresi chirurgica del tumore primitivo, in altri ancora, si basa su indagini cliniche e/o bioptiche, in soggetti in follow-up, per la comparsa di segni clinici sospetti di ripresa di malattia.
E’ evidente come le cifre possano essere assai diverse in tutti questi casi.
I risultati più numerosi ed omogenei reperibili in letteratura riguardano comunque la frequenza relativa della recidiva loco-regionale sul totale dei pazienti, che manifestano una ripresa di malattia dopo l’intervento (1-3). Su 100 casi, che recidivano dopo exeresi radicale di cancro gastrico, 50-70 hanno una componente loco-regionale; questa, tuttavia, è l’unica manifestazione di malattia in non più di 20-25 casi; nei restanti, alla componente loco-regionale si associa una manifestazione a distanza, che più frequentemente è peritoneale. La diffusione peritoneale ed ematogena rappresenta pertanto la modalità di ricaduta più frequente nel cancro gastrico operato, verificandosi in oltre il 75% dei casi che recidivano. Da sottolineare il fatto che l’80% delle ricadute (loco-regionali od a distanza) si presenta entro i primi 2 anni dalla resezione e che il 90% dei pazienti che recidiva va incontro a morte entro 2 anni (2). Nei pochi studi chirurgici che riportano l’incidenza di recidive locali disaggregate per stadio si evidenzia che questa è correlata sia allo stadio sia al numero dei linfonodi invasi, in particolare al rapporto tra numero di linfonodi positivi e numero di linfonodi asportati (4-6). Nei pazienti con tumore intraparietale e senza adenopatie metastatiche, il rischio di ricaduta locale come unica manifestazione di malattia varia fra il 6% e l’8%, mentre sale al 20% ed oltre nei casi con invasione della parete a tutto spessore. La sopravvivenza a 5 anni è del 40-45% nei pazienti N0, scende al 20% quando i linfonodi invasi sono <= 3 ed è inferiore al 10% quando sono > 3.
Un altro parametro, il cui peso sulla probabilità di ricaduta e sulla sopravvivenza è oggetto di discussione, è l’estensione della linfoadenectomia. Nashimoto et al. (7) considerano come standard la linfoadenectomia D2 e riportano con questa modalità una sopravvivenza libera da recidive a 5 anni superiori all’80%, con una morbilità perioperatoria non superiore al 25%. In Europa, 2 studi randomizzati (8,9) su oltre 1.000 pazienti che hanno confrontato la linfoadenectomia D2 verso la D1 non hanno rilevato differenze di sopravvivenza libera da malattia, mentre la morbilità perioperatoria è risultata nettamente maggiore dopo linfoadenectomia D2. Questa apparente contraddizione è in buona parte spiegata dalla diversa composizione delle casistiche giapponesi, dove oltre il 90% dei pazienti, probabilmente per effetto dello screening attuato nel loro paese, è in stadio I-II, mentre in quelle europee oltre 1/3 dei pazienti è in stadio III o IV.
L’irradiazione della regione retro-peritoneale, sede dei drenaggi linfonodali dei tumori dello stomaco, rappresenta una notevole complessità quando non si dispone di tecniche adeguate per la conformazione della dose radiante. Per questa ragione i risultati riportati dai pochi studi randomizzati condotti con tecniche e volumi di radioterapia obsoleti prima degli anni ’90, pur nella variabilità delle cifre, hanno evidenziato complessivamente che la probabilità di migliorare la prognosi del carcinoma gastrico con l’aggiunta alla chirurgia della sola radioterapia è stata modesta senza un evidente miglioramento della sopravvivenza.
L’assenza di un vantaggio significativo sulla sopravvivenza e sul controllo locale con la sola radioterapia è stata evidenziata nello studio del British Gastric Cancer Group, pubblicato inizialmente nel 1989 ed aggiornato nel 1994 (10), nel quale 436 pazienti sono stati randomizzati tra sola chirurgia, chirurgia seguita da radioterapia (45-50 Gy) o chirurgia seguita da chemioterapia (schema FAM). Anche se l’incidenza di recidive locali è stata inferiore nel gruppo trattato con radioterapia rispetto agli altri 2 (8% vs 19% e 27%), la sopravvivenza a 5 anni è risultata equivalente (20%, 19%, 12%). Questo studio ha anche riportato l’osservazione, che sarà poi comune a tutti gli studi successivi, della bassa compliance a qualsiasi terapia adiuvante di questi pazienti, spesso già debilitati prima dell’intervento per problemi nutrizionali ed incapaci di recuperare in tempi adeguati.
In associazione alla chemioterapia, la radioterapia è stata impiegata sia come trattamento post-operatorio sia come pre-operatorio. Esistono inoltre alcuni studi con impiego della radioterapia intra-operatoria (IORT).
E’ da sottolineare che la posizione anatomica dello stomaco e delle aree linfonodali di drenaggio rende particolarmente complesso il disegno dei volumi da irradiare ed impedisce la somministrazione di dosi superiori a 45 Gy-50 Gy; gli organi da considerare a rischio sono in particolare i reni, il fegato ed il midollo spinale.

Chemioradioterapia (CTRT) post-operatoria
Due soli studi randomizzati pubblicati prima del 2000 (11,12) hanno confrontato la sola chirurgia verso la CTRT post-operatoria, entrambi su casistica molto limitata (inferiore a 100 pazienti divisi in due bracci), senza portare a nessuna conclusione. La base scientifica per l’uso della chemioradioterapia (CTRT) nel cancro gastrico è stata fornita dallo studio statunitense INT 0116 dello SWOG 9.008, pubblicato nel 2001 ed aggiornato nel 2004 (13). In questo studio, 556 pazienti sottoposti a resezione R0, che presentavano all’esame del pezzo operatorio invasione dei linfonodi e/o estensione extraparietale della malattia, sono stati randomizzati a solo follow-up (275) oppure a trattamento adiuvante post-operatorio (281); questo comprendeva 1 ciclo di chemioterapia con 5FU-LV con schema Mayo Clinic, seguito, a partire dal giorno 28, da radioterapia ad una dose di 45 Gy in 25 sedute, concomitante a 2 cicli di 5FU 400 mg/m2 e LV 20 mg/m2 (primi 4 e ultimi 3 giorni di irradiazione) e quindi da ulteriori 2 cicli di 5FU-LV. Lo studio ha dimostrato un significativo vantaggio nel gruppo sottoposto a radiochemioterapia post-operatoria sia della OS (50% vs 41%, p=0.005), sia della DFS (48% vs 31%, p=0.001) a 3 anni; il vantaggio risultava riferibile ad una riduzione delle recidive locali (7% vs 19%) e regionali (27% vs 46%); l’incidenza di metastasi a distanza era equivalente (13% vs 12%). Il trattamento adiuvante CTRT era accompagnato da una tossicità acuta >= G3 non trascurabile, sia ematologica (54%) sia intestinale (33%), con una compliance pari al 64%.
I risultati dello studio INT, pur essendo sottoposti a numerose critiche riguardanti l’elevata percentuale di trattamenti non completati, la bassa percentuale (10%) di linfoadenectomie di tipo D2 e l’alta percentuale (54%) di linfoadenectomie D0, hanno fortemente influenzato la politica di trattamento nel cancro gastrico negli USA, affermando la CTRT post-operatoria come trattamento di riferimento in presenza di pN+ o pT3.
Un’importante conferma che il beneficio della CTRT post-operatoria è indipendente dal tipo di linfoadenectomia è venuta da uno studio monoistituzionale sudcoreano (14) su 544 pazienti, tutti sottoposti a linfoadenectomia D2 ed allo stesso regime dello studio INT 0116, confrontati con un gruppo parallelo non randomizzato di 446 pazienti sottoposti nello stesso periodo a sola chirurgia; nel primo gruppo è risultata significativamente inferiore l’incidenza di recidive loco-regionali (14.9% vs 21.7%); non significativa la differenza di sopravvivenza globale a 5 anni (57.1% vs 51%) e quella libera da progressione (54.5% vs 47.9%).
L’effetto favorevole della radioterapia post-operatoria è stato riportato anche in un’analisi dei dati contenuti nel database statunitense del SEER (15), relativa alla popolazione di pazienti operati per carcinoma gastrico nel periodo 1988-2003 privi di metastasi a distanza, per i quali erano disponibili informazioni complete riguardanti lo stadio, il grading, il numero dei linfonodi asportati e l’esecuzione o meno della radioterapia; nei pazienti che avevano ricevuto una radioterapia post-operatoria, il rischio di ricaduta era significativamente inferiore (hazard risk 0.72) (Tabella 1).

Tabella 1 Studi di chemioradioterapia post-operatoria

Dopo lo studio INT, numerosi altri studi di fase I e II sono stati sviluppati, finalizzati a sostituire il 5FU a bolo con l’infusione continua meglio tollerata (16,17) o con la Capecitabina (18) ed a potenziare l’effetto sistemico della chemioterapia con l’aggiunta del Cisplatino (19) o del Paclitaxel (20) a 5FU ed a valutare il ruolo dell’estensione della linfoadenectomia (21). In tutti gli studi, la chemioradioterapia concomitante era preceduta da uno o più cicli di sola chemioterapia. I risultati ottenuti possono essere sintetizzati nei seguenti punti:

– pur in assenza di un braccio comparativo di sola chirurgia, perché ritenuto non etico dopo i risultati dello studio INT, in tutti gli studi l’incidenza di recidive locali e la sopravvivenza sono risultate complessivamente migliori rispetto alle casistiche storiche con sola chirurgia;

– nello studio mirato a valutare il ruolo dell’estensione della linfoadenectomia, il vantaggio della CTRT post-operatoria sull’incidenza di recidive locali, rispetto allo studio storico di sola chirurgia preso a confronto, ha riguardato solo il gruppo con linfoadenectomia D1 (2% vs 18%), mentre non è stato apprezzabile in quello con linfoadenectomia D2 (12% vs 13%); il limitato numero di casi considerato in questo studio può spiegare la discordanza di questo dato con le conclusioni dello studio sudcoreano (14) che, se pur ugualmente retrospettivo, si basa su una più larga casistica trattata nella stessa istituzione;

– si è confermata la difficoltà di completare il trattamento adiuvante in una percentuale di pazienti superiore al 30%;

– la tolleranza della fluoropirimidina orale è risultata, in linea di massima, migliore rispetto al 5FU in infusione continua;

– l’impiego di 2 farmaci è associato ad una maggiore tossicità, sottolineando l’importanza di un attenta selezione e di un accurato monitoraggio dei pazienti;

– si è evidenziata la possibilità di ridurre l’estensione del territorio linfonodale da irradiare in rapporto alla sede del tumore primitivo, migliorando la tolleranza al trattamento; indispensabile è, a questo scopo, una buona trasmissione di informazioni dal chirurgo al radioterapista.

In conclusione, esistono risultati sufficientemente dimostrativi dell’efficacia della CTRT post-operatoria sull’incidenza di recidive locali e sulla sopravvivenza, in presenza di linfonodi invasi od invasione extraparietale della malattia; il vantaggio sembra maggiore nei pazienti con linfoadenectomia D1, ma non ci sono a questo proposito risultati sufficientemente indicativi anche perché esistono pareri discordi sul significato prognostico della linfoadenectomia D2.
A questi vantaggi, si contrappone la considerevole tossicità della radiochemioterapia in questi pazienti, la difficoltà talora di iniziare il trattamento dopo un intervallo dalla chirurgia non troppo lungo e la bassa percentuale di pazienti che riescono a completare il trattamento come previsto.
Questo ha reso molti oncologi europei riluttanti ad accettare la Linea Guida Statunitense, favorendo un approccio di sola chemioterapia, sulla base di alcune meta-analisi che hanno dimostrato un lieve, ma significativo, vantaggio sulla sopravvivenza.
Al momento, in sostanza, i 2 regimi di trattamento adiuvante (chemioterapia e CTRT) sembrano fornire risultati non molto dissimili e si pongono come alternativi. Studi (CRITICS, CALGB 80101, ITACA-S) sono attualmente in corso con lo scopo di valutare se sia possibile migliorare ulteriormente i risultati con la combinazione di una chemioterapia neoadiuvante ed adiuvante alla CTRT post-operatoria (23).

CTRT pre-operatoria
Il razionale del trattamento pre-operatorio è rappresentato dall’elevata percentuale di casi che all’intervento primario risultano non radicali (30-40% degli interventi) e dal rischio elevato di recidiva locale che accompagna la resezione non radicale. Rispetto all’approccio post-operatorio, ha il vantaggio di poter identificare la massa tumorale consentendo una più precisa contornazione del volume da irradiare, di non avere interferenze con la morbilità post-operatoria e di poter identificare i casi non responsivi, che progrediscono durante la fase pre-operatoria. Sono disponibili due studi randomizzati con CTRT pre-operatoria, uno cinese (24) ed uno irlandese (25), entrambi non recenti e riguardanti soltanto lesioni della giunzione gastroesofagea. Nel primo, 370 pazienti con neoplasie a sede cardiale sono stati randomizzati a sola chirurgia od a radioterapia pre-operatoria, con una dose di 40 Gy in 20 sedute seguita da chirurgia; il gruppo trattato con terapia combinata ha presentato meno recidive loco-regionali (39% vs 52%) ed una più elevata sopravvivenza a 5 e 10 anni (30% e 20% vs 20% e 14%), con un modesto aumento della morbilità peri-operatoria. Nel secondo, 113 pazienti con adenocarcinomi dell’esofago, di cui 40 a sede cardiale, sono stati randomizzati tra sola chirurgia e chirurgia preceduta da 2 cicli di 5FU e Cisplatino, uno dei quali concomitante a radioterapia alla dose di 40 Gy in 20 sedute; anche in questo secondo studio, la sopravvivenza a 3 anni era significativamente superiore nel gruppo trattato con CTRT pre-operatoria (37% vs 7%).
Per quanto riguarda il cancro gastrico a sede non esclusivamente cardiale, sono disponibili tre studi randomizzati (26-28), che hanno impiegato uno schema ipofrazionato (20 Gy in 4-5 frazioni); in uno di essi, è stata aggiunta una radioterapia intra-operatoria ed in un altro l’ipertermia. La sopravvivenza è risultata superiore nei gruppi trattati nei primi due studi ed immodificata nel terzo. In una recente meta-analisi (29), che ha incluso i dati di 4 studi randomizzati (15,26-28), i risultati di sopravvivenza a 5 anni sono risultati a favore del trattamento pre-operatorio con un rischio relativo pari a 1.39. Si sottolinea in questa analisi l’importanza di considerare la sopravvivenza a 5 anni e non quella a 3 anni. I pazienti che vanno incontro a morte entro i primi 2-3 anni rappresentano, infatti, una coorte a prognosi particolarmente sfavorevole con precoce diffusione metastatica, sui quali la probabilità di un effetto da parte del trattamento CTRT è molto basso (Tabella 2).

