Anemia falciforme: le corrette linee guida a tavola

La drepanocitosi, chiamata anche anemia a cellule falciformi o falcemia, è una condizione patologica profondamente disagiante per le persone affette. Diverse centinaia di migliaia di persone nei vari continenti ne soffrono, con variabilità e gravità della sintomatologia. Fu descritta nel 1910 da Herrick e poi studiata a livello molecolare da Linus Pauling nel 1949. La causa risiede nella mutazione del gene della catena beta dell’emoglobina umana; nello specifico un residuo di acido glutammico in posizione 6 della sequenza della proteina, viene sostituito con un residuo di valina (mutazione E6V). Questo comporta una variazione di solubilità della proteina, che diminuisce così la sua affinità per l’ossigeno, affinità che si riduce ulteriormente se è deossigenata. L’emoglobina mutata è designata come emoglobina S (HbS, da sickle = falce).
La malattia si caratterizza per pallore, facile affaticabilità, mal di testa e soprattutto dalla comparsa di crisi dolorose, soprattutto viscerali e periferiche. Si tratta di episodi isolati, con insorgenza improvvisa e variabili per intensità e durata (da poche ore fino a qualche settimana). Il motivo di queste crisi è l’ostruzione al flusso sanguigno, determinata dall’aggregazione dei globuli rossi falciformi; fattori precipitanti sono un ambiente poco ossigenato o eccessivamente freddo, un’infezione sopravveniente o una improvvisa acidosi del sangue. La sindrome polmonare acuta è una delle complicanze più pericolose dell’anemia falciforme, nonché la principale causa di morte. Simile a una polmonite, è causata dall’infiltrazione di globuli rossi nei polmoni o da processi infettivi degli stessi. La possibile occlusione dei capillari predispone sicuramente i pazienti a un maggior rischio d’ictus cerebrale; stasi capillare e trombosi possono determinare infarti secondari anche a livello retinico, osseo, renale ed epatico.
Le speranze terapeutiche della drepanocitosi fino agli anni Settanta erano limitate alla rimozione chirurgica della milza (splenectomia), data l’esagerata attività di quest’organo nella distruzione dei globuli rossi (emocateresi). L'altro cardine consisteva nelle emotrasfusioni cicliche per sopperire all’abbassamento ematico delle concentrazioni di emoglobina. Alcune speranze future sono state accese dalla possibilità di ricorrere alle cellule staminali. I costi sanitari di mantenimento sono, però, davvero sproporzionati rispetto al numero complessivo di pazienti affetti nel globo. La maggior parte dei pazienti affetti, inoltre, non è nelle condizioni economiche di potersi permettere trattamenti prolungati o speciali (es. tentativi di terapia genica sperimentale, tentare un trapianto di midollo o di cellule staminali).
Terapie farmacologiche selettive per la drepanocitosi non ne esistevano fino a qualche decennio fa. Una svolta si è avuta dopo l’introduzione dell’idrossi-urea (HDU), un farmaco antiblastico che viene però usato in questa malattia a dosaggi molto più bassi di quelli impiegati in campo oncologico. Il suo meccanismo è di indurre la produzione di emoglobina fetale (HbF), una forma di emoglobina a più elevata affinità per l’ossigeno e che antagonizza parzialmente gli effetti patogeni dell’HbS. Con lo stesso meccanismo, sono stati studiati degli agenti quali derivati dell’acido butirrico, la tricostatina, l’emina, la 5-azacitidina e la citarabina. La più usata resta comunque la idrossi-urea, la cui associazione con la citarabina ne riduce di entrambi le dosi terapeutiche e gli effetti collaterali, ma una sinergia di induzione della HbF. Sintomaticamente, infine, è possibile ricorrere ad alcune molecole anti-aggreganti, dal classico acetil-salicilato al clopidogrel, ed antidolorifici classici (tipo FANS) fino alla morfina per attenuare il dolore intenso nelle crisi più gravi.
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Considerata la complessità, la delicatezza e l’inguaribilità del quadro clinico, in attesa di presidi farmacologici più validi, il permettere a questa categoria d’individui di accedere a dei supplementi alimentari mirati a potenziare le difese cellulari dai danni prodotti dalle crisi ischemiche e prevenire la comparsa delle stesse, è un obiettivo prioritario per la loro qualità di vita. Non esistono precise linee guida per l’alimentazione specifica di chi è colpito da falcemia. Le seguenti raccomandazioni, tuttavia, seguono un certo razionale basato sulla radice della malattia e sulla prevenzione dei sintomi.
Adottare una dieta alcalinizzante del pH sanguigno, a base di frutta, legumi e pesce, può essere di beneficio e ridurre la comparsa delle crisi. La supplementazione con acido folico, vitamina B12 e magnesio, serve a tamponare l’anemia cronica ed al corretto metabolismo dei globuli rossi, mantenendone al tempo stesso una buona fluidità di membrana. E’ noto da tempo che alcuni amminoacidi hanno un effetto diretto di impedire la precipitazione dell’HbS, tra questi l’effetto anti-falcemizzante più pronunciato è stato riscontrato per la fenilalanina, seguito da tirosina, arginina ed acido aspartico. Non è molto pratico avere accesso a fonti commerciali individuali di questi amminoacidi a scopo alimentare, per cui potrebbe essere una buona regola consumare cibo proteico che li contiene in prevalenza. Il siero di latte come tale o in polvere, è una sorgente eccellente di questi amminoacidi.
Vi sono reviews molto recenti di una parziale efficacia clinica della supplementazione con acidi grassi poli-insaturi o PUFA, meglio conosciuti come omega-3, sulla progressione della malattia e le complicanze ischemiche. Il razionale del loro intervento sulla ratio prostacicline/trombossani è corretto anche se non specifico. Altri composti studiati come agenti anti-falcemizzanti sono stati alcuni acidi fenolici ed antociani naturali. Questi sono molto rappresentati in frutta di colore scuro, come i mirtilli, il ribes, i lamponi, le more, le ciliegie e l’uva nera. Infatti, alcuni antociani possono legarsi direttamente all’emoglobina S, e mantenerla allo stato solubile dentro l’eritrocita. Considerata la storica rinomanza di cui gode l’estratto di mirtillo in molti disturbi circolatori periferici, l’assunzione di questo come alimento o estratto farmacologico è altamente indicata come ulteriore presidio per mantenere una buona fluidità sanguigna, evitando così le dolorose quanto pericolose crisi.
articolo a cura del Dott. Gianfrancesco Cormaci – Medico specialista in Biochimica Clinica
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