Tabella 2 Studi di chemioradioterapia pre-operatoria

Negli ultimi 5 anni, un certo numero di studi di fase II (30-33) ha associato la radioterapia pre-operatoria con dosi di 40 Gy-45 Gy ad una combinazione di 5FU con Cisplatino o Paclitaxel o dopo 1-2 cicli di induzione, in pazienti con neoplasie avanzate clinicamente classificate come T3 e/o N+. Il risultato di maggior interesse è rappresentato dall’elevato numero di remissioni patologiche complete rilevate all’intervento, pari al 20%, 26% e 30% dei pazienti in 3 degli studi citati, che avevano impiegato radioterapia con frazionamento convenzionale, ed al 5% nello studio con radioterapia iperfrazionata. Risultati comparabili sono stati riportati anche con l’associazione del Cisplatino al derivato del 5FU, registrato con il nome di S-1, dimostratosi particolarmente efficace nel trattamento delle forme metastatiche (34). Pur trattandosi di casistiche numericamente limitate e verosimilmente selezionate, il risultato documenta la potenziale buona responsività di questa neoplasia al trattamento combinato chemioradioterapico (Tabella 3).

Tabella 3 Studi di chemioradioterapia pre-operatoria sequenziale a chemioterapia

Radioterapia intra-operatoria (IORT)
Il potenziale interesse della IORT è rappresentato dalla possibilità che questa tecnica offre di proteggere dall’irradiazione gli organi addominali più radiosensibili ed in particolare il rene sinistro, evitando il rischio di sequele tardive nei pazienti che sopravvivono. Il volume di trattamento che può essere realizzato con la IORT è tuttavia molto limitato e può non essere sufficiente a coprire tutta l’area anatomica a potenziale rischio di malattia microscopica residua. I tre principali studi randomizzati disponibili hanno confrontato chirurgia verso chirurgia + IORT (35), chirurgia verso chirurgia + IORT seguita da radioterapia a fasci esterni (36) e chirurgia + IORT seguita da radiochemioterapia verso chirurgia seguita da radiochemioterapia (37). Nel primo studio, un vantaggio significativo è stato evidenziato con IORT rispetto a sola chirurgia sulla sopravvivenza a 5 anni nei pazienti in stadio IV (15% vs zero); negli altri 2 studi, i pazienti nel cui trattamento era compresa la IORT hanno avuto meno recidive loco-regionali (44% vs 92% e 23% vs 37% rispettivamente), ma nessun vantaggio sulla sopravvivenza.

Conclusioni
Complessivamente, i risultati degli studi precedentemente riportati portano alle seguenti conclusioni:

1. la riduzione dell’incidenza di recidive loco-regionali e l’osservazione di risposte patologiche complete con CTRT post e pre-operatoria nel cancro gastrico dimostrano che tale trattamento è attivo in questa patologia in misura equivalente a quanto riportato per il cancro del retto;

2. la modalità post-operatoria è supportata da un largo studio randomizzato, che ha documentato un significativo vantaggio sull’incidenza di recidive loco-regionali e sulla sopravvivenza ed è considerata negli Stati Uniti il trattamento adiuvante standard nei casi pT3 e/o pN+;

3. ci sono indicazioni che tale vantaggio riguardi prevalentemente i pazienti sottoposti a linfoadenectomia più limitata (tipo D1), mentre è oggetto di verifica dopo linfoadenectomia estesa;

4. l’adiacenza allo stomaco di organi critici, la cui inclusione nel volume irradiato può produrre effetti tardivi dannosi importanti, rende particolarmente complessa la procedura di contornazione e di trattamento, specie dell’area linfonodale. La disponibilità in molti Centri di tecniche radioterapiche conformazionali e la migliore definizione delle terapie di supporto hanno contribuito a ridurre la morbilità acuta legata al trattamento radiante. E’ sempre opportuno che la CTRT nel cancro dello stomaco sia eseguita in Centri con volumi di attività significativi;

5. con la modalità pre-operatoria mancano studi randomizzati equivalenti su larga casistica; l’indicazione consolidata riguarda i tumori della regione cardiale, nei quali ha dimostrato un significativo vantaggio su sopravvivenza e recidive locali. Migliori sono, con questa modalità, la tolleranza acuta e la compliance;

6. il ruolo della IORT non è documentato con un sufficiente grado di evidenza e deve rimanere oggetto di studio;

7. in Europa la più consolidata consuetudine a praticare la chemioterapia adiuvante ha condotto a favorire questa modalità rispetto alla CTRT post-operatoria;

8. è probabile che la via ottimale sia rappresentata dall’impiego sequenziale di entrambe le modalità terapeutiche, con l’obiettivo di agire sia sulla componente loco-regionale sia su quella sistemica;

9. gli studi attualmente in corso sono rivolti a determinare se una chemioterapia adiuvante pre e/o post-operatoria possono migliorare i risultati della CTRT post-operatoria.

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TERAPIA PALLIATIVA

13.1 Terapia nella malattia avanzata
13.2 Palliazione radioterapica
13.3 Palliazione endoscopica
13.4 Palliative and supportive care

13.1 Terapia nella malattia avanzata

Nonostante i progressi conseguiti negli ultimi anni nel trattamento delle neoplasie gastriche, la prognosi dei pazienti con malattia avanzata risulta ancora severa: la durata della sopravvivenza mediana, anche con gli schemi chemioterapici più recenti, si attesta intorno a 9-11 mesi. La chemioterapia sistemica, con qualsiasi trattamento della malattia in stadio IV, ha esclusivamente finalità palliativa.
Quattro studi randomizzati (1-4) hanno valutato l’utilità dell’impiego della chemioterapia in questa fase della malattia. Nonostante i problemi metodologici legati alla conduzione di alcuni di questi studi, quali numerosità limitata e cross-over, è stato dimostrato come la chemioterapia sia in grado di migliorare la sopravvivenza dei pazienti rispetto alla sola terapia di supporto. Inoltre, lo studio di Glimelius et al. (4) si è proposto di valutare anche l’impatto della chemioterapia sulla qualità di vita: nel 45% dei pazienti trattati con chemioterapia, ha riportato un miglioramento dei sintomi, oltre ad un prolungamento del tempo libero da sintomatologia, rispetto al 20% dei pazienti trattati con la sola terapia di supporto.
Stabilita la necessità di trattare i pazienti con carcinoma gastrico metastatico, rimane ancora controverso il regime chemioterapico ottimale da adottare: monochemioterapia verso polichemioterapia e quale regime di combinazione.
Il 5-Fluorouracile (5FU) è da sempre considerato il farmaco d’elezione per il trattamento del carcinoma gastrico. Le percentuali di risposta si attestano intorno al 20%. Nella meta-analisi di Wagner et al. (5) sono stati esaminati 11 studi, che hanno confrontato vari regimi di combinazione con la monochemioterapia. Quest’analisi ha evidenziato un vantaggio, di circa 1 mese, in termini di sopravvivenza statisticamente significativo, a favore dei regimi di combinazione rispetto alla monoterapia.
Uno dei primi schemi di combinazione utilizzati nel trattamento dei pazienti affetti da carcinoma dello stomaco in fase avanzata è stato il regime FAM (5FU, Adriamicina e Mitomicina-C), che ha consentito di ottenere risposte obiettive attorno al 40%, con un profilo di tossicità piuttosto favorevole, pur non riuscendo a migliorare la sopravvivenza rispetto al solo 5FU (6).
Nei primi anni ’90, sono stati introdotti regimi considerati di seconda generazione quali FAMTX (5FU, Adriamicina, Methotrexate) ed EAP (Etoposide, Adriamicina, Cisplatino). FAMTX si dimostrò più efficace di FAM, sia in termini di risposte obiettive sia di sopravvivenza, con un profilo di tossicità sovrapponibile, e di EAP, che, a causa della maggiore tossicità e mortalità rispetto a FAMTX, è stato definitivamente abbandonato dalla pratica clinica (7,8).
A metà degli anni ’90, studi di fase II dimostrarono che lo schema ECF (Epirubicina, Cisplatino, 5FU in infusione continua) era in grado di ottenere risposte obiettive dell’ordine del 70% (9).
In considerazione di tali risultati e, più in generale, dei buoni risultati ottenuti dalle varie combinazioni contenenti Cisplatino, diversi Autori conclusero che i regimi di combinazione 5FU/Cisplatino dovessero essere considerati come il nuovo standard terapeutico per i pazienti affetti da carcinoma gastrico avanzato.
I successivi studi randomizzati rafforzarono tale convinzione; in particolare, alla fine degli anni ’90, il regime ECF si mostrò superiore al FAMTX sia in termini di risposte obiettive sia di sopravvivenza, diventando il nuovo standard terapeutico (10).
Nel corso degli ultimi anni, sono stati resi noti i risultati degli studi che hanno previsto l’impiego di nuovi farmaci, come il Docetaxel, l’Oxaliplatino, l’Irinotecan e la Capecitabina. Mentre la Capecitabina e l’Oxaliplatino sono stati utilizzati con l’intento di sostituire rispettivamente l’infusione continua di 5FU ed il Cisplatino, garantendo minore tossicità e maggiore fattibilità della terapia, il Docetaxel si è dimostrato uno dei farmaci potenzialmente più interessanti. Infatti, in monoterapia è risultato ugualmente attivo sia in prima linea sia in seconda linea (11,12). Interessanti sembrano anche i risultati degli studi di combinazione. Lo studio di fase III TAX-325 ha valutato quanto l’aggiunta del Docetaxel alla combinazione Cisplatino+5FU (regime DCF) fosse in grado di migliorare l’efficacia del regime CF (Cisplatino, 5FU), considerato standard (13). I risultati hanno mostrato un incremento significativo a favore del regime DCF in termini di tempo libero da progressione, sopravvivenza e risposte obiettive, anche se la tossicità di questo regime è stata rilevante soprattutto in termini di neutropenia di grado 3-4. Una successiva analisi sulla qualità di vita e beneficio clinico ha mostrato, comunque, come il regime DCF, anche se più tossico, sia in grado di dare un miglioramento di questi due parametri rispetto al CF (14). In base a tali risultati, il regime DCF sembra trovare indicazione nei pazienti con malattia localmente avanzata oppure in pazienti giovani o pazienti con un buon performance status.
Recentemente, si è posta sempre più l’attenzione sull’impiego di fluoropirimidine orali. I principali studi di fase II sull’utilizzo della Capecitabina da sola od in combinazione con altri farmaci, nel trattamento di pazienti con carcinoma gastrico avanzato, hanno mostrato risposte attorno al 60%, con un profilo di tossicità molto buono quando in combinazione con l’Oxaliplatino (15).
Lo studio REAL-2 si è proposto di valutare la sostituzione, nel regime ECF, dell’infusione del 5FU con la somministrazione orale di Capecitabina e di Cisplatino con l’Oxaliplatino. Obiettivo primario era rappresentato dalla non inferiorità dei trattamenti con Capecitabina verso 5FU e con Oxaliplatino verso Cisplatino. La sopravvivenza globale ed il tempo a progressione sono risultati sostanzialmente simili tra i diversi bracci di trattamento, anche se è comunque importante segnalare una maggiore sopravvivenza globale per i pazienti trattati con lo schema EOX (Epirubicina, Oxaliplatino e Capecitabina) rispetto al trattamento standard ECF. Inoltre, i trattamenti con Oxaliplatino hanno riportato minore tossicità ematologica, in particolare neutropenia, renale, alopecia ed una maggiore incidenza di diarrea e neuropatia periferica. Pertanto, gli Autori hanno concluso sostenendo il miglior profilo di tollerabilità delle triplette contenenti Oxaliplatino rispetto ai regimi a base di Cisplatino, la non inferiorità della Capecitabina rispetto al 5FU e dell’Oxaliplatino rispetto al Cisplatino, oltre alla maggiore attività del regime EOX rispetto allo standard ECF (16).
Un’altra fluoropirimidina orale che può giocare un ruolo importante nella terapia del carcinoma gastrico è l’S-1. Questo farmaco contiene Tegafur e due tipi di enzimi, 5-cloro-2.4 Diidrossipirimidina ed Oxonato di potassio. La somministrazione orale permette di mantenere elevati livelli di 5FU per lungo tempo. Un’analisi eseguita su 3.758 pazienti ha mostrato una grande maneggevolezza del farmaco con tossicità molto contenute, neutropenia e diarrea di grado 3-4 nel 6.3% e 3.8% rispettivamente, e con una sopravvivenza a 3 anni rispetto alla sola chirurgia dell’81% verso il 70% (17).
S-1 può essere combinato al Cisplatino, farmaco che rimane basilare nella chemioterapia del carcinoma gastrico. Uno studio di fase III ha confrontato S-1 in monoterapia od in combinazione con il Cisplatino, osservando un vantaggio per la combinazione in termini di risposte obiettive, tempo a progressione e sopravvivenza (18).
Un altro farmaco attivo nel trattamento dei pazienti affetti da carcinoma gastrico avanzato è l’Irinotecan, specialmente quando utilizzato con schemi che permettano di ridurre la tossicità indotta dal farmaco (19-21) (Tabella 1).

Tabella 1 Studio di fase II sull’utilizzo di combinazioni contenenti Capecitabina, Oxaliplatino e Irinotecan in pazienti affetti da carcinoma gastrico in fase avanzata

I pazienti con carcinoma gastrico avanzato, che vanno in progressione dopo una prima linea di chemioterapia, hanno poche possibilità di ricevere un secondo trattamento. Si calcola che solo il 30-40% di essi lo riceve e, comunque, la grande maggioranza sospende il trattamento dopo il primo od il secondo ciclo. Fattori prognostici negativi, che sconsiglierebbero una seconda linea di trattamento, sono la progressione alla prima linea, un tempo a progressione breve, un performance status scadente e la presenza di carcinosi peritoneale. Al contrario, nei pazienti che possono ricevere una terapia, la scelta deve considerare i farmaci impiegati in prima linea e la possibilità di poter utilizzare altri farmaci attivi come Irinotecan, Docetaxel e/o Mitomicina-C (25,26) (Tabella 2).

Tabella 2 Studio di fase II sull’utilizzo di Capecitabina nel trattamento di pazienti con carcinoma gastrico avanzato

In conclusione, nonostante diversi studi abbiano chiarito la superiorità della chemioterapia rispetto alla best supportive care nel migliorare la sopravvivenza e la qualità di vita nei pazienti con carcinoma gastrico avanzato, non esiste ancora uno standard chemioterapico. Tuttavia, regimi di combinazione hanno un vantaggio di sopravvivenza rispetto alla monochemioterapia ed inoltre, i regimi che contengono 5FU, antracicline e Cisplatino sono superiori rispetto ai regimi contenenti due soli di questi farmaci. Gli studi più recenti sostengono come il 5FU, in infusione, possa essere sostituito dalla Capecitabina ed il Cisplatino dall’Oxaliplatino, con medesimi risultati e maggiore maneggevolezza.
Capitolo a parte è quello dedicato ai farmaci a bersaglio molecolare (vedi sottocap. 15.2). Allo stato attuale, diversi sono i farmaci biologici in fase di sperimentazione nelle neoplasie gastriche; i dati sono ancora preliminari in termini di efficacia, ma l’attività in alcuni casi sembra essere estremamente promettente. Tra i nuovi farmaci in studio nelle neoplasie gastriche annoveriamo principalmente i farmaci anti-EGFR ed anti-VEGF (Tabella 3).

Tabella 3 Studio di fase II sull’utilizzo di farmaci biologici in pazienti affetti da carcinoma gastrico in fase avanzata

L’EGFR è over-espresso in molti tumori solidi, tra cui quello dello stomaco. L’inibizione della funzione di questo recettore determina un potenziale terapeutico in grado di bloccare la crescita e la progressione delle neoplasie che lo esprimono. Tra gli anticorpi monoclonali che colpiscono il dominio extracellulare dell’EGFR, il Cetuximab è stato studiato in combinazione con la chemioterapia in un recente studio di fase II (28). In particolare, in tale studio è stata valutata l’associazione tra l’anticorpo monoclonale ed il regime FOLFIRI nel carcinoma gastrico non resecabile o metastatico. Il tempo a progressione mediano è risultato pari a 8 mesi, mentre la sopravvivenza mediana è stata di 16 mesi, con tossicità midollare e gastrointestinale di grado 3-4 (31).
Sempre tra i farmaci diretti contro EGFR, due piccole molecole ad attività anti-tirosin-chinasica, Gefinitib ed Erlotinib, hanno mostrato una completa inattività terapeutica nei pazienti con carcinoma gastrico (29,30), per l’assenza di mutazioni somatiche a carico del dominio chinasico dell’EGFR.
Recentemente, sono stati presentati i risultati dello studio ToGA (32), che prevedeva il trattamento chemioterapico Cisplatino+5FU o Capecitabina verso lo stesso trattamento+Trastuzumab nei pazienti che presentavano amplificazione od iperespressione di HER-2 e che rappresentano circa il 20% di tutti i casi di carcinoma gastrico. L’aggiunta del Trastuzumab ha migliorato in maniera significativa la sopravvivenza dei pazienti (13.8 vs 11.1 mesi; p=0.0048; HR: 0.74; 95% IC: 0.60-0.91) e le risposte obiettive (47.3% vs 34.5%; p=0.0017).
Per quanto riguarda i farmaci anti-VEGF, in uno studio di fase II è stata analizzata l’associazione del Bevacizumab con Cisplatino ed Irinotecan ed è stata dimostrata una buona efficacia in termini di sopravvivenza globale (12.3 mesi) (30). E’ stata valutata anche l’associazione del Bevacizumab con il Docetaxel, mostrando un tasso di risposta del 27% (34).

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13.2 Palliazione radioterapica

Nel cancro gastrico localmente avanzato inoperabile sintomatico, la radioterapia è stata impiegata a scopo palliativo per il controllo della sintomatologia ed il miglioramento della qualità della vita. Ostruzione, sanguinamento e dolore sono i principali sintomi sui quali la radioterapia può essere attiva. Essendo l’effetto locale lo scopo prevalente del trattamento, la radioterapia è stata in genere impiegata come unica modalità con frazionamenti brevi (30 Gy-36 Gy in 10-12 frazioni).
In due studi recenti (1,2), il controllo della sintomatologia è stato ottenuto rispettivamente nel 77% e nel 43% dei casi con percentuali variabili per le diverse categorie di sintomi: 70% e 54% sul sanguinamento, 86% e 25% sul dolore, 89% e 25% sull’ostruzione e con durata media dell’effetto di circa 3 mesi, nella gran parte dei casi per tutta la durata della vita residua. Anche in un ulteriore studio (3), che ha analizzato solo i casi trattati per sanguinamento, è riportato un controllo della sintomatologia nel 68% dei casi, impiegando dosi tra 40 Gy e 50 Gy.
Un trattamento più intensivo con associazione di chemioterapia può essere indicato nel caso di recidive post-chirurgiche ben identificabili alla TC, a sede linfonodale, utilizzando le moderne tecniche conformazionali. Una regressione obiettiva della recidiva linfonodale è stata recentemente riportata in 31 su 37 pazienti (83%) trattati con radioterapia a dosi tra 45 Gy e 50.4 Gy e tecnica conformazionale 3D con 11 risposte complete e 20 parziali (4).
In conclusione, la radioterapia rappresenta un’opzione applicabile con buon effetto palliativo e modesta tossicità per il controllo dei principali sintomi locali nel cancro gastrico inoperabile e nelle recidive post-chirurgiche.

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TERAPIA PALLIATIVA

13.3 Palliazione endoscopica

Premessa
Il cancro dello stomaco è la seconda causa di morte per tumore nei Paesi Occidentali e si associa ad una sopravvivenza a 5 anni dei casi sottoposti ad intervento chirurgico che varia tra il 40% ed il 45% negli studi provenienti dagli Stati Uniti e tra il 30% ed il 40% negli studi provenienti da Paesi Europei (1,2). Questi dati confermano pertanto che un’elevata percentuale di pazienti ha una malattia avanzata al momento della diagnosi e che l’intervento chirurgico risulta essere radicale in meno del 50% dei pazienti, che vengono sottoposti a chirurgia con intenti curativi (1). I pazienti con le forme avanzate si possono presentare con un quadro clinico caratterizzato da dolore addominale, calo ponderale ed anemia, anche se 1/3 dei casi può essere asintomatico o presentare sintomi aspecifici di tipo dispeptico (3). La sopravvivenza media dei pazienti con malattia avanzata, che presentano sintomi legati alla neoplasia, è stimata < 6 mesi, con un range che varia da poche settimane a 18 mesi, nei casi più favorevoli (3). Come per altre neoplasie, l’obiettivo primario della terapia palliativa endoscopica del tumore dello stomaco è quello di controllare i sintomi e di migliorare la qualità della vita. In questo contesto, l’endoscopia svolge un ruolo nella palliazione delle forme avanzate di cancro gastrico, quando si verifica restringimento o stenosi della cavità gastrica indotte dalla crescita intraluminale della neoplasia.

La palliazione delle stenosi da neoplasie gastriche
Il restringimento della cavità gastrica per effetto della crescita tumorale e la conseguente sintomatologia derivante dall’impossibilità allo svuotamento del suo contenuto sono eventi che si verificano fino nel 20% delle neoplasie del tratto digestivo superiore (carcinoma gastrico, duodenale e pancreatico) (4). La sintomatologia si manifesta con nausea, vomito, distensione gastrica, malnutrizione anche severa e disidratazione. In queste condizioni, la qualità di vita dei pazienti peggiora drasticamente in breve tempo sia per l’incapacità ad alimentarsi per via orale sia per il rapido deterioramento delle condizioni generali. Il ripristino del transito gastroduodenale migliora rapidamente i sintomi, quali rigurgito e vomito, e consente una certa ripresa dell’alimentazione. In passato, la maggior parte di questi pazienti veniva sottoposta a palliazione chirurgica mediante il confezionamento di una gastrodigiunostomia. Tuttavia, nel tempo sono stati ben definiti i confini ed i limiti della chirurgia nell’ambito della terapia palliativa del cancro gastrico. Questo tipo di chirurgia, sia di tipo resettivo sia semplicemente di creazione di un bypass con il digiuno, è risultata essere associata ad una percentuale di complicanze e di mortalità, che superano largamente i benefici attesi (5-7). Nei pazienti sottoposti a bypass chirurgico, la risoluzione dei sintomi ostruttivi e la ripresa di una corretta alimentazione per via orale avviene in poco meno del 50% e tale beneficio tende a ridursi ulteriormente con la progressione della malattia, verosimilmente per un coinvolgimento peritoneale che vanifica l’esito della chirurgia. Inoltre, la terapia chirurgica si associa ad un prolungamento dei tempi di ospedalizzazione di questi pazienti, con un’ulteriore riduzione della loro qualità di vita. Un recente studio condotto in Olanda ha evidenziato come la chirurgia palliativa dovrebbe essere presa comunque in considerazione solo in casi ben selezionati e, comunque, in pazienti di età < 70 anni (8). Infatti, la percentuale di complicanze e di mortalità nei pazienti di età > 70 anni, indipendentemente dallo stadio di malattia avanzata considerato, è risultata inaccettabile per questo tipo di chirurgia con obiettivi palliativi, senza che si producesse un qualche beneficio sulla sopravvivenza.

Figura 1 Sopravvivenza dopo resezione o non resezione in pazienti > 70 anni e 2 o più segni di incurabilità. p=0.82 (log rank test)

Per tale ragione, più recentemente, il posizionamento endoscopico di una protesi metallica auto-espandibile è stata proposta come metodica per ristabilire la canalizzazione gastroduodenale (9). L’approccio endoscopico è favorito, rispetto a quello chirurgico, dalla non-invasività, dalla possibilità di essere eseguito in sedazione profonda, senza anestesia generale ed anche dalla sua possibile ripetibilità in caso di fallimento e/o di recidiva dei sintomi (10). Inoltre, questo tipo di approccio può essere utilizzato anche nei casi       di recidiva anastomotica che determina stenosi e per i quali il trattamento chirurgico non è quasi mai in grado di offrire opzioni terapeutiche efficaci (3).
Le indicazioni alla ricanalizzazione per via endoscopica sono rappresentate dalla presenza di una stenosi non valicabile con un endoscopio di calibro standard a livello di una neoplasia avanzata, non curabile mediante chirurgia resettiva radicale o di una recidiva neoplastica su di un’anastomosi chirurgica, in pazienti con incapacità ad assumere una corretta alimentazione per bocca per il rallentato od ostacolato transito del cibo a livello del tratto stenotico. La perforazione con segni di peritonite o di pneumoperitoneo è considerata una controindicazione al posizionamento di una protesi (11-14). Gli obiettivi della terapia palliativa, mediante il posizionamento di una protesi metallica, sono la risoluzione della sintomatologia ostruttiva ed il ritorno ad una dieta quanto più possibile regolare. Nessuno studio ha mai dimostrato un beneficio in termini di sopravvivenza. L’efficacia del trattamento endoscopico viene misurata mediante due indicatori:

– il successo tecnico, rappresentato dal corretto posizionamento e dall’adeguata espansione della protesi, confermati dal ripristino della canalizzazione gastroduodenale;

– il successo clinico, determinato dalla regressione della sintomatologia ostruttiva.

Il primo caso di trattamento palliativo di un’ostruzione gastrica mediante posizionamento di stent è stato descritto nel 1992 da Truong et al. (9), in Germania. In seguito, sono comparsi in letteratura numerosissimi studi che hanno dimostrato come il successo tecnico di questa metodica sia molto elevato e variabile tra il 92% ed il 100% (Tabella 1).

Tabella 1

In una meta-analisi condotta da Dormann et al. nel 2004 (11), comprendente 606 casi con sintomatologia ostruttiva, dei quali 1/3 causati da neoplasia gastrica, il successo tecnico della metodica è risultato del 97%, mentre l’efficacia clinica è stata raggiunta nell’89% dei casi. La mancata risoluzione dei sintomi o l’incapacità a riprendere l’alimentazione orale è dovuta nel 20% dei casi a migrazione precoce dello stent, nel 61% a progressione di malattia e nel 15% a complicanze legate alla procedura, quali il mal posizionamento od un’incompleta espansione della protesi. Complicanze severe dovute ad emorragia digestiva si sono verificate nell’1% dei casi, mentre nel 17% dei pazienti si è verificata un’occlusione dello stent per ricrescita tumorale. Inoltre, nel 5% dei casi lo stent è migrato e pertanto si è reso necessario il riposizionamento di un’ulteriore protesi.
Tuttavia, l’ostruzione completa del lume gastrico può rappresentare un limite invalicabile al posizionamento di una protesi, come riportato nello studio di Kaw et al. (12), in cui nel 3.1% dei casi non è stato tecnicamente possibile valicare la stenosi con il filo guida.
Non sorprende constatare che l’outcome clinico dello stenting endoscopico sia inferiore a quello tecnico, variando dal 79% al 91% dei casi (10-14). Nello studio di Mosler et al. (14), il successo clinico, definito come regressione della sintomatologia ostruttiva, viene descritto in 20 su 32 pazienti (90.6%). La stessa definizione è adottata da Kim et al. (15) in uno studio relativo a 53 pazienti affetti da ostruzione da neoplasia gastrica, in cui il successo clinico viene raggiunto nell’81.8% dei casi. Infine, Adler et al. (16), riportano un miglioramento clinico sin dal primo giorno nel 58% (21 su 36 pazienti) e nell’86% dal terzo giorno. In un recente studio condotto da Masci et al. (13), è stata invece valutata la durata del miglioramento clinico in una serie di 38 pazienti sottoposti a stenting endoscopico. Dopo un follow-up di 30 giorni, il 79.4% dei pazienti era in grado di assumere alimenti solidi o semisolidi. A distanza di 3 mesi dal posizionamento dello stent, degli 11 pazienti viventi, il 90.9% presentava ancora un’alimentazione regolare. Infine, Kim et al. (17) e Cho et al. (18) hanno riportato una durata maggiore di pervietà dello stent nei casi sottoposti a chemioterapia successivamente alla palliazione endoscopica. Per quel che concerne le complicanze del posizionamento endoscopico degli stent, in letteratura sono riportate con una frequenza del 10-43% (13,14). Le complicanze precoci si verificano entro 24-96 ore e       comprendono il mal posizionamento, la migrazione o l’occlusione dello stent, la perforazione, il sanguinamento e le complicanze legate alla sedazione o all’aspirazione di contenuto gastrico durante la procedura endoscopica (19). Quelle tardive, che possono comparire a distanza anche di settimane, includono l’ostruzione della protesi, il sanguinamento, la perforazione, la migrazione dello stent e lo sviluppo di fistole. Nello studio di Cho et al. (18), le complicanze precoci si sono verificate nel 2.6% dei pazienti (2/75) per una polmonite ab ingestis ed un caso di perforazione. Invece, nel 33.3% dei casi (25/75) la sintomatologia occlusiva si è ripresentata per ostruzione della protesi da ricrescita tumorale. Di questi, 14 pazienti sono stati ritrattati con il riposizionamento di un’altra protesi. Nello studio di Kim et al. (15), l’occlusione dello stent si è verificata in 5 su 43 pazienti (11.6%) dopo meno di 4 settimane e tutti i casi sono stati ritrattati con successo riposizionando un’altra protesi. Le complicanze legate allo stent che hanno richiesto un ritrattamento si sono verificate complessivamente in 17 pazienti (32.1%), durante un follow-up medio di 145 giorni. In 2 casi (3.8%), i sintomi sono recidivati per migrazione distale dello stent, in 15 pazienti (28.3%) la protesi si è invece occlusa per ricrescita tumorale dopo un tempo medio di 331 giorni (overgrowth) e 78.4 giorni (ingrowth). Studi più recenti hanno valutato l’outcome di protesi non ricoperte nei confronti di protesi dotate di un rivestimento delle maglie metalliche, che possa servire per proteggere lo stent dalla ricrescita di tessuto infiammatorio e/o neoplastico e quindi dalla riocclusione. Le protesi non ricoperte hanno un rischio maggiore di ostruzione per ricrescita del tessuto tumorale tra le maglie della protesi stessa, mentre quelle ricoperte si accompagnano ad un aumentato rischio di migrazione, superiore al 20% (20,21). Maetani et al. (22) hanno confrontato il tasso di complicanze delle protesi non ricoperte rispetto a quelle ricoperte in 31 e 29 casi, rispettivamente. Nel primo gruppo si sono verificate 4 complicanze tardive (12.9%), legate a rottura della protesi, sanguinamento, perforazione ed ostruzione per ricrescita di tessuto rigenerativo. Nel secondo gruppo, le complicanze si sono verificate tardivamente in 6 casi (20.6%) per rottura dello stent, occlusione per ricrescita tumorale (3 casi) e migrazione (2 casi). Tutti e 6 i pazienti sono stati trattati con successo, riposizionando un altro stent. Nello studio di Kim et al. (23), si è cercato infine di valutare gli elementi in grado di predire l’occlusione precoce delle protesi non ricoperte in un gruppo di 49 pazienti. L’unico fattore risultato significativamente associato al rischio di occlusione precoce è stata la sede di posizionamento delle protesi. Infatti, l’ostruzione precoce degli stent si è verificata in quelli posizionati a livello delle anastomosi post-chirurgiche.
Dall’analisi di questi dati emerge, pertanto, in maniera chiara che il posizionamento delle protesi metalliche per ricanalizzare una stenosi da carcinoma gastrico avanzato si associa ad un outcome più favorevole rispetto alla chirurgia, non solo dal punto di vista del risultato clinico immediato ed a lungo termine, ma anche rispetto alla minore incidenza di morbilità e mortalità legati alla procedura endoscopica. Questo livello di evidenza è stato confermato da una serie di studi retrospettivi e prospettici di confronto tra la palliazione endoscopica e quella chirurgica anche se in un setting di pazienti con gastric outlet obstruction secondaria non solo a neoplasie gastriche, ma più in generale del tratto gastroduodenale e biliopancreatico (10). Nel 2005, Maetani et al. (24) hanno riportato, come unica differenza significativa tra i due gruppi di pazienti, il tempo di ripresa dell’alimentazione orale e di esecuzione della procedura, significativamente inferiore nei soggetti sottoposti a palliazione endoscopica. Non sono invece riportate differenze in termini di sopravvivenza o di complicanze. In una meta-analisi condotta da Hosono et al. (25), lo stenting endoscopico è risultato essere associato ad un maggiore successo clinico (p<0.002), un minor tempo necessario per riprendere l’alimentazione orale (p<0.001), un’inferiore morbidità (p<0.02), una minore incidenza di ritardato svuotamento gastrico (p<0.002) ed un tempo di degenza ospedaliera più breve (p<0.001). Invece, non è stata identificata nessuna differenza in termini di mortalità a 30 giorni. In uno studio prospettico randomizzato condotto da Fiori et al. (26), è stata paragonata l’efficacia clinica della palliazione chirurgica rispetto a quella endoscopica in un gruppo di 18 pazienti inoperabili affetti da stenosi maligna antro-pilorica. Il tempo medio intercorso tra l’intervento e la ripresa dell’alimentazione orale è risultato di 6.3 giorni per i pazienti chirurgici e di 2.1 giorni per quelli trattati con stent (p<0.0001). La lunghezza media del ricovero ospedaliero è stata di 10 giorni nel gruppo chirurgico e di 3.1 giorni in quello endoscopico. Non sono state riportate differenze significative in termini di morbidità e mortalità tra i due gruppi. Infine, Mittal et al. (27), in una review comprendente 181 pazienti affetti da neoplasia del       tratto digestivo superiore, hanno calcolato i costi relativi alla palliazione endoscopica rispetto a quella chirurgica. Quest’ultimi sono risultati 2.3 (gastrodigiunostomia open) – 1.9 (gastrodigiunostomia laparoscopica) volte superiori a quelli del gruppo sottoposto a trattamento endoscopico. L’analisi conclusiva di tutti i risultati sopra rappresentati identifica la palliazione endoscopica come la metodica di prima scelta nella gestione dei sintomi da ostacolato transito gastroduodenale nei pazienti con neoplasia gastrica avanzata e ridotta aspettativa di vita. Rispetto alla palliazione chirurgica, consente un più rapido miglioramento della qualità della vita, una minore degenza ospedaliera, con un rischio di complicanze mediamente sovrapponibile, del 15-16% circa (10,28). Tuttavia, quelle legate allo stenting endoscopico sono per lo più dovute ad aspetti tecnici, quali l’occlusione, la migrazione, il mal posizionamento, che possono essere, in una certa percentuale dei casi, risolti ripetendo la procedura. Purtroppo, la grande eterogeneità degli studi presenti in letteratura, sia per quanto riguarda i criteri d’inclusione dei pazienti sia l’eziologia dell’ostruzione gastrica (neoplasia gastrica, duodenale, pancreatica, biliare, ecc.), non permette di definire con certezza criteri clinici e/o strumentali che possano consentire di selezionare in maniera rigorosa quei pazienti che possono beneficiare della palliazione endoscopica rispetto a quella chirurgica, anche se appare ragionevole che per pazienti con malattia avanzata e localizzazioni a distanza, stenosi del tratto distale dello stomaco ed età > 70 anni la palliazione endoscopica possa offrire la strategia terapeutica più cost-effective (9,10).

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13.4 Palliative and supportive care

Premessa
Il ruolo delle Cure Palliative nella cura dei malati con malattia oncologica avanzata è basato sulla rilevazione dei bisogni che condizionano la progressione della malattia, dall’evoluzione della disciplina delle cure palliative all’articolazione dei servizi che offrono cure palliative. L’emergere delle cure palliative come disciplina autonoma della medicina è andato di pari passo con il moltiplicarsi di servizi ospedalieri, di degenza e consulenza, domiciliari e territoriali, che al momento in Italia hanno come obiettivo principale la cura del paziente oncologico inguaribile. L’appropriata integrazione di questi servizi e degli interventi di cure palliative durante tutto il percorso del paziente con carcinoma gastrico, diagnosticato come inguaribile, è un fattore determinante per la qualità della vita e la qualità delle cure per i pazienti e per ottimizzare l’uso di risorse adeguate ai bisogni delle diverse fasi diagnostico-terapeutiche.
Mancano dati specifici per il carcinoma gastrico, ma, per quanto riguarda i pazienti con neoplasie polmonari non a piccole cellule allo stadio IV e con sopravvivenza mediana di 1 anno, è stato dimostrato che la qualità della vita, la depressione e la sopravvivenza sono migliori quando si effettua un’integrazione precoce delle cure palliative con le cure oncologiche (1).
Questo studio randomizzato è il primo che mette alla prova lo schema rappresentato in Figura 1, più volte suggerito in modo astratto e successivamente ridefinito dalle proposte di una simultaneous care (2), che vede l’affiancamento dei servizi oncologici e di cure palliative sin dalla diagnosi delle condizioni di malattia che non permettono il miglioramento della prognosi con i mezzi terapeutici attualmente a disposizione (Figura 1).

Figura 1

Raffigurazione schematica del rapporto ottimale per l’integrazione tra cure palliative e terapie oncologiche specifiche: le diverse discipline trovano un ruolo in continuità, senza mai abbandonare il paziente, facilitando le transizioni terapeutiche sino al decesso e rendendosi disponibili nei tempi e con le indicazioni che caratterizzano i bisogni individuali legati al tipo di patologia e alla soggettività della persona malata.

Cure palliative e di supporto si basano su un’attenta terapia dei sintomi, sulla gestione multidisciplinare di interventi psicosociali e di sostegno spirituale, anche per la famiglia del paziente, e sull’organizzazione delle cure in setting dedicati alle cure palliative in ospedale, in Hospice ed a domicilio.

Terapia dei sintomi principali

Dolore
E’ forse la manifestazione clinica più evidente dei tumori in fase avanzata ed è sicuramente tra i sintomi più temuti dai pazienti.
Un dolore cronico moderato o severo caratterizza il decorso della malattia nella maggior parte dei pazienti oncologici. E’ presente in circa il 30-40% dei pazienti al momento della diagnosi, ma se si considerano solo i pazienti in fase avanzata, la percentuale sale al 75% (3). Nella maggior parte dei casi, è possibile ottenere un controllo della sintomatologia dolorosa impostando un’adeguata terapia antalgica.
I farmaci analgesici, in particolare gli oppioidi, sono efficaci nel controllare il dolore almeno nel 70% dei pazienti e devono quindi essere considerati la prima linea terapeutica.
Sebbene gli oppioidi siano riconosciuti come il caposaldo delle strategie terapeutiche nella gestione del dolore da cancro e le linee guida del WHO e di altre Società Scientifiche siano ampiamente accettate ed utilizzate, ancora un numero significativo di pazienti prova un’insufficiente analgesia e/o importanti effetti collaterali.
Sfortunatamente, gli oppioidi possono provocare alcuni effetti collaterali, come la nausea e il vomito, la stipsi e raramente la dipendenza psicologica, la tolleranza e la depressione respiratoria.
Pertanto, il bilancio tra efficacia analgesica ed effetti collaterali deve essere preso in considerazione, quando si prescrive una terapia a base di oppioidi.
La scelta di un oppioide appropriato è basata su diversi fattori che coinvolgono l’intensità del dolore, la farmacocinetica dei diversi principi attivi, la disponibilità e la possibilità di più vie di somministrazione, eventuali comorbidità ed effetti collaterali.
Un altro elemento da tenere in considerazione è la variabilità inter-individuale nella risposta antalgica agli oppioidi che trova spiegazioni, ancora insufficienti per essere utilizzate nella pratica clinica, anche nella variabilità genetica individuale dei sistemi recettoriali, metabolici e di altri fattori fisiologici che regolano l’analgesia da oppioidi.
Per motivi pratici, gli oppioidi analgesici sono divisi in quelli usati per il dolore da lieve a moderato e quelli usati per il dolore da moderato a severo. Questa distinzione è arbitraria ed è basata sull’esistenza di un effetto tetto, che dipende dalle caratteristiche di questi farmaci e dalla loro associazione con analgesici non oppioidi, che ne rendono non praticabile la somministrazione ad alte dosi per dolori più severi (Tabella 1).

Tabella 1 Caratteristiche degli oppioidi degli Step II e III della scala analgesica del WHO

Tra i farmaci per il dolore da lieve a moderato (Step II opioids, WHO), quelli maggiormente utilizzati sono la Codeina ed il Tramadolo.
In commercio, si trovano formulazioni contenenti Codeina o Tramadolo + Paracetamolo, o Codeina e Caffeina. L’associazione di un oppioide con un altro farmaco aumenta l’effetto analgesico, riducendo gli effetti secondari, ma per quanto riguarda l’associazione col Paracetamolo il suo impiego è limitato dalla tossicità epatica di quest’ultimo (4g/die).
Morfina, Ossicodone, Idromorfone, Metadone, Fentanyl e Buprenorfina sono invece analgesici oppioidi per il dolore da moderato a severo (Step III opioids, WHO).
Per il controllo del dolore severo sono da preferire le formulazioni a lento rilascio orali o transdermiche, da utilizzare in combinazione con l’uso di formulazioni a pronto rilascio per quanto riguarda la titolazione della dose (Morfina) ed il controllo del breakthrough pain (Morfina o Fentanyl transmucosale).
Una recente revisione sistematica della letteratura sugli oppioidi porta a concludere che la Morfina è paragonabile, in studi randomizzati controllati di buona qualità, in termini di efficacia, ad altri oppioidi presi in esame, quali Idromorfone, Ossicodone, Metadone e Fentanyl.
Per questo motivo, sulla base delle evidenze citate, che non dimostrano un vantaggio terapeutico definito a favore di un oppioide rispetto ad un altro e del parere di esperti si può raccomandare l’uso della Morfina o di un oppioide equivalente per via orale (Ossicodone o Idrormorfone) per il trattamento del dolore moderato-severo da cancro. I farmaci transdermici hanno mostrato uguale efficacia rispetto alla Morfina per via orale, con un profilo di minore incidenza di stipsi (4).
Il controllo della stipsi da oppioidi deve essere effettuato preventivamente con l’uso di lassativi usati regolarmente; non vi sono differenze di efficacia tra i lassativi ad azione osmotica e quelli con effetto stimolante la peristalsi intestinale e possono anche essere usati in combinazione. Nei casi resistenti alla terapia lassativa è indicato il Methylnaltrexone in somministrazione sottocutanea. Questo farmaco produce spesso crampi addominali e non va usato in pazienti con lesioni gastroenteriche note, soprattutto di tipo potenzialmente occlusivo.

Nausea e vomito
Sono sintomi comuni nei pazienti affetti da cancro in fase avanzata. Circa il 33% di questi pazienti accusa questi disturbi, che sono dovuti prevalentemente alla patologia neoplastica di base, anche se non si possono escludere altre noxe patogene.
Negli ultimi mesi di vita, la nausea ed il vomito provocano distress psicologico e, se scarsamente controllati, contribuiscono a peggiorare la qualità di vita.
Nei pazienti con cancro gastrico avanzato, la prima causa di nausea e vomito è la stasi gastrica, che è aggravata dall’assunzione di cibo ed è associata a distensione addominale (5).
Altre cause possono essere ricondotte a squilibri biochimici (ipercalcemia), alla presenza di metastasi epatiche o cerebrali, alla sindrome anoressia-cachessia, ma anche ai trattamenti chemioterapici o con oppioidi.
La nausea e/o il vomito indotti dagli oppioidi si registrano in circa il 40% dei malati di cancro senza un’anamnesi positiva per emesi od altre cause che ne giustifichino l’insorgenza. La fisiopatologia della nausea/vomito indotta da oppioidi è correlata a quattro principali meccanismi.
I farmaci oppioidi inducono costipazione, gastroparesi, stimolazione della zona trigger chemocettrice e sensibilizzazione del labirinto, tutti meccanismi che possono avviare la cascata di segnalazione che coinvolge il centro del vomito, portando in definitiva a nausea/vomito.
Poiché i sintomi gastrointestinali come la nausea ed il vomito sono tra gli effetti collaterali degli oppiacei dose-limitante, un’adeguata gestione della nausea e del vomito è un prerequisito fondamentale per raggiungere con successo il trattamento del dolore da cancro.
Una recente revisione sistematica della letteratura (6) ha permesso di identificare 9 studi, in cui il trattamento della nausea/vomito dovuta ad oppioidi era l’outcome principale. Questi studi, di cui solo due randomizzati, hanno dimostrato l’efficacia della Metoclopramide e dell’Aloperidolo nel controllo di questi sintomi.

Anoressia/Cachessia
In pazienti con neoplasie gastrointestinali, una progressiva malnutrizione si osserva quasi regolarmente durante il decorso della malattia. La malnutrizione caratterizza significativamente la qualità della vita dei pazienti, la morbilità e la sopravvivenza.
Dal punto di vista patogenetico, due diverse cause sono rilevanti per lo sviluppo di malnutrizione nei pazienti con tumore gastrointestinale. Una causa è ascrivibile al ridotto apporto nutrizionale; questa condizione viene definita come anoressia e può essere aggravata da effetti collaterali dovuti a terapia antineoplastica. L’altra causa è il rilascio di sostanze endogene e/o di altri prodotti del tumore, che conducono alla sindrome della cachessia, che è caratterizzata da perdita di peso corporeo, bilancio elettrolitico negativo e fatigue.
L’anoressia associata al cancro può essere definita come generale perdita di peso, sensazione di precoce sazietà, modificate preferenze alimentari od una combinazione di tutte queste.
Cachessia e anoressia non devono essere considerate sinonimi, sebbene esse abbiano delle caratteristiche in comune.
Si può definire la cachessia come una sindrome caratterizzata da anoressia, sazietà precoce, severa perdita di peso, astenia, anemia ed edema.
La cachessia può essere diagnosticata in molti stati avanzati di malattie come il cancro, le malattie croniche ostruttive dei polmoni, l’insufficienza cardiaca, epatica e renale, l’artrite reumatoide e l’AIDS (7).
Più del 30% dei pazienti con cancro ha una perdita di peso (>= 5% del peso corporeo originale) ed il 20% di tutte le morti per cancro è causato direttamente dalla cachessia dovuta ad insufficienza respiratoria e/o cardiaca ed all’immobilità.
La perdita di peso è correlata al tipo ed alla sede di insorgenza del tumore: nei tumori solidi, ed in particolare in quello gastrico, i pazienti con perdita involontaria di peso sono circa l’80%.
La prevalenza della cachessia nelle due ultime settimane di vita dei pazienti neoplastici è di circa il 90%. Gli effetti nocivi del catabolismo, che sono associati alla cachessia, sono responsabili di circa il 20% delle morti per cancro (8).
La cachessia neoplastica è più facilmente riscontrata nella sua forma avanzata accompagnata da severa perdita di grasso sottocutaneo e dell’apparato muscolo scheletrico.
Nella cachessia c’è una graduale progressione dalla semplice perdita di peso (pre-cachessia), attraverso diversi gradi di cachessia (perdita di peso, diminuito introito di cibo, infiammazione sistemica), fino alla cachessia severa, che include un’importante perdita di tessuto muscolare, perdita di grasso sottocutaneo e stato di immunocompromissione.
La sola perdita di peso non identifica il pieno effetto della cachessia sulla funzione fisica e non è una variabile prognostica. La perdita di peso (>= 10%), la riduzione dell’introito di calorie (<= 1500 Kcal/die) e le infiammazioni sistemiche (proteina C-reattiva >= 10 mg/L) sono i tre segni fondamentali che identificano i pazienti con una cattiva prognosi.
Una corretta valutazione dello stato nutrizionale richiede un’attenta raccolta della storia alimentare, dei sintomi gastrointestinali, un esame fisico, la determinazione dell’albumina, della pre-albumina e della proteina C-reattiva e delle misure antropometriche.
Tre strumenti di qualità della vita sono validati per la valutazione dell’anoressia e della cachessia: Functional Assessment of Anorexia/ Cachexia Therapy, Subjective Global Assessment, e Bristol-Myers Anorexia/Cachexia Recovery Instrument. Il trattamento iniziale dell’anoressia/cachessia richiede l’identificazione di cause reversibili per la perdita di peso, come l’ostruzione intestinale, la disfagia e la mucosite.
I trattamenti disponibili per la cachessia in forma avanzata non sono ancora validati da studi clinici adeguati.
Gli stimolatori dell’appetito possono essere utilizzati per alleviare e prevenire l’anoressia o diminuire la perdita di peso, soprattutto se usati in combinazione. Il supporto nutrizionale, sotto forma di nutrizione enterale o parenterale, ha limitato beneficio nella cachessia, poiché non inverte il metabolismo catabolico della cachessia nel cancro avanzato e va limitato ai casi con prognosi >= 3 mesi. Le principali indicazioni terapeutiche in questo gruppo di pazienti con cachessia conclamata e avanzata includono l’uso di:

– stimolanti dell’appetito con effetti blandi (Ciproeptadina);

– Megestrolo e Methylprogesterone, che hanno effetti positivi sull’anoressia e possono essere usati per brevi periodi di tempo;

– Corticosteroidi, che hanno dimostrato in studi clinici un qualche beneficio sulla sintomatologia, l’effetto è breve e non vanno usati per più di 2 settimane;

– esercizio fisico che, se praticabile, può in forme adeguate alle condizioni del malato svolgere un ruolo di supporto.

Depressione
L’impostazione di una buona cura palliativa è di per sé una strategia importante per prevenire la depressione nei pazienti terminali. E’ cruciale la comunicazione tra i servizi, tra gli operatori sanitari, tra i pazienti e gli operatori sanitari e tra i pazienti e le loro famiglie. Un attento ascolto dei bisogni e la risposta a domande aperte incoraggiano i pazienti ad esprimere i loro problemi stimolando gli operatori sanitari a trovare appropriate informazioni ed adeguato supporto. Le cure palliative hanno lo scopo di diminuire il distress attraverso il controllo dei sintomi, come il dolore e gli altri più fastidiosi, e di identificare i pazienti “a rischio” depressione per prevenirne l’insorgenza.
Data la prevalenza della depressione, è opportuno tentare di individuare i casi fra tutti i pazienti. Alcuni operatori sanitari utilizzano uno strumento di screening della depressione, altri rivolgono al paziente una o due domande sullo stato d’animo, come parte di una valutazione generale dei sintomi. Ci sono prove non univoche sulla capacità degli strumenti di screening di migliorare gli effetti del trattamento sul paziente. Tuttavia, è improbabile che lo screening per la depressione provochi danni ai pazienti e, data la frequenza della depressione in questa popolazione, molti servizi di cure palliative lo attuano. Nell’introdurre lo screening, è importante assicurarsi che i medici siano in grado di eseguire una valutazione clinica competente e di impostare un trattamento ad hoc.
In cure palliative, la diagnosi di depressione è impegnativa. La depressione è particolarmente difficile da differenziare dal distress normale in questa popolazione, poiché la malattia avanzata evoca sempre paura e tristezza. Gli operatori sanitari devono controbilanciare il rischio di medicalizzazione di una normale angoscia con il rischio di sottostimare e non trattare una vera depressione. Una sfida ulteriore è costituita dal fatto che i sintomi somatici della depressione (ad esempio, stanchezza, insonnia ed inappetenza) imitano quelli di una malattia avanzata, il che rende difficile stabilire se tali sintomi siano dovuti a depressione o a malattia fisica.
Le manifestazioni tipiche che dovrebbero portare ad una valutazione della depressione sono: tono dell’umore basso, pianto, irritabilità e stress; perdita di interesse o di piacere nelle attività quotidiane; sintomi fisici intrattabili o sproporzionati rispetto al grado della malattia; senso di colpa e rifiuto delle cure. Altri sintomi comunemente associati alla depressione (mancanza di appetito, variazione di peso, alterazioni del sonno, perdita di energia, affaticamento, rallentamento psicomotorio, perdita della libido e diminuita concentrazione) possono essere dovuti alla patologia oncologica di base od ai trattamenti, e quindi sono meno utili nel fare una diagnosi.
La gestione della depressione deve prendere in considerazione la prognosi, soprattutto in questi pazienti dove il tempo di solito è breve. In media, ci vogliono dalle 2 alle 4 settimane perché il paziente incominci a rispondere agli antidepressivi. Per i pazienti con un’aspettativa di vita breve, la terapia psicologica deve essere impostata prontamente e deve affrontare le preoccupazioni immediate del paziente. Gli operatori sanitari dovrebbero discutere tutte le opzioni di trattamento con il paziente ed assicurarsi che siano ben informati. I pazienti dovrebbero avere parità di accesso di un’opportuna valutazione e gestione della depressione sia che siano in carico all’assistenza domiciliare sia che siano ricoverati.
La risposta al trattamento e gli effetti collaterali devono essere monitorati regolarmente (9,10). In conclusione, il trattamento della depressione associata a malattie terminali si deve avvalere di:

– attenta e costante valutazione dello stato dell’umore;

– controllo adeguato dei sintomi fisici e supporto multidisciplinare secondo il modello delle cure palliative;

– supporto psicologico;

– antidepressivi per depressione persistente moderata o grave senza sottovalutare gli eventuali rischi di comportamento suicidario;

– consulto specialistico per depressione grave, persistente, resistente alla terapia ed ideazione suicidaria.

Comunicazione con il paziente e la famiglia

Carenze nella comunicazione tra medici, infermieri e pazienti e tra clinici e familiari dei pazienti sono un fattore riconosciuto, che complica la capacità di adattamento alla malattia nelle sue fasi avanzate. La comunicazione è certamente condizionata dal grado di informazione del paziente e si sa che, nel nostro Paese, un’informazione ancora troppo distorta sulla diagnosi e soprattutto sulla prognosi (11) è alla base di scelte terapeutiche con prospettive soggettive irrealistiche e di vissuti negativi, che compromettono anche l’assistenza alle fasi più avanzate. Medici e infermieri che lavorano in oncologia ed in cure palliative devono sviluppare una sensibilità ed una competenza nella comunicazione, che sono ancora troppo poco parte dei loro curricula formativi. I pazienti che attraversano successivi adattamenti agli insuccessi della terapia ed alla progressione della malattia vogliono che la comunicazione sia improntata a criteri di onestà e chiarezza, empatia, disponibilità di tempo e garanzia della continuità nella relazione (12). Molti pazienti vogliono informazioni sulla prognosi, ma molto spesso vogliono negoziare la quantità ed i tempi di questa informazione (12). Informazione e comunicazione sono quindi piani diversi di un contesto di relazione di cura che si deve poter instaurare e che deve avvalersi della multidisciplinarietà e della condivisione di strategie comunicative nell’équipe curante e tra le diverse équipe (ex oncologica e di cure palliative). In questa strategia le capacità individuali sono importanti e l’attitudine alla relazione personale è determinante. La comunicazione deve anche cercare di salvaguardare le risorse personali del malato, non favorendone la disperazione. Sostenere una comunicazione veritiera e non illusoria richiede una relazione solida ed una capacità di supporto che aiutino il malato a sentirsi sorretto ed aiutato in ogni momento. Questo contesto di cura si può a volte realizzare solo con il complesso degli interventi specialistici di cure palliative, basati sulla presenza dell’équipe multidisciplinare formata almeno dal medico e dall’infermiere di cure palliative.
Il coinvolgimento dei familiari è spesso importante, quasi sempre necessario, e deve tener conto del contesto sociale e culturale, senza che venga prevaricata l’autonomia e la dignità del paziente. Anche nella relazione con la famiglia, che spesso risente molto negativamente delle condizioni cliniche e delle sofferenze patite dal malato, sono necessarie competenze, a volte specialistiche, mettendo a disposizione interventi psicologici di counselling filosofico e di supporto spirituale. Situazioni contraddittorie all’interno del nucleo familiare e nei rapporti con le diverse discipline devono consigliare incontri multidisciplinari tra i “curanti” e la famiglia e la facilitazione di professionisti ed eventualmente di mediatori culturali.

Decisioni ed etica nelle fasi finali della vita e supporto al lutto

L’integrazione delle cure palliative con tutti gli interventi volti alla cura della malattia ed al supporto del paziente con patologia incurabile deve poter facilitare decisioni informate e condivise con il malato e le altre discipline cliniche, che se ne fanno carico, con particolare riguardo a:

1. sospensione o prosecuzione di terapie antineoplastiche con intento palliativo;

2. indicazione o meno a terapie di supporto nutrizionale in caso di complicazioni come occlusione gastrointestinale inoperabile;

3. indicazione a terapia sedativa nelle fasi terminali (sedazione palliativa), in caso di sintomi non altrimenti controllabili.

Questo ventaglio parziale di situazioni cliniche ha una base etica evidente, che assume particolare significato se si valuta che trattamenti antineoplastici, anche chemioterapici, sono protratti fino agli ultimi giorni di vita in molti malati e che l’invio dei pazienti ai servizi di cure palliative risente spesso di eccessivi ritardi (13).
La nutrizione parenterale totale ha indicazioni ristrette e la sua sospensione all’approssimarsi di una fase terminale evoca delicati scenari nella comunicazione con il paziente e con la famiglia, anche quando le condizioni cliniche e la prognosi non danno adito a dubbi. Le indicazioni alla nutrizione parenterale nelle fasi avanzate, ed eventualmente terminali, trova una validissima cornice concettuale nelle linee guida della Società Europea di Cure Palliative curate a suo tempo da Bozzetti (14).
L’opportunità di una terapia di supporto idratante nelle fasi terminali deve essere valutata caso per caso, considerando che non vi sono evidenze che la terapia idratante sia di per sé sempre utile al sollievo di sintomi, fame o sete.
L’uso della sedazione palliativa è un mezzo terapeutico di grande rilievo, che va considerato quando siano presenti sintomi e sofferenza incoercibili nelle fasi terminali, tenendo conto delle raccomandazioni e linee guida sia nazionali, sia internazionali. La sedazione palliativa deve essere effettuata nel contesto di un adeguato supporto multidisciplinare e con la collaborazione di un intervento specialistico di cure palliative (15,16).
L’accompagnamento del paziente sino alla fase terminale ha bisogno di attenzioni particolari, che si devono adeguare al setting di cura: ospedaliero, Hospice o domiciliare. Anche se le risorse a disposizione dei servizi di cure palliative sono spesso limitate, sempre più vengono messi a disposizione interventi a favore della famiglia per facilitare l’adattamento sia alla perdita immediata del proprio congiunto, sia alla successiva fase del lutto. Lo sviluppo e l’adeguamento di professionalità capaci di facilitare questi processi è auspicabile.

BIBLIOGRAFIA

1. Temel JS, Greer JA, Muzikansky A, Gallagher ER, Admane S, Jackson VA, Dahlin CM, Blinderman CD, Jacobsen J, Pirl WF, Billings A, Lynch TJ. Early palliative care for patients with metastatic non-small cell lung cancer. N Engl J Med 2010; 363:733-42

2. Maltoni M, Amadori D. Palliative medicine and medical oncology. Ann Oncol 2001 Apr; 12(4):443-50

3. Schug SA, Gandham N. Opioids: clinical use. In: McMahon SB, Koltzenburg M (eds) Wall and Melzack’s Textbook of Pain, 2006, 5th ed. Elsevier/Churchill Livingstone, Philadelphia, pp 443-57

4. Caraceni A, Hanks G, Kaasa S. Evidence-based guidelines for the use of opioid analgesics in the treatment of cancer pain: the 2010 EAPC recommendations. In press

5. Glare PA, Dunwoodie D, Clark K, Ward A, Yates P, Ryan S, Hardy JR. Treatment of nausea and vomiting in terminally ill cancer patients Drugs 2008; 68(18):2575-2590

6. Laugsand EA, Kaasa S, Klepstad P. Management of opioid-induced nausea and vomiting in cancer patients: systematic review and evidence-based recommendations. Palliative Medicine in press

7. Argiles JM, Lopez-Soriano FJ, Busquets S. Novel approaches to the treatment of cachexia. Drug Discov Today 2008 Jan; 13(1-2):73-8

8. Lagman RL, Davis MP, LeGrand SB, Walsh D. Common symptoms in advanced cancer. Surg Clin N Am 2005; 85:237-255

9. Strong V, Waters R, Hibberd C, Murray G, Wall L, Walker J. Management of depression for people with cancer (SMaRT oncology 1): a randomised trial. Lancet 2008; 372:40-8 10. Rayner L, Price A, Evans A, Valsraj K, Hotopf M, Higginson I. Antidepressants for the treatment of depression in palliative care: systematic review and meta-analysis. Palliat Med 2011; 25(1):36-51

11. Costantini M, Morasso G, Montella M, Borgia P, Cecioni R, Beccaro M. Diagnosis and prognosis disclosure among cancer patients. Results from an Italian mortality follow-back survey. Ann Oncol 2006; 17(5):853-9

12. Kirk P, Kirk I, Kristjanson LJ. What do patients receiving palliative care for cancer and their families want to be told? A Canadian and Australian qualitative study. BMJ 2004 Jun 5;       328(7452):1343

13. Earle CC, Neville BA, Landrum MB, Ayanian JZ, Block SD, Weeks JC. Trends in the aggressiveness of cancer care near the end of life. J Clin Oncol 2004; 22(2):315-21

14. Bozzetti F. Guidelines on artificial nutrition versus hydration in terminal cancer patients. Nutrition 1996; 12(3):163-167

15. Società Italiana di Cure Palliative. Raccomandazioni della SICP sulla sedazione terminale/sedazione palliativa. http://www.sicp.it/documenti _pubblici/documenti_sicp/Sedazione.pdf 2006

16. Cherny NI, Radbruch L. European Association for Palliative Care (EAPC) recommended framework for the use of sedation in palliative care. Palliat Med 2009; 23(7):581-93

FOLLOW-UP DOPO CHIRURGIA RADICALE

Il follow-up del paziente con carcinoma gastrico risponde a due esigenze fondamentali: la prima si riferisce alla cura del paziente ed ha come scopo:
a) individuazione precoce di un’eventuale ripresa di malattia per aumentare le probabilità di guarigione con un nuovo trattamento;
b) assistenza in senso lato al paziente per migliorare la qualità di vita.
La seconda esigenza riguarda la valutazione della storia naturale della malattia e l’effetto della terapia sul paziente.
Tutte queste esigenze possono essere realizzate in pazienti operati radicalmente, mentre è evidente che in pazienti operati in modo palliativo, il follow-up debba avere principalmente il fine di assistenza sintomatica e di supporto.
In assenza di studi clinici controllati, non vi è l’evidenza che follow-up intensivi possano migliorare l’outcome dei pazienti.
In generale, nella pianificazione dei programmi di controllo dei pazienti operati radicalmente si deve tener conto di alcuni elementi della storia naturale:

– la probabilità di ripresa di malattia, che risulta molto elevata anche dopo intervento radicale ed in rapporto allo stadio: è tanto maggiore quanto più avanzato è lo stadio;

– nella maggior parte dei casi, quando una recidiva si rende manifesta, la malattia ha già superato i limiti di curabilità del paziente: fanno eccezione, in linea di massima, le rare recidive localizzate unicamente al moncone gastrico;

– più del 50% delle recidive si manifesta nei primi 2 anni, mentre le recidive tardive dopo 5 anni dall’intervento chirurgico superano il 10%. Il tempo di ripresa di malattia dipende dal rapporto ospite/tumore. Alcuni parametri biologici e clinici, quali indice mitotico della neoplasia e durata dei sintomi, possono orientare verso una maggiore probabilità di ripresa precoce e tardiva;

– la probabilità di guarigione della recidiva è inversamente proporzionale all’intervallo tra intervento e ripresa di malattia: la ripresa precoce è, infatti, in genere tipica di tumori avanzati a rapida crescita. Papachristou et al. (1) hanno riportato percentuali di resecabilità del 10%, se la recidiva si manifesta al primo anno, del 22% al secondo, del 25% al terzo e del 40% negli anni successivi.

Rispetto alle sedi di ripresa, la recidiva localizzata unicamente al moncone è con una certa frequenza curabile. Assai raramente, però, la recidiva sul moncone è isolata. La ripresa loco-regionale, le metastasi peritoneali ed a distanza per via ematogena, queste ultime localizzate principalmente al fegato, sono eccezionalmente curabili, anche perché la ripresa è il più delle volte multicentrica.
In base a queste considerazioni, appare indicato un controllo del paziente ogni 4-6 mesi durante almeno i primi 2 anni, associando gli esami di funzionalità epatica ed i marcatori tumorali, soprattutto se elevati pre-operatoriamente (Tabella 1).

Tabella 1 Algoritmo relativo agli esami da eseguire nel follow-up post-chirurgico dei pazienti con carcinoma gastrico

Ad ogni controllo va indagata la sede dell’intervento con esame endoscopico, eventualmente alternato ad esame radiologico (2). L’accertamento endoscopico è particolarmente indicato nei pazienti sottoposti a resezione gastrica sul moncone. Due volte all’anno andrebbe eseguita un’ecografia addominale ed una volta all’anno una TC addominale e radiografia del torace (3). Dal terzo anno, i controlli clinici e strumentali possono essere effettuati semestralmente fino al quinto anno e successivamente, annualmente.
E’ importante tenere presente che i pazienti operati per carcinoma gastrico, soprattutto se early, risultano più predisposti a sviluppare un secondo tumore nel corso degli anni, in particolare al polmone ed alla vescica (4).

BIBLIOGRAFIA

1. Papachristou DN, Fortner JG. Local recurrence of gastric adenocarcinomas after gastrectomy. J Surg Oncol 2006; 18:47-53

2. Lübbers H, Mahlke R, Lankisch PG et al. Follow-up endoscopy in gastroenterology: when is it helpful? Dtsch Arztebl Int 2010; 107:30-9

3. Tan IT, So BY. Value of intensive follow-up of patients after curative surgery for gastric carcinoma. J Surg Oncol 2007; 96:503-6

4. Whiting J, Sano T, Saka M, Fukagawa T et al. Follow up of gastric cancer: a review. Gastric Cancer 2006; 9:74-81

FOLLOW-UP DOPO CHIRURGIA RADICALE

Il follow-up del paziente con carcinoma gastrico risponde a due esigenze fondamentali: la prima si riferisce alla cura del paziente ed ha come scopo:
a) individuazione precoce di un’eventuale ripresa di malattia per aumentare le probabilità di guarigione con un nuovo trattamento;
b) assistenza in senso lato al paziente per migliorare la qualità di vita.
La seconda esigenza riguarda la valutazione della storia naturale della malattia e l’effetto della terapia sul paziente.
Tutte queste esigenze possono essere realizzate in pazienti operati radicalmente, mentre è evidente che in pazienti operati in modo palliativo, il follow-up debba avere principalmente il fine di assistenza sintomatica e di supporto.
In assenza di studi clinici controllati, non vi è l’evidenza che follow-up intensivi possano migliorare l’outcome dei pazienti.
In generale, nella pianificazione dei programmi di controllo dei pazienti operati radicalmente si deve tener conto di alcuni elementi della storia naturale:

– la probabilità di ripresa di malattia, che risulta molto elevata anche dopo intervento radicale ed in rapporto allo stadio: è tanto maggiore quanto più avanzato è lo stadio;

– nella maggior parte dei casi, quando una recidiva si rende manifesta, la malattia ha già superato i limiti di curabilità del paziente: fanno eccezione, in linea di massima, le rare recidive localizzate unicamente al moncone gastrico;

– più del 50% delle recidive si manifesta nei primi 2 anni, mentre le recidive tardive dopo 5 anni dall’intervento chirurgico superano il 10%. Il tempo di ripresa di malattia dipende dal rapporto ospite/tumore. Alcuni parametri biologici e clinici, quali indice mitotico della neoplasia e durata dei sintomi, possono orientare verso una maggiore probabilità di ripresa precoce e tardiva;

– la probabilità di guarigione della recidiva è inversamente proporzionale all’intervallo tra intervento e ripresa di malattia: la ripresa precoce è, infatti, in genere tipica di tumori avanzati a rapida crescita. Papachristou et al. (1) hanno riportato percentuali di resecabilità del 10%, se la recidiva si manifesta al primo anno, del 22% al secondo, del 25% al terzo e del 40% negli anni successivi.

Rispetto alle sedi di ripresa, la recidiva localizzata unicamente al moncone è con una certa frequenza curabile. Assai raramente, però, la recidiva sul moncone è isolata. La ripresa loco-regionale, le metastasi peritoneali ed a distanza per via ematogena, queste ultime localizzate principalmente al fegato, sono eccezionalmente curabili, anche perché la ripresa è il più delle volte multicentrica.
In base a queste considerazioni, appare indicato un controllo del paziente ogni 4-6 mesi durante almeno i primi 2 anni, associando gli esami di funzionalità epatica ed i marcatori tumorali, soprattutto se elevati pre-operatoriamente (Tabella 1).

Tabella 1 Algoritmo relativo agli esami da eseguire nel follow-up post-chirurgico dei pazienti con carcinoma gastrico

Ad ogni controllo va indagata la sede dell’intervento con esame endoscopico, eventualmente alternato ad esame radiologico (2). L’accertamento endoscopico è particolarmente indicato nei pazienti sottoposti a resezione gastrica sul moncone. Due volte all’anno andrebbe eseguita un’ecografia addominale ed una volta all’anno una TC addominale e radiografia del torace (3). Dal terzo anno, i controlli clinici e strumentali possono essere effettuati semestralmente fino al quinto anno e successivamente, annualmente.
E’ importante tenere presente che i pazienti operati per carcinoma gastrico, soprattutto se early, risultano più predisposti a sviluppare un secondo tumore nel corso degli anni, in particolare al polmone ed alla vescica (4).

BIBLIOGRAFIA

1. Papachristou DN, Fortner JG. Local recurrence of gastric adenocarcinomas after gastrectomy. J Surg Oncol 2006; 18:47-53

2. Lübbers H, Mahlke R, Lankisch PG et al. Follow-up endoscopy in gastroenterology: when is it helpful? Dtsch Arztebl Int 2010; 107:30-9

3. Tan IT, So BY. Value of intensive follow-up of patients after curative surgery for gastric carcinoma. J Surg Oncol 2007; 96:503-6

4. Whiting J, Sano T, Saka M, Fukagawa T et al. Follow up of gastric cancer: a review. Gastric Cancer 2006; 9:74-81

RUOLO DEL MEDICO DI MEDICINA GENERALE

16.1 Problemi nutrizionali e dieta nel gastrectomizzato totale
16.2 Helicobacter pylori e cancro gastrico
16.3 Percorso diagnostico-terapeutico del paziente con carcinoma gastrico

16.1 Problemi nutrizionali e dieta nel gastrectomizzato totale

Premessa
La gastrectomia totale causa invariabilmente una significativa perdita di peso, principalmente dovuta ad una riduzione dell’intake calorico, a sua volta provocato da un senso di sazietà precoce, che viene lamentato molto frequentemente dai pazienti, specie nei primi mesi dopo l’intervento. Recenti studi hanno permesso di chiarire che alla base del disturbo alimentare potrebbe esservi un’alterata produzione di ormoni gastroenterici (1,2). Dopo un intervento di gastrectomia totale, la ricostruzione del canale alimentare può avvenire con modalità tecniche diverse che prevedono, in ogni caso, l’esecuzione preliminare di un’esofago-digiuno-anastomosi o con una semplice, lunga ansa ad Y secondo Roux oppure con la creazione di una pouch digiunale, che viene interposta fra esofago e duodeno prossimale, al fine di mantenere il transito duodenale degli alimenti (2). Il passaggio precoce e rapido del cibo nel piccolo intestino, specialmente nelle ricostruzioni che saltano il transito duodenale, come avviene nella gastrectomia totale secondo Roux, è in grado di indurre un’iperglicemia post-prandiale; anche i livelli di insulina dopo pasto glucidico risultano più elevati nei pazienti sottoposti a gastrectomia totale. Allo stesso modo, la produzione di colecistochinina è significativamente più elevata rispetto ai controlli normali, specie dopo ricostruzione secondo Roux (1). Queste alterazioni ormonali si ritiene possano contribuire al senso di sazietà precoce lamentato dai pazienti; d’altra parte, studi condotti con traccianti radioattivi somministrati come pasto scintigrafico hanno confermato l’accelerato transito intestinale, ma non in tutti i casi e non sempre tale da interferire con la digestione e l’assorbimento dei nutrienti (3). Va in effetti precisato che sono molti gli studi scientifici che trattano i disturbi nutrizionali di pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica od a gastrectomia parziale per ulcera peptica o cancro gastrico, mentre sono molto pochi quelli relativi alla gastrectomia totale.

Problemi nutrizionali dei pazienti gastrectomizzati

Dumping syndrome
La diagnosi è essenzialmente clinica. Il sintomo può essere precoce o tardivo. Se precoce, si presenta generalmente subito dopo il pasto (entro 15-30 minuti) con ipotensione, tachicardia e vertigini. La causa è imputata ad un rapido rilascio di un pasto iperosmolare a livello del digiuno. Se è tardivo, si manifesta un paio di ore dopo il pasto con sensazione di stanchezza, lipotimia, sensazione di freddo e profusa sudorazione. È causato probabilmente da una produzione eccessiva di insulina da parte del pancreas in risposta ad un aumento della glicemia, in seguito ad un veloce assorbimento di glucosio nel primo tratto dell’intestino tenue (4). La sindrome è più frequente ed accentuata nei primi 2-3 mesi dopo l’intervento chirurgico.

Esofagite da reflusso
L’esofagite da reflusso alcalino si osserva in circa il 25% dei pazienti sottoposti a gastrectomia totale; di essi, circa l’83% lamenta pirosi. Nonostante questo, i dati relativi alla valutazione del pH esofageo nei pazienti sottoposti a gastrectomia totale non sono risultati modificati in maniera statisticamente significativa, sia nei pazienti che avevano sia in quelli che non avevano un’esofagite endoscopica, definita in base ai criteri di Los Angeles (4). Secondo Yumiba et al. (5), la misurazione dell’assorbimento della bilirubina è un esame più appropriato della pHmetria esofagea per la valutazione quantitativa del reflusso di bile in esofago e della conseguente esofagite alcalina.

Perdita di peso – Malnutrizione
La perdita di peso è un sintomo particolarmente frequente nel paziente gastrectomizzato, a prescindere dall’eventuale ripresa di malattia. Nel lungo termine, si può osservare lo sviluppo di malnutrizione secondaria al ridotto apporto di calorie e nutrienti. Di conseguenza, è necessario il continuo monitoraggio dello stato nutrizionale con la valutazione dei parametri antropometrici e biochimici (4).

Malassorbimento di calcio
L’assorbimento ridotto di calcio, a causa dell’esclusione del duodeno e del digiuno prossimale, di vitamina D, a causa del malassorbimento dei grassi e/o dell’insufficiente assunzione orale di vitamina D e di calcio, sono considerati possibili cause di malattie metaboliche dell’osso, come l’osteomalacia, l’osteoporosi od una combinazione di entrambe (6,7). Dopo una gastrectomia totale vengono osservati ridotti livelli di calcio e di 25-idrossivitamina D ed aumento dei livelli dell’ormone paratiroideo (PTH) e di 1,25-idrossi vitamina D nel sangue (7). Diversi studi hanno documentato le conseguenze a lungo termine della ridotta densità minerale ossea e della maggiore prevalenza di fratture dopo una gastrectomia. Lo studio di Glatzle et al. (7) ha mostrato una prevalenza sia di osteoporosi sia di fratture vertebrali del 25%, nella popolazione di pazienti sottoposti a gastrectomia totale con follow-up di almeno 5 anni. Secondo Ichikawa et al. (6), anche se non clinicamente percepibili, le anomalie del metabolismo del calcio si verificano già nel primo periodo post-operatorio.

Diarrea – Steatorrea
La diarrea è uno dei sintomi più frequenti nella fase post-operatoria, presente in oltre il 30% dei casi (4). La presenza di materiale indigerito od osmoticamente attivo contribuisce negativamente all’assorbimento dei nutrienti, determinando quella che nel gastroresecato costituisce la sequela più comune (8). E’ spesso associata ad un aumento consistente dell’escrezione fecale dei grassi (steatorrea). La steatorrea è causata dalla diminuita secrezione cloridro-peptica che, favorendo la proliferazione batterica del tratto prossimale dell’intestino e la deconiugazione dei sali biliari, ostacola la formazione delle micelle e favorisce il malassorbimento lipidico (4).

Anemia sideropenia
In letteratura, la prevalenza di anemia da carenza di ferro nei pazienti gastrectomizzati varia dal 15% al 54% ed è probabilmente causata dalla riduzione della solubilità del ferro inorganico, a sua volta dovuta alla diminuita/assente secrezione acida dello stomaco. Fattori concausali possono essere la riduzione dell’assorbimento a causa dell’esclusione del duodeno, l’esofagite alcalina secondaria da reflusso biliare o, ancora, la ridotta assunzione con la dieta (9).

Anemia megaloblastica
E’ una complicanza che si verifica in genere dopo 2-4 anni dalla chirurgia, una volta che sono esaurite le scorte corporee di vitamina B12 (10). Si stima che il 20% del totale dei pazienti gastroresecati sviluppino anemia megaloblastica, prevalenza più bassa di quella osservata per l’anemia sideropenica. Nei pazienti sottoposti a gastrectomia totale che sviluppano anemia megaloblastica, si verifica insufficiente produzione del fattore intrinseco, con conseguente riduzione di assorbimento della vitamina B12 nell’ileo ed eritropoiesi       displastica (11).

Dieta nel paziente gastrectomizzato totale
Dopo l’intervento di gastrectomia totale vi è una fase di catabolismo accentuato, che interessa però la sola fase post-operatoria. Il grado di catabolismo (come la spesa energetica a riposo) è invece nella norma o ridotto nei pazienti gastrectomizzati non complicati ed in condizioni stabilizzate.
Il supporto nutrizionale nel paziente gastrectomizzato ha lo scopo di prevenire la malnutrizione e l’accelerato catabolismo, attraverso la redistribuzione dei macronutrienti ed un’adeguata supplementazione dei micronutrienti (Tabella 1). Una corretta impostazione della dieta favorisce la guarigione tessutale dopo la chirurgia, integra le carenze nutrizionali causate dall’asportazione dello stomaco, mette la porzione residua dell’apparato gastroenterico in condizioni di vicariare funzioni fisiologicamente non di sua pertinenza, rinforza il sistema immunitario ed elimina, od almeno riduce, la sintomatologia causata dalle diverse sindromi post-gastrectomia (4). Inoltre, pur in assenza di forti evidenze di efficacia è consigliata anche una supplementazione di enzimi pancreatici.

Tabella 1 Caratteristiche della dieta per il paziente gastrectomizzato (4)

Dumping syndrome
Se il sintomo è precoce, è necessaria un’attenta valutazione della dieta, che limiterà gli zuccheri semplici aumentando, invece, quelli complessi e separando i cibi solidi dai liquidi. Anche la presenza di piccoli pasti, che includono sia proteine sia grassi, può aiutare a ridurre l’incidenza di dumping syndrome precoce. Se il sintomo è tardivo, generalmente si risolve con l’ingestione di glucidi complessi o minime quantità di zuccheri semplici e carboidrati raffinati ad ogni pasto, consumando separatamente i cibi liquidi e quelli solidi (4).

Esofagite da reflusso
I pazienti con eccessivo reflusso di bile e gravi sintomi correlati dovrebbero essere sottoposti, nelle 24 ore, al monitoraggio dei succhi biliari in esofago per confermare l’origine dei loro sintomi. Una volta confermato il quadro clinico secondario a reflusso di bile, se questo è molto grave, può essere considerata l’opzione chirurgica di un allungamento dell’ansa anastomizzata all’esofago (12,13).

Perdita di peso – Malnutrizione
Il paziente dovrà essere incoraggiato a consumare pasti piccoli e frequenti, ricchi, in particolare, di proteine e carboidrati complessi. Potrebbe essere utile l’inserimento nella dieta di supplementi ipercalorico-proteici assunti in piccoli sorsi durante l’arco della giornata (4).

Malassorbimento di calcio
Ad oggi, solo pochi studi hanno esaminato la supplementazione di calcio e vitamina D dopo gastrectomia. In assenza di una misura di documentata efficacia per aumentare la densità minerale ossea in questa categoria di pazienti, la raccomandazione generale è di supplementare la dieta con calcio e vitamina D per prevenire la perdita ossea indotta dalla gastrectomia totale (7). Secondo Ichikawa et al. (6), è consigliata una somministrazione precoce sia di calcio sia di vitamina D, in forma di lattato di calcio (3 g/die) ed alfa-cocalciferolo (1 μg/die). Poiché i bifosfonati si sono dimostrati efficaci nell’aumentare la densità minerale ossea e nel ridurre il tasso di fratture vertebrali nelle donne con osteoporosi, il loro impiego è stato proposto anche nei pazienti gastrectomizzati totali con ridotta densità ossea (7). Oltre alla supplementazione farmacologica, gli stessi Autori raccomandano che i pazienti assumano pesce almeno 1 volta alla settimana e latte o derivati almeno 1 volta al giorno.

Diarrea – Steatorrea
Può essere utile una riduzione dei grassi nella dieta, raccomandando una rigida esecuzione della dieta frazionata in pasti piccoli e frequenti (6-7/die) (4).

Anemia sideropenia
Secondo Love et al. (14), è opportuno iniziare la supplementazione orale di ferro nei pazienti che abbiano livelli di emoglobina superiori a 10 g/dL (14). Il solfato ferroso (325 mg, idrato) o fumarato ferroso (200 mg) forniscono 65 mg di ferro per capsula. Si deve istruire il paziente ad assumere da 1 a 2 capsule al giorno per prevenire la carenza di ferro o da 3 a 4 capsule al giorno per il trattamento di pazienti con carenza documentata. Se i parametri non migliorano dopo alcune settimane di terapia, il dosaggio dovrebbe essere aumentato. Può essere assunto un preparato liquido quando le capsule non sono ben tollerate. Gli alimenti ricchi di calcio, come tè, cereali e crusca, riducono l’assorbimento del ferro e non dovrebbero essere consumati insieme o subito dopo la dose di ferro. Nei pazienti che rimangono refrattari alla supplementazione orale potrebbe essere necessario il trattamento con ferro parenterale, soprattutto se sintomatici e/o con livelli di emoglobina < 10 g/dl. La via di somministrazione endovenosa è meglio tollerata di quella intramuscolare e pertanto dovrebbe essere preferita. Le formulazioni come ferro destrano (50 mg di ferro elementare/ml), ferrico ossido saccarato (20 mg di ferro elementare/ml) o sodio ferrigluconato (12.5 mg/ml) possono essere utilizzate, calcolando la quota necessaria di ferro secondo la seguente formula:
Ferro (mg) = [0.3 x peso corporeo del paziente in kg x 2.2 x 100 (14.8 – emoglobina del paziente)] / 14.8.
La maggior parte dei pazienti adulti con deficit di ferro richiede da 1 a 2 g di ferro o da 20 a 40 ml di ferro destrano. I pazienti obesi possono avere necessità più elevate. La dose è in genere somministrata diluita in soluzione salina in un tempo di almeno 1 o 2 ore. Alcuni pazienti possono richiedere la somministrazione di ferro per via endovenosa più volte all’anno per mantenere le riserve (14). Dal punto di vista dietetico, i pazienti dovrebbero essere incoraggiati ad assumere alimenti ricchi in ferro facilmente assorbibile come la carne rossa ed il fegato. È meno assorbibile, invece, il ferro non-eme di cui sono ricchi alcuni alimenti come cereali, tuorlo d’uovo e vegetali a foglia verde. La vitamina C aumenta l’assorbimento di ferro, di conseguenza se ne suggerisce l’assunzione durante i pasti inserendo nella dieta agrumi come arancia, limone e pompelmo. Al contrario, il tè ne diminuisce l’assorbimento, quindi se ne sconsiglia l’uso oppure l’assunzione lontana dal pasto (1-2 ore di distanza) (15).

Anemia megaloblastica
Attualmente, non vi sono test gold standard per la diagnosi di carenza di vitamina B12. Quando i livelli plasmatici di vitamina B12 sono < 150 ng/L e/o si sospetta un’anemia megaloblastica da carenza di vitamina B12 è consigliata la ripetizione del dosaggio, insieme alla determinazione dei livelli di omocisteina e di acido metilmalonico nel sangue (11). Secondo Dali-Youcef et al. (16), i pazienti con carenza di vitamina B12 dovrebbero ricevere 1.000 μg/giorno di cianocobalamina per via parenterale (intramuscolare o sottocutanea) per una settimana, seguiti da 1.000 μg/settimana per un mese e poi 1.000 μg/mese per tutta la vita. In alternativa, è efficace la stessa dose di idrossicobalamina somministrata per via intramuscolare ogni 1-3 mesi per tutta la vita. Questa forma di cobalamina si deposita maggiormente e più a lungo nei tessuti rispetto alla cianocobalamina e, quindi, può essere somministrata con minore frequenza (11). Anche se disponibile, il trattamento con cobalamina orale non è ancora stato pienamente convalidato nella pratica clinica in termini di efficienza a lungo termine (10). Si consiglia di eseguire una determinazione dell’emocromo una volta all’anno nei pazienti in trattamento a lungo termine per carenza di vitamina B12 (11).

TBC
Infine, per quanto riguarda l’importante e dibattuta relazione tra gastrectomia ed insorgenza di TBC, almeno in Giappone tale associazione è stata accertata oltre ogni dubbio (17).

BIBLIOGRAFIA

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17. Yokoyama T, Sato R, Rikimaru T, Hirai R, Aizawa H. Tuberculosis associated with gastrectomy. J Infect Chemother 2004 Oct;10(5):299-302

16.2 Helicobacter pylori e cancro gastrico

Il cancro gastrico rappresenta nel mondo il quarto tumore in termini di incidenza ed il secondo per mortalità, responsabile del 10.4% delle morti dovute a cancro (vedi cap. 1.0).
Molti fattori di rischio sono stati identificati, la maggior parte dei quali correlati ad abitudini alimentari e stili di vita, tra i quali una dieta ricca di sale e le abitudini voluttuarie, come il consumo di alcool ed il fumo di tabacco.
Nel 1983, due ricercatori australiani, Warren e Marshall (1), hanno dimostrato la presenza di un batterio spiraliforme, Gram negativo, con uno spiccato tropismo per la mucosa gastrica, chiamato successivamente Helicobacter pylori. L’infezione viene acquisita generalmente durante l’infanzia e, se il paziente non viene sottoposto ad adeguate terapie eradicanti, l’infezione può persistere per tutta la vita. Il fumo, l’assunzione di alcolici e la dieta non sembrano correlati all’infezione da H.pylori. Il batterio si può trasmettere per via sia oro-orale sia oro-fecale e l’esistenza di una trasmissione dell’infezione da persona a persona è suggerita dalla frequente diffusione intra-familiare.
La presenza del batterio nello stomaco determina nella totalità dei casi la comparsa di una gastrite cronica; l’infezione è stata, inoltre, correlata all’insorgenza dell’ulcera peptica, del cancro e del linfoma gastrico.
Molti meccanismi patogenetici circa il ruolo dell’infezione nella carcinogenesi gastrica sono stati proposti, ma si pensa che il meccanismo primario sia rappresentato dall’infiammazione cronica gastrica. Da un punto di vista patogenetico, il danno da infezione da H.pylori è legato sia a fattori di pertinenza microbica (ureasi, enzimi litici come lipasi e fosfolipasi, tossine e citotossine) sia a fattori di pertinenza dell’ospite (reazione flogistica cronica con richiamo di cellule infiammatorie, produzione di citochine ed attivazione del sistema immunitario). L’H.pylori è in grado di sopravvivere nell’ambiente acido dello stomaco mediante la produzione di ureasi, che catalizza l’idrolisi dell’urea presente nel lume gastrico in ammoniaca e bicarbonati. Inoltre, il batterio è dotato di flagelli unipolari che lo rendono mobile, permettendo, insieme alla produzione di enzimi mucolitici, di penetrare nello strato di muco.
La colonizzazione gastrica da parte del batterio induce una risposta infiammatoria con attivazione iniziale di neutrofili e, in seguito, di linfociti B e T, macrofagi e plasmacellule. Questo intenso infiltrato infiammatorio determina la produzione di composti reattivi dell’ossigeno e dell’azoto, come l’ossido nitrico, implicati nel danno epiteliale e nella carcinogenesi. Lo stress ossidativo danneggia le cellule epiteliali, incrementando i danni a carico del DNA ed inibendo i meccanismi di riparazione, alterando pertanto i processi di controllo della proliferazione cellulare.
Inoltre, la produzione di metalloproteasi della matrice (Matrix Metallo Proteinases, MMP-p e MMP-2), da parte delle cellule infiammatorie e stromali, ha un ruolo importante nel rimodellamento tessutale e sembra inoltre essere implicata nei processi infiammatori e di carcinogenesi. Livelli aumentati di MMP-2 e MMP-9 sono stati riportati nei pazienti con cancro gastrico e si riducono significativamente dopo l’eradicazione dell’infezione da H.pylori.
Il danno mucoso gastrico è anche determinato da fattori di virulenza batterica codificati dall’isola di patogenicità cag, in particolare la proteina citotossica A (CagA) e la citotossina vacuolizzante A (VacA). La maggior parte dei ceppi di H.pylori esprime la proteina VacA, una tossina che entra nelle membrane delle cellule epiteliali ed induce la formazione di vacuoli; questo, oltre ad alterare l’integrità cellulare, determina il rilascio del citocromo C dai mitocondri ed induce l’apoptosi. Alti gradi d’infiammazione sono inoltre associati ad infezione con ceppi H.pylori CagA-positivi e la gastrite cronica indotta da tali ceppi batterici aumenta il rischio di cancro fino a 1.64 volte. Inoltre, la presenza della citotossina CagA determina un aumento dell’espressione dell’enzima ciclossigenasi-2 (COX-2) sia nella mucosa gastrica sia nel cancro, che promuove il processo di cancerogenesi aumentando la proliferazione cellulare, inibendo l’apoptosi ed aumentando l’invasività delle cellule maligne. L’espressione dell’enzima COX-2 diminuisce significativamente dopo l’eradicazione dell’infezione da H.pylori. Inoltre, la somministrazione di inibitori selettivi od aspecifici dell’enzima COX-2, come i farmaci anti-infiammatori non-steroidei, sembrano ridurre il rischio di cancro gastrico non-cardiale. D’altra parte, la tossicità di tali farmaci non permette un loro uso a fine chemiopreventivo.
L’infezione da H.pylori ha rivoluzionato l’approccio alle malattie del tratto digestivo superiore. L’associazione di questo batterio con i processi di carcinogenesi gastrica è stata ormai ampiamente documentata. L’H.pylori è tutt’oggi riconosciuto come un forte fattore di rischio del cancro gastrico ed è stato classificato dall’Agenzia per la Ricerca sul Cancro (IARC) come agente carcinogeno di gruppo I, come il fumo di sigaretta per il cancro del polmone (2).
In particolare, negli ultimi due decenni, studi epidemiologici su larga scala, meta-analisi di studi caso-controllo e modelli animali sperimentali hanno ampiamente documentato l’associazione tra infezione da H.pylori e cancro gastrico. Nel 2001, l’Helicobacter and Cancer Collaborative Group ha pubblicato una meta-analisi che includeva esclusivamente studi prospettici, dimostrando una significativa associazione tra l’infezione da H.pylori e il cancro gastrico non-cardiale, con una Odds Ratio (OR) di 2.97 (95% Intervallo di Confidenza (IC): 2.34 – 3.77) (3). Nessuna associazione è stata invece dimostrata per il cancro gastrico cardiale.
L’evidenza più solida della correlazione tra infezione da H.pylori e carcinogenesi gastrica proviene dagli studi prospettici di coorte. Un’analisi combinata di 12 studi prospettici ha dimostrato un aumento di 6 volte il rischio di sviluppare un cancro gastrico dopo un follow-up di 10 anni.
Una volta stabilito il ruolo dell’infezione da H.pylori nella carcinogenesi gastrica, sono stati concepiti molti studi per valutare l’effetto dell’eradicazione dell’infezione nella prevenzione primaria e secondaria del cancro gastrico (4). La maggior parte degli studi, seppur condotti in aree ad alta incidenza e prevalenza di cancro gastrico, non raggiungono un adeguato campione statistico per dimostrare un’eventuale differenza tra il gruppo trattato con terapia eradicante e quello trattato con placebo o non trattato (5).
Sarebbe infatti necessario arruolare diverse migliaia di soggetti per almeno 10 anni per raggiungere un adeguato campione statistico. Per questo motivo, molti studi hanno valutato come outcome primario l’effetto dell’eradicazione dell’infezione da H.pylori sulle lesioni pre-neoplastiche gastriche (atrofia, metaplasia intestinale e displasia). La quasi totalità degli studi ha riportato una regressione, od una non progressione, di tali lesioni dopo l’eradicazione.
Solo due studi randomizzati controllati sono stati condotti con obiettivo primario di prevenire lo sviluppo del cancro gastrico (6,7). Entrambi gli studi sono stati realizzati in aree ad alto rischio di cancro gastrico, Cina e Giappone, e hanno concluso che l’eradicazione dell’infezione previene in modo efficace lo sviluppo del cancro gastrico. Nello studio cinese, tale prevenzione ha effetto soprattutto nei pazienti in cui non si sono sviluppate le lesioni pre-neoplastiche (atrofia, metaplasia intestinale e displasia), mentre nello studio giapponese l’effetto chemiopreventivo della terapia eradicante non sembra solo esclusivamente confinato alle fasi iniziali della carcinogenesi, ma anche a quelle più avanzate.
Nel 2009, è stata pubblicata una meta-analisi di studi randomizzati controllati per determinare se la terapia eradicante sia una strategia preventiva efficace nel ridurre il rischio di cancro gastrico non-cardiale (8). Valutando un totale di 6.143 partecipanti, la meta-analisi ha mostrato un trend della terapia eradicante nel ridurre il rischio d’insorgenza del cancro gastrico (Rischio Relativo 0.65; 95% IC, 0.42-1.01; p=0.05). E’ importante notare che la maggior parte dei pazienti, al momento dell’arruolamento nei vari studi, aveva già sviluppato gastrite atrofica o metaplasia intestinale, suggerendo che la terapia eradicante potrebbe incidere anche nelle fasi più avanzate della carcinogenesi gastrica e che quest’ultima possa essere perfino interrotta in seguito all’eradicazione dell’infezione da H.pylori. D’altra parte, questa meta-analisi dimostra anche che il rischio di sviluppare un cancro gastrico dopo l’eradicazione è ridotto, ma non abolito.
Sarebbero pertanto necessari ulteriori studi di conferma dell’effetto preventivo dell’eradicazione dell’H.pylori sul rischio di sviluppare il cancro gastrico. Tuttavia, nuovi studi clinici sono difficilmente realizzabili per problemi logistici, metodologici ed economici; soprattutto, non trattare pazienti H.pylori-positivi con lesioni preneoplastiche o con Early Gastric Cancer non sarà più possibile per ragioni etiche.
Quasi metà della popolazione mondiale è portatrice d’infezione da H.pylori, ma solamente alcuni sviluppano cancro gastrico. Pertanto, una diffusa campagna di eradicazione non sarebbe né fattibile né consigliabile, soprattutto nei Paesi a bassa prevalenza di cancro gastrico. Appare comunque opportuno in caso di diagnosi d’infezione da H.pylori, in presenza o meno di lesioni preneoplastiche, prescrivere una terapia eradicante (9).
Occorre, infine, ricordare che il cancro gastrico, come molte altre neoplasie, ha una patogenesi multifattoriale, per cui eradicare l’infezione da H.pylori riduce, ma non abolisce, il rischio di insorgenza di tumore. Pertanto, anche dopo eradicazione dell’infezione è opportuno, in presenza di lesioni pre-neoplastiche, continuare un follow-up endoscopico.

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8. Fuccio L, Zagari RM, Eusebi LH, Laterza L, Cennamo V, Ceroni L, Grilli D, Bazzoli F. Meta-analysis: can Helicobacter pylori eradication treatment reduce the risk for gastric cancer? Ann Intern Med 2009; 151:121-8

9. Graham DY, Shiotani A. The time to eradicate gastric cancer is now. Gut 2005; 54:735-8

16.3 Percorso diagnostico-terapeutico del paziente con carcinoma gastrico

Il trattamento della patologia oncologica è ormai così complesso da dover essere affrontato contemporaneamente da professionisti con competenze diverse. Questo fatto rende spesso accidentato il cammino del paziente, che si trova a fare da intermediario fra persone che non comunicano direttamente fra loro, quando invece dovrebbero accompagnarlo, facendolo sentire realmente al centro dell’interesse di un sistema che lavora in modo interdisciplinare e interprofessionale e che si prende in carico la sua situazione sanitaria globale.
Diventa quindi cruciale la comunicazione fra le varie componenti dell’organizzazione sanitaria tra loro ed il paziente, con una chiara esplicitazione dei vari passi che vengono intrapresi. E’ quindi necessario un percorso diagnostico-terapeutico condiviso, che faccia da traccia comune e che eviti incomprensioni e contrasti, che spesso sono alla base del trattamento non adeguato del paziente.

1 – Sospetto diagnostico
Visto che un vero screening del carcinoma gastrico non è attualmente proponibile, la diagnosi si basa sulla valutazione dei sintomi riportati dal paziente. Questi purtroppo sono spesso aspecifici, visto che i sintomi ed i segni più significativi (dimagrimento, ematemesi e melena) sono in genere caratteristici della malattia in fase avanzata. La diagnosi differenziale dei sintomi dispeptici e l’avvio all’esame endoscopico sono compito precipuo del Medico di Medicina Generale (MMG), che deve richiedere la gastroscopia con una specificità tale da evitare un eccesso di esami inutili, ma con una sensibilità sufficiente a non farsi sfuggire i pazienti con patologia importante.
Questo è particolarmente difficile, considerata la frequenza dei sintomi dispeptici e la relativa rarità della neoplasia gastrica nella popolazione che viene in contatto con il proprio medico di famiglia: non più dell’1% dei pazienti che si presenta con sintomi dispeptici rivela poi di essere portatore di un carcinoma gastrico (1).
Ci sono ovviamente condizioni, sintomi e segni che possono orientare nel percorso verso l’esecuzione di un esame endoscopico (Tabella 1). Tuttavia, il problema del difficile rapporto tra sintomatologia e diagnosi (2) è aggravato dal fatto che i sintomi dispeptici tendono frequentemente a recidivare e cronicizzare (3), rendendo quindi ancor più difficile identificare una neoplasia gastrica in un paziente ormai classificato come affetto da dispepsia benigna. E’ evidente che uno stretto rapporto ed una buona collaborazione fra MMG e specialista può migliorare l’appropriatezza degli accertamenti diagnostici e facilitare il percorso dei casi più complessi (4,5).

Tabella 1

Importantissima è anche la strategia dell’attesa vigile: un tentativo terapeutico, seguito da un attento riesame del paziente e l’invio all’esame endoscopico in caso di mancata risposta alla terapia adeguata o di rapida recidiva dei sintomi, alla sospensione della terapia.

2 – Diagnosi, staging e terapia
Una volta eseguito l’esame endoscopico e fatta quindi la diagnosi, il paziente deve essere avviato al percorso diagnostico e di staging e successivamente alla terapia più opportuna: tutto questo è ovviamente compito del gruppo interdisiciplinare specialistico, di cui però è opportuno faccia parte integrante anche il team delle cure primarie. Si sta infatti sempre più affermando, anche in Italia, l’idea di un’organizzazione delle cure primarie, in cui il MMG venga affiancato da altri professionisti, soprattutto per seguire i pazienti con le patologie più impegnative: prima di tutto l’infermiere, ma, per problemi specifici, il dietista, il fisioterapista, ecc. Il team così costituito deve essere in costante contatto con la struttura specialistica ed ospedaliera, con la quale deve condividere i percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali.
Nel caso del paziente con patologia oncologica e, in particolare, con neoplasia gastrica, il team delle cure primarie deve partecipare alle varie fasi del cammino del paziente in ambiente ospedaliero, accompagnandolo ed affrontando, insieme ai colleghi specialisti, le difficoltà, i fraintendimenti e le ansie che inevitabilmente si presenteranno. In particolare, i “curanti” dovrebbero far sentire il paziente al centro della loro attenzione, offrendogli la sicurezza di un percorso condiviso, piuttosto che consigli e considerazioni diversi, che spesso provocano incertezza e sconcerto, dando il via a pericolosi e spiacevoli “viaggi della speranza”.
D’altra parte, la partecipazione del team territoriale al percorso di cura è fondamentale anche in considerazione dei sempre più brevi periodi di ricovero ospedaliero: molto spesso, il paziente viene seguito dall’équipe specialistica in day hospital o mediante appuntamenti ambulatoriali, rimanendo quindi per gran parte del tempo della fase diagnostica e terapeutica al proprio domicilio ed avendo quindi come referente immediato il MMG.
In particolare devono essere condivisi:

– le decisioni terapeutiche che, anche se sono ovviamente in mano agli specialisti, dovrebbero essere condivise con il MMG, che conosce bene le attitudini ed i desideri del paziente e della sua famiglia e che può orientare le scelte anche sulla base di elementi extra-clinici, che però si rivelano spesso fondamentali per una buona riuscita dell’iter terapeutico;

– il decorso post-chirurgico con il controllo dei problemi nutrizionali;

– la terapia medica per la gestione degli effetti collaterali;

– la diagnosi ed il trattamento dei sintomi e delle malattie intercorrenti.

3 – Follow-up
Il follow-up dei pazienti neoplastici viene attualmente eseguito dalle strutture specialistiche oncologiche, ma si parla con sempre maggior frequenza di affidare alle cure primarie almeno i pazienti con prognosi migliore.
Questo permetterebbe di riservare l’accesso alle strutture specialistiche ai casi che realmente ne abbiano la necessità, riducendo anche l’ansia che inevitabilmente accompagna il ritornare, anche se a distanza di molto tempo, nella situazione della malattia.
Anche se sono sempre più numerose le esperienze riportate in letteratura sull’argomento (6), resta da valutare l’efficacia di un follow-up di questo tipo, che comunque richiede, ancora una volta, uno strettissimo contatto tra l’équipe territoriale e quella specialistica, anche per la gestione dei dati.

4 – Cure palliative
Purtroppo il carcinoma gastrico continua ad avere una prognosi non buona e spesso risulta già in fase avanzata alla diagnosi. Non è quindi raro dover affrontare il problema dell’abbandono delle terapie specifiche della malattia e del passaggio alle cure palliative.
Questo è un passaggio molto delicato, che deve essere condiviso fra i “curanti” e comunicato ed approvato dal paziente e dalla famiglia: è in gran parte dipendente dalla cattiva gestione di questa fase l’accesso frequente al pronto soccorso ed al ricovero ospedaliero dove finiscono per non ricevere le risposte adeguate al loro stato.
La cultura delle cure palliative dovrebbe essere maggiormente diffusa in tutti gli ambiti sanitari, anche se è il territorio più che l’ospedale a doversi far carico di questa fase. In particolare, è il MMG con l’infermiere a dover gestire il primo livello di cure palliative, facendo riferimento alla consulenza dello specialista palliativista. Quando necessario, per esigenze cliniche, relazionali, di eccessivo carico sulla famiglia, deve essere attivata la presa in carico da parte dell’équipe territoriale di cure palliative e l’eventuale successivo accesso alle strutture di Hospice.

5 – Strumenti
La necessità di una gestione multidisciplinare e multiprofessionale è destinata a rimanere inevasa, in assenza di meccanismi che facilitino la condivisione dei Percorsi Diagnostico-Terapeutici Assistenziali e la loro implementazione nell’attività quotidiana.
Gli strumenti più efficaci di comunicazione, quali la discussione del caso in una riunione fra i professionisti interessati e la consulenza telefonica, soprattutto se riguardano persone fisicamente lontane come accade alle strutture territoriali, devono essere riservati a casi ed a momenti particolari. E’ necessario sviluppare l’uso di tecnologie, ormai alla portata di tutti, che consentano minori spostamenti e minor tempo, quali la comunicazione tramite e-mail o videoconferenze.
E’ necessario, inoltre, l’uso di cartelle cliniche condivise che consentano una consultazione della situazione del paziente da parte di tutti i componenti dell’équipe curante, senza dover necessariamente prendere un contatto diretto con i colleghi.
La presenza di un database condiviso consentirebbe anche, nell’eventualità di un follow-up da parte delle cure primarie, un’attività di controllo periodico dei dati, che resta fondamentale sia per la formazione sia per la produzione di dati scientifici.

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